Nei prossimi tredici giorni, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, a Glasgow, in Scozia, alla ventiseiesima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climaticisi (COP 26) si deciderà il futuro del mondo. Le delegazioni e diplomazie lavoreranno intensamente per dare, si spera, concretezza all’impegno contro i cambiamenti climatici. Bisognerà alzare il tiro perché il tempo stringe: per raggiungere l’obiettivo ambizioso dell’Accordo di Parigi – contenere l’aumento della temperatura media terrestre entro 1,5°C – è necessario dimezzare le emissioni di gas a effetto serra già nei prossimi otto anni, afferma l’ultimo rapporto dell’UNEP (United Nations Environment Program). Diversamente – ci dicono gli ultimi risultati del Gruppo di lavoro IPCC pubblicati ad agosto 2021 – potranno verificarsi eventi climatici estremi di natura catastrofica con gravi ripercussioni sulle comunità umane. Infatti, gli impegni nazionali fino ad ora dichiarati conducono verso un aumento della temperatura di circa 2,7°C alla fine di questo secolo. “Siamo sulla buona strada per la catastrofe climatica”, ha ammonito il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, presentando il rapporto dell’UNEP, eloquentemente intitolato “The heat is on”. “L’era delle false promesse deve finire”, ha tuonato contro i leader internazionali, in vista della Cop 26, invitandoli a ridurre non solo il gap emissivo, ma anche il divario fra le posizioni dei diversi Stati più influenti presenti al tavolo negoziale.

Per scongiurare il peggio e ottenere la neutralità climatica è necessario invertire la tendenza al rialzo della concentrazione di gas a effetto serra in atmosfera che intrappolano il calore. Le ultime misure riportate nel “Greenhouse Gas Bulletin” del World Meteorological Organization (WMO) restituiscono ancora una volta dati da record: nel 2020 è aumentato il livello di biossido di carbonio (CO2in atmosfera, il più importante gas a effetto serra. E la tendenza per il 2021 lascia presupporre che la crescita continuerà. La concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto, nel 2020, circa 413 parti per milione (ppm), con un tasso di incremento annuo superiore alla media 2011-2020.

Il rallentamento economico causato dalla pandemia Covid-19 non ha avuto alcun impatto visibile sui livelli di gas a effetto serra e sui loro tassi di crescita, sebbene si sia verificato un calo temporaneo di nuove emissioni. “L’ultima volta che la Terra ha sperimentato una concentrazione di CO2 paragonabile all’attuale è stata 3-5 milioni di anni fa, quando la temperatura era di 2-3°C più calda e il livello del mare era di 10-20 metri più alto di adesso. Ma allora non c’erano 7,8 miliardi di persone”, ha osservato Petteri Taalas, Segretario Generale del WMO.

La traiettoria delle emissioni climalteranti dovrà essere invertita attraverso una trasformazione dei sistemi industriali, energetici e di trasporto, nonché dell’intero stile di vita. Le modifiche necessarie sono economicamente accessibili e tecnicamente possibili. E in Scozia, a Glasgow, fra pochi giorni non si dovrà perdere tempo.

All’esortazione del presidente Guterres hanno fatto eco le dichiarazioni di tanti leader e capi di stato, tuttavia, gli esiti della Conferenza appaiono incerti, soprattutto per la resistenza dei Paesi che antepongono le circostanze nazionali alle finalità di carattere globale. Quali Paesi saranno disposti ad aggiornare i loro Nationally Determined Contributions (NDCs) e quali, invece, saranno quelli che avranno atteggiamenti più conservativi?

Il gran ritorno degli Usa

Tra i Paesi che potranno influenzare i negoziati ci sono sicuramente gli Stati Uniti d’America. Con Joe Biden sono rientrati nell’Accordo di Parigi e faranno sentire la loro voce cercando di riconquistare quel ruolo di leadership, che avevano assunto prima di Trump, sul tema dei cambiamenti climatici. La delegazione americana arriva nella città scozzese con in mano una proposta di investimento significativa sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Hanno già comunicato, nell’aprile 2021, al Segretariato delle Nazioni Unite il loro impegno nazionale per il 2030: raggiungere l’obiettivo di diminuire del 50% – 52% le attuali emissioni, rispetto a quelle del 2005. Si tratta di un‘assunzione di responsabilità ambiziosa, se raffrontata a quella assunta da Barack Obama nel 2016, che prevedeva una diminuzione del 26-28% sempre rispetto al 2005.

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Figura 1. Inventario emissioni di gas a effetto serra (GHG) – anno di riferimento 2019 (Fonte UNFCCC).

