Coronavirus, cosa ha scoperto la scienza: bambini e adolescenti.

Articolo del 30 Dicembre 2020

Mai era avvenuto un simile sforzo scientifico per conoscere e cercare di contrastare un virus in tempi brevi. Cosa sappiamo finora? Le risposte qui sotto, con i link alle principali pubblicazioni.

I bambini possono contrarre Covid-19? Con che sintomi?

L’infezione da Sars-CoV 2 non risparmia i bambini e i ragazzi. E ormai è abbastanza chiaro il quadro relativo alle diverse età: lo si è via via compreso studiando grandi casistiche e lo si sta ulteriormente definendo analizzando quando succede nei paesi dove le scuole hanno riaperto. Nella maggior parte dei casi (in due bambini su tre) chi si è ammala ha più di cinque anni, mentre i più a rischio sono i piccolissimi, cioè quelli che hanno meno di un mese.

Nei paesi dove c’è stato un approccio severo con chiusure e restrizioni, l’incidenza si aggira attorno all’1% dei malati totali (in Italia è l’1,2%), mentre in quelli dove la malattia sta ancora dilagando come gli Stati Uniti è attorno al 2%, o più. Inoltre, solo un bambino su due manifesta i sintomi dopo l’infezione. Per quanto riguarda i bambini sintomatici, uno studio tra i più importanti è stato quello europeo pubblicato su Lancet Child and Adolescent Health, che ha coinvolto 82 centri in 25 paesi, e che è stato svolto grazie a una rete collaborativa già esistente per il monitoraggio della tubercolosi, il Paediatric Tuberculosis Network European Trials Group (ptbnet): in quel caso sono stati presi in esame poco meno di 600 casi pediatrici osservati nel mese di aprile.

Si è così visto che i sintomi insorgono da due a quattro settimane dopo l’esposizione alla fonte del contagio, con una leggera prevalenza tra i maschi rispetto alle femmine, in due terzi dei casi in piccoli sani prima dell’infezione. Qualcuno si ammala gravemente, entro circa 25 giorni, e quando c’è bisogno del ricovero, in quattro casi su cinque è necessaria anche la terapia intensiva. Circa il 70% dei ricoverati pediatrici, però, viene dimesso entro pochi giorni, poco meno del 30 affronta permanenze in ospedale più lunghe e meno del 2% dei ricoverati soccombe.

Come riportano ormai diversi siti ufficiali quali quello dei CDC di Atlanta, i sintomi sono molto simili a quelli di un’influenza e comprendono febbre, tosse, raffreddore, mal di gola, respiro corto, diarrea, nausea, vomito, affaticamento (fatigue), mal di testa, dolori muscolari, mancanza di appetito. Nei casi più gravi insorge una sindrome specifica, infiammatoria, che può diventare molto grave, chiamata MIS-C o sindrome multinfiammatoria sistemica da Covid 19, che può essere letale e le cui conseguenze a lungo termine restano, al momento, ignote. Tra i bambini il Covid 19 è una quindi malattia non grave, che si risolve entro poche settimane dal contagio, anche se non mancano casi gravi e rarissimamente letali.

I bambini possono essere veicolo di contagio?

Si fa più chiaro il quadro sui bambini e sui ragazzi e, soprattutto, su quale sia la probabilità di contagio nelle diverse fasce d’età. E si tratta di dati importanti, in vista del rientro a scuola. Tra gli ultimi vi sono quelli pubblicati dai CDC di Atlanta, che hanno ospitato quanto emerso dall’analisi di oltre 65.000 coreani del sud (5.700 malati e quasi 60.000 loro contatti), e cioè che mentre i bambini fino ai dieci anni e dopo il primo sono pessimi diffusori di coronavirus, tra gli adolescenti la situazione cambia e, via via che aumenta l’età, diminuiscono le differenze rispetto agli adulti.

Bisogna tenerne conto, hanno commentato gli esperti, perché i teenagers possono al tempo stesso avere le abitudini non sempre ottimali dei bambini (quanto a igiene e distanziamento) e moltissimi contatti, e questo potrebbe far aumentare la circolazione del Sars-CoV 2 nella popolazione, ma bisogna anche fare tutto il possibile per rimandare i ragazzi a scuola, a cominciare dai disabili e da quelli più a rischio di dispersione scolastica.

