Come funziona un reparto di terapia intensiva.

Articolo del 07 Novembre 2020

I reparti di terapia intensiva sono diversi dagli altri: l’estrema fragilità dei pazienti richiede un enorme sforzo organizzativo, strumentale e del personale, specialmente nel caso di una patologia straordinariamente contagiosa come COVID-19. Alcuni operatori di piccoli ospedali italiani ci hanno raccontato i problemi che devono affrontare ogni giorno.

“La vera cura dei pazienti COVID-19 in terapia intensiva è la ventilazione: il nostro lavoro è tenerli in vita affinché possano, quando possono, guarire da soli. Al momento l’unico farmaco che dà risultati è il cortisone, a cui si aggiunge l’eparina a basso peso molecolare per evitare embolie e trombosi.” Sono le parole di Maria Luisa Radice, responsabile di struttura di un piccolo ospedale di Genova, che in queste settimane si ritrova a dover riconvertire la propria terapia intensiva di 7-8 posti – perché questi sono i posti letto di una terapia intensiva di un piccolo ospedale – in reparto COVID, spostando i pazienti non COVID-19 in altre strutture.

È importante valutare la dimensione di un ospedale: abituati a sentir parlare dei grandi centri delle metropoli, fatichiamo a inquadrare l’impatto di questa pandemia sul resto del territorio.

A inizio novembre, contiamo oltre 2000 pazienti COVID-19 in terapia intensiva, l’equivalente di 200 reparti di un ospedale medio solo per pazienti positivi a COVID-19. Da più parti si levano le voci di chi sostiene che l’impatto del nuovo coronavirus sia irrisorio. Non è così: i flussi in terapia intensiva sono stati enormi, la mortalità complessiva in questi reparti è aumentata – almeno stando alle testimonianze dei nostri intervistati – e di fatto si tratta di polmoniti sempre gravissime.

La pressione sui piccoli ospedali
“La polmonite da patologia COVID correlata è molto più grave di una polmonite ‘normale’: i danni polmonari sono maggiori e soprattutto è maggiore la prevalenza di trombosi in conseguenza della malattia. Cose che io in vent’anni di lavoro non ho mai visto”, spiega Sebastiano Petracca, primario del COVID Hospital di Casalpalocco (30 posti di terapia intensiva più 19 ulteriori divisi in due sedi). “Nelle polmoniti che normalmente arrivavano in terapia intensiva il 50 per cento dei pazienti poteva superare la fase acuta con una ventilazione non invasiva, cioè con casco respiratorio e maschera full face, mentre quasi nessuno dei pazienti COVID-19 ce la fa in questo modo. Dobbiamo intubarli quasi tutti”.

Il punto è che mantenere in vita un paziente che arriva in terapia intensiva – COVID-19 o meno – richiede risorse enormi rispetto a un reparto non intensivo, sia in termini di personale che di competenza nella gestione della fragilità. Un solo paziente COVID-19 sbilancia completamente un equilibrio delicatissimo. Tenere in vita un paziente che altrimenti morirebbe in pochissimo tempo, è davvero molto complicato.

Una rianimazione non è un reparto tradizionale, come siamo abituati a immaginarlo: con una trentina di posti letto almeno, compagni di stanza, personale sanitario che arriva all’occorrenza, sala TV e sedie di plastica in corridoio per chiacchierare con gli amici. La terapia intensiva è un luogo di cura per persone con grave insufficienza di uno o più organi dove è compromessa la funzionalità vitale, e che richiedono monitoraggio continuo, cateteri e strumenti invasivi, talvolta organi artificiali.

Alcuni pazienti sono svegli (si cerca di tenerli svegli il più possibile), ma la maggior parte è sedata, per esempio chi ha subito un intervento di neurochirurgia o un trauma oppure  dopo un incidente. Tutti gli intubati, che siano o meno sedati, sono attaccati a un respiratore, non solo i pazienti COVID-19. Tutti hanno un catetere vescicale, perché il paziente in terapia intensiva non può alzarsi dal letto, non può lavarsi né andare ai servizi.

Un incastro perfetto
Lavorare lì dentro significa realizzare un incastro perfetto di gesti, sguardi, cenni, senza perdere un dettaglio, senza sbagliare. Ce lo racconta molto bene un’infermiera di un ospedale universitario del nord est, con 13 anni di esperienza di lavoro in terapia intensiva alle spalle. L’ospedale universitario in questione, non fra i più piccoli, ha tre terapie intensive: una con 12 posti letto, e due da 8 posti ciascuna.

“I pazienti sono monitorati in continuo dagli infermieri tramite i monitor che mostrano i parametri vitali. Controlliamo costantemente frequenza cardiaca, pressione sistolica e diastolica media, pressione venosa centrale, valori legati alla respirazione, diuresi, pressione arteria polmonare, pressione intracranica e gettata cardiaca se il paziente ha problemi al cuore.”

Infine, oltre alla ventilazione, ai cateteri, e all’eventuale nutrizione parenterale cioè fatta in vena, ci sono i farmaci, che sono infusi nel paziente con pompe attaccate a cateteri venosi composti da più “lumi”, che normalmente permettono di somministrare da due a più farmaci ciascuno.

L’importanza dei dettagli
“I farmaci vanno calibrati con un’attenzione certosina. Un paziente non fra i più gravi ha almeno tre farmaci in infusione, mentre uno fragilissimo può averne anche 20 diversi distribuiti su più lumi”, spiega l’infermiera. “Una volta mi è capitato un paziente con 24 farmaci e 8 lumi. Abbiamo fatto un disegno appeso alla parete per non sbagliare neanche un minimo gesto.”

