Coronavirus, l’arsenale hi-tech per sanificare gli ambienti.

Articolo del 27 Ottobre 2020

Distanziamento, mascherine e lavaggio delle mani: gli strumenti più efficaci per difenderci dall’infezione di Sars-Cov-2 sono decisamente low tech. Ma negli spazi chiusi frequentati da molte persone, come scuole, uffici, mezzi pubblici, potrebbero non essere sufficienti (o semplicemente possibili). E così fin dalle prime fasi della pandemia si è scatenata la corsa alla sanificazione ambientale, tradizionale – con profusione di alcol, saponi e disinfettanti – ma soprattutto innovativa, con sistemi a base di ozono raggi UV, fino alla ionizzazione da plasma freddo e alla fotocatalisi, ancora in via di valutazione. Tutte sulla carta vantano certificazioni di efficacia contro i coronavirus, ma le loro applicazioni possono essere diverse e, certamente, hanno dei limiti. Vediamo quali.

Droplet, superfici e flussi d’aria: le vie del contagio indoor

Su questo tutta la comunità scientifica concorda: ci si contagia con il coronavirus in due modi. Una, più diretta, tramite le droplet, ovvero quando si è raggiunti dalle goccioline di saliva e muco emesse da un individuo infetto, e una indiretta, tramite contatto con superfici in cui è presente una rilevante quantità di particelle virali arrivate via droplet, ovvero toccandosi occhi naso e bocca con le mani così contaminate. Il contagio da contaminazione ambientale, sebbene meno frequente di quello che avviene direttamente da persona a persona, rimane un rischio concreto: un modello matematico elaborato dall’Università di Oxford, infatti, stima che il 10% delle infezioni da Sars-Cov-2 derivi da contatto con superfici contaminate.

Ma in ambienti chiusi sembra giocare un ruolo importante anche un’altra modalità di contagio, ancora dibattuta dalla comunità scientifica ma confortata da un numero crescente di studi: la trasmissione attraverso aerosol, la frazione di particelle più piccole delle droplet (inferiori ai 5 micron), talmente leggere da rimanere sospese in aria anche per ore e, potenzialmente, capaci di infettare le persone che si trovano in quell’ambiente.

Un problema da non sottovalutare

“Il tema della sanificazione degli ambienti chiusi per prevenire il contagio da coronavirus è stato finora un po’ sottovalutato” afferma Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano. “Il rischio di contagio in un ambiente chiuso è però reale, ed è opportuno adottare qualche accortezza: uno starnuto libera nell’aria circa 2 milioni di goccioline, un colpo di tosse oltre 1 milione e il parlare a voce alta migliaia al secondo. Si tratta di particelle virali molto piccole che possono permanere nell’ambiente come aerosol secondario, che come tale può essere introdotto con l’inspirazione nelle vie respiratorie”.

Proprio mentre aumentano le evidenze sui potenziali rischi dell’aerosol, diversi studi concordano sull’utilità di mantenere alta la qualità dell’aria indoor: un modello matematico-fisico dell’Università del New Mexico sulla propagazione in aria delle particelle virali sospese ha dimostrato quanto è importante, in una classe scolastica, promuovere il ricambio dell’aria (aprendo le finestre almeno il 50% delle particelle veniva espulso, abbattendo il rischio di venire contagiati), oltre all’importanza di lavare le mani e sanificare le superfici; uno studio scolastico dell’Università di Goethe, invece, analizzando per una settimana, in una classe di 27 studenti, la quantità di aerosol potenzialmente contagioso ha trovato che, utilizzando per mezz’ora un purificatore d’aria, si poteva eliminare il 90% dell’aerosol contenente particelle virali.

Sanificazione hi tech contro il coronavirus

Anche le principali indicazioni per gli ambienti chiusi hanno una declinazione low tech, e sono sempre le stesse raccomandate alla vigilia della Fase 2: aprire le finestre per favorire il ricambio dell’aria dall’esterno (meglio farlo spesso per meno tempo piuttosto che meno frequentemente ma più a lungo), contingentare il numero di persone che frequentano il luogo, pulire e disinfettare le superfici (soprattutto con soluzioni a base di alcol e ipoclorito di sodio, la candeggina). Ma come disinfettare sistematicamente e capillarmente tutto ciò con cui si può entrare in contatto in un ufficio? L’impresa con i mezzi tradizionali può essere ardua se non impossibile, oltre che insostenibile dal punto di vista ecologico. Inoltre, la stagione fredda porta inevitabilmente ad aprire meno le finestre, anche per non dissipare il calore derivante dalla climatizzazione. Per ridurre i rischi di contagio indoor ed evitare il ricircolo d’aria tra ambienti saturi di particelle virali potrebbe essere opportuno utilizzare tecnologie innovative. Le possibilità sembrano tante, e tutte efficaci (almeno in vitro) contro il coronavirus, ma la loro applicazione nella realtà deve tenere conto di diversi fattori, primo fra tutti la presenza umana.

