Così il coronavirus ha rubato il tempo delle persone.

Articolo del 09 Novembre 2020

Da qualche settimana il coronavirus ha ricominciato a diffondersi e a infettare persone come mai prima. Una seconda ondata che sta coinvolgendo quasi tutto il mondo e che, nonostante fosse ampiamente preventivata, sembra aver colto impreparata la maggior parte dei Paesi. In Italia i nuovi casi giornalieri sono passati dai 2.548 del 1° ottobre agli oltre 31mila di fine mese. Nello stesso periodo i morti sono aumentati da 20 a oltre 200.

Il rifiuto delle misure protettive

Eppure, parallelamente alla paura, al suono delle ambulanze, ai ricoveri, alle vittime, è cresciuta anche l’insofferenza per le misure di contenimento: con un’escalation uguale e contraria rispetto ai contagi siamo passati dal grido «non ce n’è coviddi» – che dalla spiaggia di Mondello è diventato un tormentone dell’estate – al rifiuto a indossare la mascherina, dalla negazione della pandemia alle manifestazioni di piazza contro le nuove chiusure decise in Europa e in Italia.

A prima vista è difficile individuare una logica in atteggiamenti che appaiono in clamoroso contrasto con la recrudescenza letale del covid-19.

Eppure tutto questo si lega in qualche modo alla percezione del tempo annientata dal virus e fa parte degli effetti collaterali provocati dalla stessa pandemia, come le radiazioni dopo un’esplosione atomica o un incidente nucleare.

La pandemia ci priva di luoghi sicuri

«Siamo di fronte a un virus che improvvisamente emerge da una zona geografica lontana e in pochissimo tempo (nell’arco di qualche mese) raggiunge il mondo intero, con le caratteristiche proprie di un virus: è invisibile, sappiamo che c’è ma non sappiamo dov’è intorno a noi. Abbiamo una sensazione di impotenza, di non poterlo controllare, di mancanza di efficacia delle misure che adottiamo». A parlare è Manuela Zambianchi, docente di Psicologia e collaboratrice di ricerca presso l’Università di Bologna e docente di psicologia all’istituto universitario Isia di Faenza.

Una situazione più complessa rispetto allo shock e al trauma di un evento catastrofico diverso. «Un terremoto o una alluvione – chiarisce Zambianchi – hanno caratteristiche in parte diverse: producono danni inenarrabili sulle cose e sulle persone coinvolte, causano vittime, lutti, devastazione, ma sono fenomeni circoscritti». Cosa che non si può dire per il coronavirus, un’epidemia globale che, come ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel «capita una volta ogni secolo». Manuela Zambianchi sottolinea come «con questa pandemia è più difficile trarsi in salvo, anche solo temporaneamente nell’attesa che la situazione migliori. Siamo di fronte a uno scenario che non presenta una zona o un ambiente autenticamente sicuro. Questo stato di cose favorisce l’emergere di vissuti ansiosi, di senso di impotenza, di depressione, di fatalismo e di negazione».

Strettamente connessa con il quadro appena descritto è la percezione del tempo, che risulta alterata. Le persone si ritrovano con la propria progettualità decurtata dal virus. «Una signora tra i 65 e i 75 anni, intervistata nell’ambito di una ricerca realizzata in occasione del lockdown di primavera, ha parlato di “tempo congelato” e del presente come “attesa che il tempo potesse continuare a scorrere”».

Il virus ha rubato la prospettiva temporale

Il virus ha rubato alle persone, giovani o anziani, «una prospettiva temporale armonica, bilanciata per i suoi tre tempi fondamentali, passato, presente, futuro». E questo non può non avere conseguenze. «Il futuro che noi immaginiamo – dice Zambianchi –, positivo o carico di ansia o non immaginabile, va a incidere sulla qualità della vita anche nel nostro presente. La pandemia sta influenzando pesantemente la nostra rappresentazione temporale del presente e del futuro. Questo anche a causa di una evoluzione non prevedibile: avere di fronte situazione che cambia di settimana in settimana e non ha un orizzonte certo genera ansia, può portare depressione».

Insomma, quello cui si sta assistendo è un effetto diretto del coronavirus, così come lo sono i ricoveri in terapia intensiva.