E’ però molto importante decidere come farlo, come dimostrano situazioni diverse verificatesi nel mondo nelle ultime settimane: Danimarca e Finlandia non hanno avuto problemi, mentre Israele, Cina e la stessa Corea del Sud hanno dovuto richiuderle.

Nei giorni scorsi 1.500 tra pediatri, psicologi infantili ed esperti di infanzia britannici hanno firmato un accorato appello affinché ragazzi e bambini possano tornare a giocare e soprattutto a studiare, perché i rischi associati alla chiusura delle scuole, all’inattività fisica, alla mancanza di gioco e di relazioni stanno diventando peggiori di quelli collegati all’infezione da Sars-CoV 2.

Per fortuna, come ha fatto notare Science in un lungo e dettagliato articolo, le risposte iniziano ad arrivare, grazie a un immenso esperimento inedito e involontario, condotto in tutto il mondo su milioni di bambini senza una specifica metodologia: quello in corso in decine di paesi, ciascuno dei quali sta seguendo la propria strada. Ci sono infatti stati che hanno deciso di riaprire le scuole da settimane, altri che non le hanno mai chiuse, altri ancora che temporeggiano, così come ci sono scuole che prevedono il distanziamento, le mascherine e i disinfettanti e altre che lasciano i bambini del tutto liberi, e poi istituti che chiudono i battenti al primo caso e altri che non adottano provvedimenti, distretti nei quali si fanno tamponi e test al personale e agli studenti e altri che non li prevedono e così via, con tutte le possibili sfumature.

Che cosa si è capito finora? Non tutto, ma alcune cose sì. Innanzitutto, i bambini e i ragazzi si infettano meno degli adulti (a seconda degli studi, il rischio oscilla da un terzo a un mezzo), e anche se quando vengono contagiati il loro organismo permette una replicazione virale elevata, che non ha nulla da invidiare a quella degli adulti, per motivi non chiari bambini e ragazzi non infettano gli altri in modo altrettanto efficiente. E’ insomma sempre più palese che, più che contagiare docenti e personale o parenti a casa, sono loro a essere contagiati dagli adulti che li circondano.

Uno degli studi più interessanti, da questo punto di vista, è stato condotto dall’Istituto Pasteur di Parigi, che ha analizzato che cosa è successo a oltre 1.300 tra docenti e studenti delle scuole elementari di Crépy-en-Valois (paese della regione dell’Oise), che in aprile avevano riaperto e che sono state oggetto di un vero e proprio studio controllato, con tanto di tamponi e test sierologici. L’incidenza tra i bambini è risultata essere dell’8,8%, quella totale della scuola del 10,4%, quella tra i docenti del 7,1%. Con pochissime eccezioni, non c’è stato alcun contagio diretto dai bambini né verso il personale scolastico né verso i parenti. Solo due parenti dei 139 contagiati presenti nella scuola hanno avuto bisogno di un ricovero, ma non c’è stato nessun decesso. Impressionante, poi, la proporzione degli asintomatici sul totale dei contagiati: se tra gli adulti è stata circa del 10%, tra i bambini è salita al 41%.

Per quanto riguarda le misure da adottare, esperienze di diversi stati indicano che evitare classi troppo affollate e far indossare ai ragazzi la mascherina come in Cina, Corea del Sud, Vietnam e Giappone (paesi dove però da anni grande parte della popolazione lo fa, nella stagione dell’influenza) sia sufficiente a non creare focolai, anche se nessuna delle due misure è di facile applicazione. Paesi come Israele hanno adottato una misura meno faticosa, e cioè l’imposizione della mascherina negli intervalli e in mensa dopo i 7 anni, ma sta diminuendo sempre più il numero di quelli che la impongono. L’Austria, che l’aveva adottata, l’ha appena abbandonata e la Germania ha reso le norme molto meno stringenti, mentre in molti altri paesi europei è opzionale sia per gli studenti che per lo staff.

Non ci sono poi, al momento, soluzioni univoche in caso di positività, e alcuni paesi come la Gran Bretagna e la Germania proprio per questo motivo hanno deciso di lanciare studi specifici, per verificare l’andamento dell’infezione e adottare poi le politiche più adeguate. Tutti o quasi i pediatri considerano infine del tutto pericolosa, esagerata e inappropriata l’idea di impedire, soprattutto ai più piccoli, di parlare e giocare sia a scuola che all’aperto.

Cosa si è scoperto sull’associazione con la sindrome di Kawasaki?

