Covid, i vaccini dobbiamo produrli in Italia

Articolo del 26 Gennaio 2021

Può il nostro paese dipendere per i suoi farmaci salvavita dalle multnazionali? Se per quanto riguarda la proprietà intellettuale dobbiamo mordere il freno perché appartiene a Big Pharma, la produzione potremmo farcela in casa.

Il guaio è sotto gli occhi di tutti: tra ritardi nella consegna, pasticci linguistici sulle fiale o sulle dosi, incomprensioni sulle siringhe ed errori a metà strada tra dolo e buona fede, l’Italia avrà per il momento meno vaccini di quanto era stato messo nel conto, e l’intero piano di somministrazione ipotizzato dal governo dovrà essere rivisto. Ma può un paese permettersi di dipendere, per le sue politiche sanitarie, da una o più multinazionali? In realtà il problema era evidente già diversi mesi fa: in occasione della prima ondata pandemica erano stati in molti a sottolineare come fosse alto il rischio di restare senza farmaci fondamentali nelle terapie intensive, tra antinfiammatori, sedativi e curari.

Tutti medicinali che arrivano principalmente da Cina e India, paesi che del resto ne avevano bisogno quanto noi, e che improvvisamente si sono trovati a dover fare i conti con richieste massicciamente superiori all’atteso e con un mercato nazionale sterminato da dover soddisfare con altrettanta urgenza. Così in Europa – e in Italia – il campanello di allarme è suonato forte e chiaro. Tanto da indurre diversi portatori di interesse a unire le forze e a ipotizzare soluzioni per porre rimedio a questa fragilità strutturale. Un esempio è quello messo in piedi dal Cluster Tecnologico Nazionale Scienze della Vita Alisei, che in collaborazione con Farmindustria, Egualia (che riunisce le aziende produttrici di generici) e Federchimica Aschimfarma, aziende dei principi attivi, ha presentato un progetto di ampliamento e modernizzazione degli impianti di produzione sulla base di una mappatura delle capacità produttive esistenti in Italia, da inserire nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Obiettivo: autonomia. Ovvero evitare di svegliarsi un giorno senza farmaci essenziali perché il produttore li ha già venduti altrove. “L’Italia non può sprecare l’opportunità storica rappresentata dal Next Generation EU e deve presentare progetti d’investimento che garantiscano davvero crescita e nuova occupazione”, dice infatti Diana Bracco, Presidente di Alisei. Per questo, continua Bracco, abbiamo messo a punto questa importante iniziativa di sviluppo industriale, che contribuisce a rafforzare l’autonomia strategica dell’Europa in un settore così importante per la salute dei cittadini.

Reshoring o autarchia

Il nome è nuovo – reshoring – ma il concetto ha qualcosa di antico. Non si vuole qui parlare di autarchia, che suona brutto e politicamente scorretto, ma il senso è un po’ quello. “Diciamo che si tratta di individuare delle filiere strategiche e metterle in sicurezza, come del resto stanno facendo altri paesi. L’Italia deve muoversi nella stessa direzione”, spiega per esempio Paola Testori Coggi, biologa con diversi incarichi istituzionali alle spalle e oggi special advisor del cluster Alisei, nonché coordinatrice del Progetto per il reshoring di farmaci e principi attivi farmaceutici in Italia. In Francia, che sul tema della protezione nazionale non è mai stata seconda a nessuno, il piano si chiama France Relance: 720 milioni di euro per la rilocalizzazione e il potenziamento sul territorio francese di attività produttive strategiche quali quelle farmaceutiche (ma non solo quelle). Oltralpe uno dei volti del reshoring è quello di Euroapi, una nuova azienda – la più grande a livello europeo – sotto il cappello della multinazionale Sanofi, destinata a sviluppare, produrre e vendere principi attivi farmaceutici: sede rigorosamente in Francia, 3200 addetti, un mercato di riferimento non solo europeo ma mondiale, un portfolio di circa 200 molecole e circa 1 miliardo di euro di vendite previste entro il 2022. D’altra parte il colosso francese era stato chiaro, quando nel febbraio 2020 aveva annunciato di voler creare una nuova realtà indipendente per affiancare e integrare la produzione dei suoi principi attivi nelle sei filiali deputate (Brindisi-Italia, Francoforte-Germania, Haverhill-Regno Unito, St. Aubin les Elbeuf-Francia, Újpest-Ungheria e Vertolaye-Francia). Detto fatto.