Come spiega Manuela Zambianchi, «la prospettiva temporale è in stretta relazione con l’adozione o meno di comportamenti a rischio. Su questo argomento esiste un corpus notevole di ricerche tutte concordi nel dire che essere centrati solo sul tempo presente favorisce comportamenti a rischio». Un fenomeno vero in particolare per quanto riguarda adolescenti e giovani, ma non estraneo anche alle altre d’età.

L’informazione non basta

Zambianchi ricorda come chi è future oriented tende a diminuire i comportamenti a rischio e a proteggersi per salvaguardare i propri progetti personali o lavorativi. Insomma, è importante, per non dire fondamentale, «la capacità di collegare il comportamento di oggi alle conseguenze future. A volte si adottano certi comportamenti perché non si valutano o non si è in grado di valutarne le conseguenze».

Per provare a capire quanto sta avvenendo in una parte della popolazione, di fronte alla nuova virulenza della pandemia e alla contraddittoria contestazione delle misure di protezione, bisogna però tenere conto di altre dinamiche. Dinamiche che emergono dalla psicologia della salute: «L’informazione non ha come diretta conseguenza l’adozione di un determinato comportamento: non è sufficiente, anche se è importante. Non basta spiegare con dati scientifici che indossare la mascherina riduce il rischio di contagio, per ottenere automaticamente che tutti recepiscano il messaggio e adeguino i comportamenti» spiega Manuela Zambianchi.

La teoria della motivazione a proteggersi

E qui entra in gioco la teoria della motivazione a proteggersi di Ronald Rogers, evocata dalla docente di psicologia all’ateneo bolognese. Sintetizzando brutalmente, la teoria prende in esame quattro passaggi chiave per illustrare quali siano i fattori che inducono i soggetti ad assumere comportamenti di protezione o, viceversa, ad avere comportamenti a rischio.

Il primo passaggio riguarda la capacità di percepire la gravità del problema, capacità che potrebbe indurmi ad adottare un comportamento autoprotettivo. Nel nostro caso, quello della pandemia, entra in gioco anche il ruolo non secondare dell’informazione, e quindi dei mass media, dei social media e degli esperti che divulgano i loro messaggi sugli uni o sugli altri canali. La questione dell’informazione e del messaggio che passa è delicato, perché non è detto che l’effetto sia quello voluto o immaginato. Per fare un esempio, come chiarisce Zambianchi, «nel caso di messaggi dai contenuti scientifici non tutti hanno la capacità di leggere nel modo corretto le informazioni».

L’effetto della narrazione sulla percezione

A questa variabile se ne aggiunge un’altra, rappresentata dal secondo passaggio chiave della teoria: ci si deve percepire vulnerabili. Ma «quanto si sentono o non si sentono vulnerabili i giovani? Di solito è il secondo tipo di percezione ad essere propria di quella fascia d’età, quindi il meccanismo che scatta è “Non mi proteggo perché sono invulnerabile”». In più, la narrazione da inizio epidemia ha quasi sempre descritto i giovani come meno soggetti al contagio o comunque come asintomatici, rafforzando, se ce ne fosse bisogno, la convinzione di immunità.

La teoria di Rogers prevede ancora altri due step. Il terzo dei quattro totali stabilisce che «dopo esserci percepiti vulnerabili, per non caricarci di ansie insostenibili dobbiamo avere consapevolezza che esistono metodi efficaci per proteggersi». L’ultimo aspetto, diretta conseguenza del precedente, è sapere di essere in grado di adottare queste misure di protezione.

La pressione ad accondiscendere

C’è, però, come ricorda Manuela Zambianchi, un’ulteriore variabile: «L’essere umano è un animale sociale, che vive in gruppo, indipendentemente dalle fasce d’età. In questo contesto è ovvio che la condivisione di comportamenti collettivi è importante e utile per la costruzione di un’identità sociale». Quello descritto è un aspetto che può avere ricadute positive, ma anche negative.

«La “pressione ad accondiscendere” nell’ambito di un gruppo sociale è molto forte – ricorda Zambianchi –. Se il gruppo di appartenenza non si protegge è molto difficile che un componente, soprattutto se si tratta di ragazzi, vada contro il comportamento collettivo. È complesso assumere atteggiamenti di responsabilità etica e sociale in contrasto con il nostro contesto di riferimento».

Fonte+24 de IlSole24 Ore

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