La sindrome di Kawasaki è un’infiammazione dei vasi (chiamata vasculite) e del muscolo cardiaco caratterizzata da febbre alta, conseguenza diretta di alcune infezioni delle vie respiratorie. Fino dalle prime segnalazioni di casi più gravi di Covid-19 nei bambini, si è ritenuto che l’infiammazione generalizzata riscontrata potesse essere proprio la Kawasaki, ma nel tempo sono sorti alcuni dubbi e al momento si pensa che si tratti di una sindrome simile, ma distinta, chiamata multinfiammatoria multipla da Covid 19 o MIS-C, in base a quanto stabilito dalla stessa dalla stessa OMS e dai CDC di Atlanta.

In particolare, sono di questa opinione i pediatri della Rutgers University di New Brunswick autori di due delle principali casistiche relative agli Stati Uniti e a New York pubblicate nei giorni scorsi sul New England Journal of Medicine, che sostengono che nella MIS-C ci sia un più grave coinvolgimento del cuore rispetto alla Kawasaki, e che essa tenda a manifestarsi in bambini un po’ più grandi rispetto a quest’ultima, ovvero dopo i cinque anni di età. La MIS-C, inoltre, interesserebbe spesso l’apparato gastrointestinale e anche se viene identificata quando solo due organi sono colpiti, in più di due terzi dei bambini ne coinvolgerebbe quattro o più.

La confusione rispetto alla Kawasaki sarebbe da attribuire alla varietà dei sintomi finora registrati, che a seconda dei casi possono chiamare in causa quasi tutti gli organi. Va però detto che un dato empirico, proveniente questa volta dalla Francia, fa riflettere sulla differenza tra Kawasaki e MIS-C. A condurlo sono stati i pediatri dell’Ospedale Debré di Parigi, che sono andati a controllare se negli ultimi mesi l’incidenza della Kawasaki era cambiata rispetto a quanto successo negli ultimi anni.

Come riferito su Lancet Child and Adolescent Health, in totale tra il dicembre 2005 e il maggio 2020 ci sono stati 230 casi, ma l’incidenza, prima, era di 1,2 casi al mese. In aprile l’indice è schizzato a 6 casi al mese, con un aumento del 597%, e l’80% dei bambini ricoverati per Kawasaki era positivo al Sars-Cov 2. L’ultimo picco anomalo si era avuto nel 2009, in occasione della pandemia da influenza suina H1N1. Anche in Italia si è visto qualcosa di simile. I pediatri dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno infatti riportato, su Lancet, un picco di 30 volte nell’incidenza di quella che hanno chiamato simil-Kawasaki: se tra il gennaio 2015 e il febbraio 2020 c’erano stati 19 casi, tra febbraio e aprile 2020 ce ne sono stati già dieci.

Secondo i pediatri bergamaschi tra le due popolazioni ci sono alcune differenze cliniche che sembrano concordare con quelle indicate dall’OMS, tra Kawasaki e MIS-C. Ciò sembra confermare che, pur essendo la risposta infiammatoria vascolare tipicamente associata ai casi più gravi di infezioni respiratorie pediatriche, quella scatenata dal Sars-CoV 2, ancora una volta, ha caratteristiche proprie, in parte inedite e quasi sempre gravi, le cui conseguenze a lungo termine sono tutte da studiare. Fortunatamente sembra che la MIS-C interessi meno del 10% dei bambini infettati.

Come stanno gli adolescenti?

Sta crescendo l’allarme per il benessere psicofisico dei ragazzi. Lo segnala, tra gli altri, uno studio pubblicato  sul Journal of Medical Internet Research dagli psichiatri dell’Università di Darmouth, negli Stati Uniti, che hanno intervistato  200 studenti di college e trovato un netto aumento di ansia e depressione. E lo confermano indirettamente i pediatri di Perth, che nei mesi del lockdown hanno avuto un numero di ricoveri in ospedale per gravi disturbi del comportamento alimentare quali l’anoressia doppio rispetto a quello medio dei tre anni precedenti. Come riferito sugli Archives of Disease in Childhood, hanno anche notato un incremento dei casi di depressione, ansia e disturbi ossessivo-compulsivi. Non a caso i Cdc americani si sono espressi ufficialmente, in un documento che ricorda, oltre ai bisogni psicologici, la necessità delle attività fisiche e di un’alimentazione controllata come quella fornita dalle scuole: pur con tutte le cautele del caso, i ragazzi devono assolutamente tornare a scuola.

 

Fonte:  Lab24 de IlSole24Ore

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