Purificatori dell’aria, quanto e quando servono?

Per controllare la qualità dell’aria negli ambienti in commercio esistono i purificatori portatili, venduti soprattutto per eliminare gli odori e le sostanze inquinanti che si accumulano dentro casa. Si tratta di elettrodomestici per il ricircolo dell’aria basati su diversi sistemi filtranti, tra cui i più importanti sono i filtri al carbone attivo e i filtri HEPA, in grado di trattenere tutte le particelle più grandi di 0,01 micron (mediamente, Sars-Cov-2 misura 0,125 micron). Sarebbe meglio collegarli a una presa d’aria esterna, tuttavia il loro uso all’interno delle abitazioni non è ritenuto molto utile, e comunque lo è meno che aprire le finestre per arieggiare, come si legge in un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sui sistemi di ventilazione indoor e sul sito dell’agenzia di protezione ambientale degli Stati Uniti.

Il discorso cambia quando si parla di strutture grandi e frequentati da molte persone, come uffici scuole. Per l’emergenza Covid-19, l’Istituto Superiore di Sanità raccomanda sia la ventilazione naturale, stando ben attenti, però, a gestire in modo corretto l’apertura delle finestre, pena il trasferimento e accumulo di particelle inquinanti all’interno dell’edificio (ad esempio assicurandosi che, una volta aperte le finestre in una stanza, le porte siano chiuse), e insieme un uso adeguato di sistemi di ventilazione con trattamento dell’aria, sempre prestando attenzione al tipo di ambienti, al numero di persone che li frequentano e al tempo medio di frequentazione. In un contesto del genere, l’uso di sistemi di purificazione – le cosiddette Unità trattamento aria, Uta, installate nei sistemi di ventilazione e climatizzazione, potrebbe rivelarsi se non la soluzione (restano valide le buone pratiche di distanziamento, accesso contingentato e uso di mascherine) ma un valido alleato nella prevenzione dei contagi.

Luci e ombre degli Uv-c

Già ampiamente usate in ambito sanitario per la disinfezione di superfici dispositivi di protezione individuale (Dpi), le radiazioni ultraviolette (raggi Uv) sono state la prima opzione considerata per la disinfezione dal coronavirus. In particolare, gli Uv-c, che hanno una lunghezza d’onda di circa 254 nm e sono normalmente usati nella sanificazione: queste radiazioni infatti sono in grado di rompere i legami molecolari di Dna e Rna che costituiscono i microorganismi, inattivandoli. Studi in vitro hanno dimostrato che l’uso di lampade a Uv-c può inattivare il 99,9% del virus dell’influenza sospeso in aerosol e uno studio guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica ha quantificato il potere germicida delle radiazioni ultraviolette contro il coronavirus: i ricercatori, infatti, hanno testato l’azione di una lampada Uv-c su Sars-Cov-2, verificando come fosse sufficiente una dose molto piccola (equivalente a quella erogata per qualche secondo da una lampada posta a qualche centimetro dal bersaglio) per inattivare e inibire la riproduzione del virus di un fattore 1000. Non solo: diverse aziende stanno testando moduli di luci UV-c al led, più efficienti rispetto alle classiche lampade al mercurio, per la disinfezione di superfici e ambienti.

Tuttavia, un report sulle metodologie di sanificazione dell’Istituto Superiore di Sanità mette in guardia sui potenziali rischi dell’impiego dei raggi ultravioletti: proprio in virtù della loro capacità di attaccare le molecole di Dna e Rna possono rappresentare un rischio anche per la nostra salute, in quanto è documentato che la radiazione UV-c è in grado di produrre gravi danni occhi e cute, oltre a essere un cancerogeno certo per tumori oculari e cutanei. Per questo motivo, i raggi Uv-c devono essere utilizzati in assenza di persone nell’area di irraggiamento, mentre il personale che maneggia la tecnologia deve essere munito di dispositivi di protezione: queste luci, quindi, possono essere utilizzate in sicurezza in ambienti chiusi per sanificare superfici e oggetti, mentre sono rischiosi i sistemi tradizionali con lampade UV-c installate a parete o a soffitto.

Ozono biocida: efficace, ma quanto sicuro?

Un altro metodo per sanificare gli ambienti è attraverso l’ozono: presto ci si è chiesti se potesse essere utile anche nella disinfezione di Sars-Cov-2, visto che ha già un’applicazione igienico-alimentare. L’ozono, in natura, è generato da scariche elettriche nell’atmosfera e si concentra a 25 km sopra il livello del mare, producendo un effetto schermante per le radiazioni UV: è un gas ossidante e si decompone facilmente. Può anche essere prodotto industrialmente attraverso gli ozonizzatori, strumenti che lo generano a partire da gas ricchi di ossigeno, ed è molto usato nel trattamento di acque e nelle industrie alimentari contro batteri, funghi e virus. L’efficacia contro questi ultimi si basa sul fatto che il gas ossida le componenti proteiche che mediano l’ingresso del virus nella cellula ospite, di fatto inattivandoli proprio allo step iniziale della riproduzione virale.