L’Europa del Green Deal

L’Europa è l’altro soggetto che da sempre ha una tradizione di “first mover” nel contrasto alla mutazione del sistema climatico. E proprio per non tradire questa sua vocazione ha rilanciato la posta, ponendo sul piatto l’aspirazione di diventare il primo continente climaticamente neutro al 2050 (con emissioni nette pari a zero). Per mantenere la traiettoria emissiva in linea con i propositi annunciati ha innalzato il suo traguardo: arrivare al 2030 con il 55% in meno delle emissioni rispetto al 1990 (impegno comunicato alle Nazioni Unite il 18 dicembre 2020). Non sono solo parole: ha messo in campo iniziative, soprattutto di natura legislativa e regolatoria che, attraverso il “Green Deal” costituiranno la base per il rafforzamento delle disposizioni normative indirizzate a creare i presupposti di un’economia e un’industria a basso contenuto di carbonio. Il percorso è ormai una strada senza ritorno e lo dimostra il piano “Fit for 55”di revisione delle direttive europee, che investono svariati campi che vanno dall’emissions trading, allo sviluppo delle fonti rinnovabili, all’incremento dell’efficienza energetica, alla gestione del suolo e delle foreste come bacini di assorbimento della CO2, alla protezione del sistema industriale europeo attraverso la proposta di introduzione di tasse alle frontiere sul contenuto di CO2 nei prodotti importati da Paesi extra UE.

Lo sprint della Gran Bretagna di Boris Johnson

Tra i Paesi che si pongono in evidenza nel conquistare la maglia di “champion” del clima, oltre a USA e UE si può ritenere che la Gran Bretagna giocherà le sue carte per ridare slancio ai progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Dopo circa due anni dalla conclusione dell’iter che l’ha portato ad abbandonare l’Unione Europea, il Regno Unito utilizzerà il tavolo negoziale per cercare di far valere le proprie ragioni, forte del fatto che recentemente ha manifestato, attraverso il suo leader Boris Johnson, di voler accelerare le iniziative per portare l’UK a perseguire una riduzione del 78% delle emissioni climalteranti entro il 2035 e che, per la prima volta, saranno coinvolti anche il settore marittimo e quello dell’aviazione. Un obiettivo che consentirà all’UK di superare l’impegno di abbattere del 68% le emissioni GHG (Greenhouse Gas) al 2030, assunto nell’ambito dell’Accordo di Parigi e comunicato alle Nazioni Unite nel dicembre del 2020. Questi traguardi dovrebbero permettere al Regno Unito di coprire per più di tre quarti il percorso verso la “Net Zero” entro il 2050, come previsto dal “Committee on Climate Change”.

Le priorità della Cina e il G77

A Glasgow, verosimilmente, si potrebbe innescare una dialettica serrata fra le suddette superpotenze e gli altri Paesi che costituiscono un asse che cerca di mantenere il modello di sviluppo industriale oggi in vigore, allontanando nel tempo il conseguimento della “Net zero emissions”. Il nucleo di Paesi più attivo su questo aspetto è il gruppo “G77”, al quale fa riferimento anche la Cina, pur non facendone parte ufficialmente. Com’è noto, la Cina ha impostato la sua strategia di riduzione delle reali emissioni di gas a effetto serra prevedendo tempi non compatibili con il traguardo ritenuto fondamentale per limitare l’aumento del riscaldamento globale entro limiti di sicurezza, che dovrebbero consentire una gestione più efficace dei rischi associati alla variabilità climatica. La Cina proseguirà con il suo piano industriale, che la porterà a raggiungere il picco delle emissioni al 2030, a partire dal quale ridurrà progressivamente la propria intensità carbonica (emissioni su PIL) del 60% – 65% con la prospettiva di centrare la “Net Zero Emissions” prima del 2060. Il peso della Cina e dei suoi negoziatori influenzerà il risultato della COP 26. La probabile assenza di Xi Jinping al summit potrà essere interpretata come un segnale negativo che si riverbererà sulla buona riuscita dei lavori.