È fondamentale sapere se i farmaci che servono possono essere infusi insieme, se sono compatibili, in che dosaggio e con quale velocità, cioè quali sono i volumi di spinta tramite la pompa, affinché l’afflusso dell’uno non danneggi l’apporto dell’altro, trattandosi spesso di farmaci fondamentali per il mantenimento delle funzioni vitali. Più volte al giorno ai pazienti viene prelevato e analizzato il sangue, e vengono fatte medicazioni dalle più semplici alle più complesse.

Poi c’è il resto: le cosiddette “cure fondamentali” dell’infermiere, che richiedono molto tempo. Sì, perché in un reparto ad alta fragilità, l’igiene personale del paziente la deve eseguire l’infermiere, con l’ausilio del medico e degli operatori sociosanitari, per evitare rischi gravi; solitamente si procede al mattino, mentre si controlla tutto quanto appena detto.

Da due a cinque operatori
“Ruotare un paziente così fragile, attaccato a molte macchine, è rischioso, richiede almeno due-tre persone (la pronazione, cioè mettere una persona a pancia in giù, addirittura cinque operatori), specie se il paziente è sedato o curarizzato, cioè paralizzato. “Sta a noi evitare distorsioni, problemi alla colonna vertebrale, ai muscoli, ai tendini, alle articolazioni, e la maggior parte dei pazienti in terapia intensiva è in sovrappeso”, continua Radice.

Un altro aspetto importantissimo e peculiare delle terapie intensive è legato agli spostamenti, per esempio per eseguire una TAC o una risonanza magnetica. Il paziente va staccato dalle macchine e attaccato a macchinari sostitutivi portatili e ricalibrato, per poi lasciare la terapia intensiva con almeno un medico e un infermiere.

Ciò significa che il turno rimane momentaneamente con meno personale per gestire le emergenze, che possono verificarsi sempre. Un turno tipo di una terapia intensiva con 12 posti letto, prevede 1 o 2 medici (2 al mattino) e 6-7 infermieri (7 al mattino, 6 nel pomeriggio e durante la notte). Numericamente le terapie intensive sono programmate affinché ogni infermiere gestisca due pazienti o al massimo tre e tendenzialmente ognuno ha i propri pazienti, anche se deve essere consapevole delle condizioni cliniche degli altri, per intervenire in modo corretto in caso di emergenza.

Già prima di COVID-19, i reparti erano quasi pieni, fra urgenze da pronto soccorso  – per esempio per incidenti stradali –  aggravamenti da reparto e persone che hanno subito un delicato intervento chirurgico per cui si pianifica un ricovero in terapia intensiva per eventuali complicazioni. “Non eravamo in difficoltà – spiega Petracca – ma certo, lavoravamo già a pieno regime. COVID-19 ha cambiato tutto. Trattandosi di una malattia tremendamente contagiosa, in un luogo a fragilità così elevata, i pazienti COVID-19 vanno isolati, e questo significa una gestione del lavoro davvero molto pesante.”

La carenza di personale
In questo contesto, un medico o un infermiere malato sono un problema enorme. Per questo articolo avevamo interpellato anche una struttura siciliana, che ci ha gentilmente risposto che il carico di lavoro sul personale è così ingente che hanno deciso di sospendere le interviste.

“Da noi in terapia intensiva. COVID-19 il peso lo ha avuto: durante la prima ondata il tasso di mortalità complessivo che ho rilevato nel mio reparto è stato significativamente maggiore rispetto alla mortalità media”, racconta ancora Radice. Anche Petracca conferma: “Direi che in questi mesi in terapia intensiva abbiamo avuto una mortalità almeno doppia rispetto al solito. Non abbiamo mai avuto questi numeri”.

Questo nonostante misure di protezione mai viste in precedenza. “Di solito mettevamo le mascherine chirurgiche solo nel momento in cui trattavamo il paziente, mentre oggi indossiamo la tuta, i guanti, il casco, da tenere anche 6-7 ore di fila. Sudiamo, non respiriamo bene, ed è facile che non vediamo bene.”

E intanto il personale manca, e non è colpa solo di COVID-19: in Italia non ci sono abbastanza medici anestesisti disponibili. Nel corso degli anni il numero chiuso alla specialità ne ha prodotti pochi, e quei pochi un lavoro già ce l’hanno, qui o all’estero. Mentre racconta la situazione in cui si trova il suo ospedale, una delle persone intervistate chiede a chi scrive se conosce qualche anestesista disponibile. Un’altra conferma di aver assunto specializzandi al terzo anno (su cinque totali) “bravi sulla carta, ma certo non pronti per essere lasciati soli per un turno”.

La rianimazione è l’estrema cura dei dettagli, ma non possiamo curare i dettagli solo aumentando i posti letto e le ventilazioni, se manca personale specializzato e con esperienza in un luogo di tale fragilità. E serve personale anche per parlare con le persone. “Dentro le rianimazioni c’è uno spazio infinito per l’umanità – conclude l’infermiera – in epoca non COVID i parenti sono sempre presenti e sta agli operatori rassicurare i pazienti, incoraggiarli e accompagnarli nel loro percorso di cura, a partire dalla sveglia dopo la sedazione, aiutandoli a non confondersi.” Oggi invece in questa difficile situazione i malati sono soli, così come sono soli i parenti a casa.

 

FonteLe Scienze

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