Dell’uso di ozono contro virus respiratori si cominciò a parlare nel 2003, ai tempi dell’epidemia di Sars: uno studio di quel periodo dimostra che, trattando un ambiente per mezz’ora con una certa quantità di ozono, la concentrazione microbica diminuiva del 93%; gli autori inoltre sottolineavano come i virus sembrassero più sensibili all’ozono rispetto ai batteri.

L’azione biocida dell’ozono è riportata anche in altri studi, ma al momento questo gas non è inquadrato normativamente come disinfettante e il suo utilizzo è in corso di esame da parte delle autorità europee. I limiti principali per l’utilizzo di ozono come sanificante per Sars-Cov-2 sono di due ordini: prima di tutto non sono stati effettuati studi sulla capacità specifica di inattivare il coronavirus, in più l’ozono è una specie reattiva dell’ossigeno, e la sua attività ossidante è tossica anche per l’uomo. Per queste ragioni, le prove a favore dell’utilizzo dell’ozono come disinfettante non sono sufficienti a garantirne l’adeguatezza e l’Istituto Superiore di Sanità raccomanda che vengano studiati protocolli in condizioni standard che ottimizzino sicurezza ed efficacia.

Plasma freddo anche per riciclare le mascherine

Tra le tecnologie che sembrano essere efficaci per scongiurare la contaminazione ambientale da Sars-Cov-2 c’è anche la ionizzazione da plasma freddo: si sfrutta un fenomeno fisico generato a temperatura ambiente che trasforma l’aria in un gas ionizzato, costituito da varie particelle caricate elettricamente. Queste, scontrandosi tra loro, generano particelle ad attività ossidante in grado di attaccare composti organici, batteri e microrganismi. Recentemente, alcuni test condotti al Dipartimento di Medicina Molecolare diretto da Andrea Crisanti all’Università di Padova (ma il dossier scientifico, dice l’azienda che produce il dispositivo NTP, cioè Non Thermal Plasma, sono disponibili solo su richiesta) avrebbero dimostrato l’efficacia di questo sistema nei confronti di Sars-Cov-2: è stato riportato, infatti, un abbattimento della carica virale di Sars-Cov-2 pari al 99,99% dopo 30 minuti di esposizione di un ambiente chiuso a questa tecnologia, dimostrando di fatto un’efficace attività antivirale. In più il plasma si potrebbe rivelare utile per sanificare i dispositivi di protezione individuale concepiti come usa e getta ma che, in condizioni di emergenza, vengono riutilizzati, una pratica molto rischiosa, specie per le mascherine: è stato dimostrato, infatti, che Sars-Cov-2 è in grado di sopravvivere per una settimana su una mascherina chirurgica.

Uno studio dell’Università del Texas A&M, presentato in anteprima durante la conferenza dell’American Physics Society ha dimostrato che, trattando con plasma freddo delle mascherine FFP2, era possibile eliminare il 99,9% di microbi, inclusi i coronavirus, e che le mascherine erano perfettamente riutilizzabili. Per il momento, la tecnologia di ionizzazione da plasma è solo citata dalle linee guida di sanificazione dell’Istituto Superiore di Sanità tra gli impieghi di dispositivi per la sanificazione diretta di superfici ambienti interni; alcuni di questi trattamenti sono però in fase di valutazione per definire la loro efficacia sterilizzante.

Fotocatalisi: un test sui banchi di scuola

Dal mondo della ricerca e sviluppo alle applicazioni il passo può essere breve: è da un mese che, nell’Istituto di Istruzione Superiore Giulio Natta di Rivoli (TO), sono stati installati, per la prima volta in Italia, dei dispositivi per la sanificazione dell’aria che sfruttano l’innovativo processo di fotocatalisi con luce visibile. Questa tecnologia, brevettata dall’azienda Wiva Group, grazie a dei filtri costituiti da biossido di titanio è in grado di generare, a partire dalla luce visibile, delle particelle reattive che potranno attaccare inquinanti e composti organici. Inizialmente la fotocatalisi è stata sviluppata il trattamento delle acque e solo in seguito è stata dimostrata la capacità biocida, rendendola una tecnologia promettente per la purificazione dell’aria negli ambienti indoor. “Il prossimo futuro di questa tecnologia”, afferma Gianni Bartolini, Chief Technical Officer di Wiva Group, “probabilmente sarà l’uso in ambienti domestici”. Per Rita Esposito, dirigente scolastico dell’istituto, però, “il passo immediatamente successivo è, a distanza di qualche tempo, vedere quali sono gli esiti di questo esperimento, in termini di contagi e sicurezza dell’aria”.

 

FonteGalileo