Gli altri influenti: Brasile, India e Russia

Sui negoziati peseranno anche le scelte di altre Nazioni come il Brasile, l’India e la Russia. In particolare il Brasile, pur avendo indicato di diminuire le proprie emissioni di GHG del 43% al 2030, rispetto al 2005 (aggiornando i propri NDCs), ha assunto un indirizzo analogo alla Cina dichiarando di raggiungere la neutralità climatica nel 2060. L’India, invece, ancora non ha comunicato i nuovi obiettivi e fino ad ora ha confermato le sue iniziative di contenimento delle emissioni che comporteranno una riduzione dell’intensità carbonica (emissioni su PIL) pari al 33% – 35% al 2030, rispetto al 2005. La Russia nel novembre 2020 ha confermato l’importanza che hanno gli ecosistemi naturali, come le foreste, che costituiscono bacini di assorbimento di carbonio molto importanti. Nel definire il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni, quindi, ha considerato anche la quota assorbita dai sinks forestali dichiarando di raggiungere una diminuzione del 70% delle emissioni entro il 2030, rispetto al 1990. Molto probabilmente anche Putin sarà uno dei grandi assenti al vertice di Glasgow. L’impatto sui negoziati di questi Paesi potrebbe compromettere il dialogo fra le Parti in gioco e la COP 26 potrebbe anche infilarsi dentro una dinamica infruttuosa per gli scopi dell’incremento di una auspicata ambizione.

Figura 1 – Fonte UNFCCC Inventario emissioni di gas a effetto serra (GHG) – anno di riferimento 2019

L’agenda dei negoziati

Alzare il tiro: dimezzare le emissioni in otto anni. I temi che saranno affrontati a Glasgow riguardano almeno quattro argomenti. Il primo riguarda il tentativo di cercare una nuova ambizione sul taglio alle emissioni di gas a effetto serra per non fallire il target inerente a contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C. Su questo punto la discussione sarà molto animata in quanto, dei 194 Paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi nel 2015, solo 113 di essi hanno comunicato all’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) i nuovi impegni rispetto a quelli dichiarati nel 2016.

cambiamenti climatici cop 26 riscaldamento globale glasgowFigura 2 – NDC Synthesis Report.

Risorse per la resilienza dei più vulnerabili. Il secondo tema che alimenterà il tavolo dei negoziatori riguarda la mobilizzazione delle risorse finanziarie da destinare ai Paesi in via di sviluppo per attuare sia piani di adattamento al fine di aumentare la resilienza dei territori più vulnerabili agli effetti estremi dei cambiamenti climatici, sia il “capacity building”, nonché le azioni per il trasferimento di tecnologie pulite, capaci di promuovere la transizione energetica verso un modello di generazione compatibile con il percorso di decarbonizzazione.

I Paesi industrializzati avrebbero dovuto alimentare il fondo sul clima fino a raggiungere uno stanziamento di 100 miliardi di dollari al 2020. L’ultimo rapporto OECD, sui finanziamenti per il clima, restituisce una situazione che ancora mostra chiaramente l’esistenza di un gap fra le promesse dei Paesi industrializzati e gli stanziamenti raggiunti: oggi, con circa 80 miliardi di dollari versati, questo traguardo, deciso nel 2010 nell’ambito della COP 16, è ancora lontano.

cambiamenti climatici cop 26 riscaldamento globale glasgowFig. 3. Ripartizione tematica dei finanziamenti stanziati e mobilizzati in miliardi di dollari (fonte: Rapporto OECD 2021). “Cross-cutting” si riferisce a progetti con benefici sia di mitigazione che di adattamento, o a finanziamenti per il clima che non erano ancora assegnati al momento dell’indagine (per esempio sovvenzioni per lo sviluppo delle capacità).

 

Come riportato nel rapporto OECD, l’Asia rimane la principale regione beneficiaria dei finanziamenti per il clima (30,6 miliardi di dollari in media all’anno nel periodo 2016-2019, pari al 43% delle risorse stanziate), nettamente più avanti dell’Africa (18,5 miliardi di dollari, pari al 28%) e delle Americhe che hanno usufruito di 12,4 miliardi di dollari, pari al 17%.

cambiamenti climatici cop 26 riscaldamento globale glasgowFigura 4. Ripartizione regionale dei finanziamenti per il clima forniti e mobilitati (2016-19, media annuale). Fonte (rapporto OECD 2021).

 

I finanziamenti per il clima per i Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries – LDC) hanno continuato ad aumentare nel 2019 mentre quelli per i piccoli Stati insulari in via di sviluppo (Small Island Developing State – SIDS) non lo hanno fatto [Figura 5]. Per entrambe le categorie, i finanziamenti per l’adattamento rappresentano in media più del 40% nel periodo 2016-2019, che è significativamente più alto rispetto alla media complessiva dei Paesi in via di sviluppo (21% in media nel periodo 2016-2019). Tema divisivo e delicato che potrebbe rendere complicata la Conferenza delle Parti di Glasgow.

cambiamenti climatici cop 26 riscaldamento globale glasgowFigura 5 – Finanziamenti per il clima forniti e mobilitati a SIDS e LDC (miliardi di dollari).