Penicillina per dieci anni

Nella stessa direzione si sta muovendo l’Austria: il governo ha annunciato un accordo con Sandoz (il ramo dei farmaci generici di Novartis) per aumentare la produzione di antibiotici nel sito di Kundl. La farmaceutica ci metterà 100 milioni di euro, il governo austriaco altri 50, con l’obiettivo di sviluppare nuove tecnologie di produzione sia per i principi attivi che per i prodotti finali. In cambio degli aiuti statali, Sandoz ha promesso di impegnarsi nella produzione europea di penicillina per i prossimi 10 anni, nonostante la feroce concorrenza sui prezzi, in particolare da parte della Cina.

La strategia di Biden

Anche per gli Stati Uniti di Biden il reshoring è una priorità: entro 180 giorni, recita l’Executive Order on a Sustainable Public Health Supply Chain (uno dei primi documenti usciti a firma del neopresidente democratico) è necessario individuare una strategia per progettare, costruire e mantenere la capacità di produrre negli Stati Uniti tutto ciò che serve per contrastare future pandemie e minacce biologiche. Da questa parte dell’Oceano, invece, proprio lo scorso ottobre il Consiglio europeo ha invitato la Commissione a “identificare le dipendenze strategiche, in particolare negli ecosistemi industriali più sensibili come per la salute, e a proporre misure per ridurre tali dipendenze, anche diversificando la produzione e le catene di approvvigionamento, garantendo lo stoccaggio strategico e promuovendo la produzione e investimenti in Europa”. Un reshoring di ampio respiro insomma.

L’export italiano

Del resto l’Italia esporta l’85 per cento di quello che produce nel settore farmaceutico, dunque il potenziamento previsto dal progetto implicherebbe l’immissione dei prodotti sul vasto mercato dell’Unione. E investendo nel settore, il nostro paese potrebbe anche recuperare parte di quella grandezza nella chimica che si è andata perdendo nei decenni, a causa della delocalizzazione prima nei paesi dell’est europeo, e poi per l’ingresso in forze sul mercato di Cina e India, che grazie massicci investimenti statali e a una legislazione assai meno restrittiva sul piano ambientale e dei diritti dei lavoratori hanno potuto ridurre al minimo i costi di produzione.

Il punto di partenza del progetto, continua Testori Coggi, è stato l’esame del mercato europeo, con l’obiettivo di individuare farmaci e principi attivi per i quali c’era una insufficiente produzione nei paesi dell’Unione. Lavoro complesso, perché non è facile ricostruire, per ogni farmaco, la parte importata e quella prodotta “in casa”. In linea di massima, però, sappiamo che per una serie di principi attivi circa l’80 per cento è prodotto fuori dall’Europa. Dunque sulla base della lista di carenze (aggiornata sia dall’Ema che dall’Aifa) sono stati identificati quelli sui quali concentrarsi. Analizzando le capacità produttive italiane, è risultato evidente come saremmo in grado di ottenere tutto il necessario anche grazie alle antiche radici dell’industria chimica nazionale.

Sessanta possibili ristrutturazioni

Quello di Alisei è un progetto di filiera nel vero senso della parola, ed è un grande successo – continua Testori – aver raccolto l’adesione delle principali associazioni di categoria del settore. Sono queste che hanno sollecitato negli associati l’interesse a partecipare, così che ciascuna azienda ha poi presentato il suo progetto esecutivo. Oggi si contano oltre 60 possibili ristrutturazioni o nuovi impianti distribuiti al Nord, al Centro e al Sud, con un potenziale occupazionale di 11 mila addetti in più, e un impegno di spesa da parte dei privati di circa 1 miliardo e mezzo di euro, a fronte di una parte di finanziamento pubblico e di altre misure di sostegno.

La rapidità delle autorizzazioni è fondamentale

Negli interlocutori governativi (Ministero della Salute e dello Sviluppo economico) l’interesse non manca. Ma, conclude Testori Coggi, è importante che si lavori anche sul piano delle procedure di autorizzazione. La realizzazione e la messa in funzione degli impianti in tempi stabiliti e rapidi, così come la sostenibilità di medio-lungo periodo dell’investimento, saranno fattori cruciali per il successo del progetto, quindi si dovrà garantire che la rapidità delle procedure autorizzative rappresenti un fattore competitivo. “Ciascun impianto, nuovo o riconvertito, così come ogni cambiamento, di processo o di sourcing, deve essere sottoposto a verifica e autorizzazione. In mancanza di autorizzazioni veloci rischiamo di perdere tempo prezioso”.

 

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