Il mercato del carbonio. Terzo tema all’ordine del giorno sarà il completamento delle regole previste nell’ambito dell’Accordo di Parigi, e che attiene alla finalizzazione del tanto atteso nuovo meccanismo internazionale del mercato del carbonio, richiamato dall’articolo 6 di quell’accordo. Tale meccanismo dovrebbe dare la possibilità, ai Paesi industrializzati, di effettuare interventi di mitigazione in Paesi terzi, e contabilizzare i risultati raggiunti (ITMO – Internationally Transferred Mitigation Outcomes) ai fini dell’ottemperanza dei propri obiettivi domestici. I Paesi terzi, invece, potranno migliorare i loro piani di sviluppo industriale, sociale ed economico con l’adozione di tecnologie a basso impatto climatico.

Limitare i danni. Il quarto argomento che sarà affrontato, e che dovrà essere valutato con attenzione, sarà il meccanismo per limitare le perdite e i danni associati agli eventi estremi dei cambiamenti climatici. È il meccanismo cosiddetto del “Loss and Damage”. Numerose sono le sollecitazioni che arrivano da molte associazioni al fine di stimolare iniziative concrete indirizzate alla tutela e alla salvaguardia dei territori più esposti alle manifestazioni violente del clima. Questa COP 26 dovrà garantire piena operatività al “Santiago Network”, costituito per catalizzare l’assistenza tecnica di rilevanti organizzazioni, organismi ed esperti per un approccio che minimizzi le perdite e i danni a livello locale, nazionale e regionale nei Paesi in via di sviluppo. Anche in questo caso sarà fondamentale istituire un centro che raccolga risorse per finanziare e sostenere gli Stati impattati da fenomeni gravi, e che necessitano di aiuti per la gestione contingente delle calamità e per la successiva messa in sicurezza e ricostruzione delle comunità coinvolte.

Costruirsi un futuro

Le sfide sono impegnative, questo è innegabile. La parte più complessa e complicata è quella che dovrà consentire di passare dalla visione alle azioni. La presidenza britannica fa ben sperare: Alok Sharma, parlamentare e componente del partito dei Conservatori, arriva alla presidenza della COP 26 dopo aver ricoperto in UK l’incarico di Segretario di Stato per gli Affari, l’Energia e la Strategia industriale, ritiene “questo decennio cruciale per decidere del nostro futuro”. E Boris Johnson sembra determinato: “Sappiamo cosa deve essere fatto per limitare il riscaldamento globale: consegnare il carbone alla storia e passare a fonti di energia pulita, proteggere la natura e fornire finanziamenti per il clima ai Paesi in via di sviluppo”. Il Regno Unito sta indicando la strada verso la riduzione delle emissioni, dopo aver avviato senza indugi la decarbonizzazione dell’economia in maniera più veloce rispetto a qualsiasi altro Paese del G20. Ma per fare in modo che Glasgow diventi, dalla Scozia, la città della “rivoluzione verde” per il Mondo, il luogo di nascita di una strategia che unisca la generazione attuale con quella futura nella lotta ai cambiamenti climatici, è cruciale passare dalle parole ai fatti. La Terra è in “codice rosso”: bisogna agire ora e senza indugi, cercando elementi di raccordo fra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo per iniziative di cooperazione internazionale che facilitino la costruzione di un’economia incentrata su un uso efficiente delle risorse, che trasformi i residui della produzione industriale in beni ulteriormente utilizzabili, secondo un modello “circolare” in contrapposizione all’attuale modello “lineare”.

La COP, come luogo e strumento condiviso dagli Stati, ormai non è più un ambito riservato solo agli esperti e specialisti di settore, ma da tempo ha preso una dimensione più ampia e coinvolgente, diventando una questione che investe le popolazioni e le loro espressioni civiche. Sempre più numerose sono le aggregazioni e le iniziative che scaturiscono dalle Comunità sociali, che pongono sotto attenta osservazione le scelte dei Governi e delle diplomazie internazionali. Un esempio dell’importanza di questi movimenti lo si rintraccia osservando anche la “preCOP giovani” che si è tenuta a Milano alla fine di settembre. Le sollecitazioni e le richieste, che le nuove generazioni hanno consegnato nelle mani dei governanti, sono rivolte ad accelerare la transizione energetica verso fonti di produzione rinnovabile: chiedono con urgenza di abbandonare del tutto, già al 2030, l’uso di combustibili derivati da fonti fossili, e che queste non siano più sostenute da sussidi particolari. La COP 26 dovrà dare un segnale anche in questo senso.

 

Fonte: Galileo

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