Un recente report dell’Istat sugli indicatori demografici riporta i movimenti del 2020 e fotografa la popolazione italiana al 1° gennaio 2021, confermando il calo demografico e l’invecchiamento del Paese. I residenti sono 59 milioni 258 mila (383 mila in meno rispetto a un anno prima), soprattutto a causa di un divario tra nascite e decessi di -342 mila (-214 mila nel 2019): ogni 100 decessi vi sono state 54 nascite (nel 2019 sono state 66 e nel 2010 96). È cresciuto il rapporto tra la popolazione dai 65 anni e più e gli under 15: dal 33,5% del 1951 a quasi il 184% all’inizio del 2021. L’età media degli italiani è ora 46 anni e la speranza di vita alla nascita scende a 82 anni, ben 1,2 anni sotto quella del 2019.  Per Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, intervistato lo scorso febbraio dall’Almanacco della Scienza, quasi 750mila morti registrati nel 2020 in Italia sono paragonabili solo al periodo della seconda guerra mondiale.

“In Italia, all’inizio del 2020 vi erano 12,2 milioni tra i 15 e i 34 anni (20% della popolazione totale) e 17,8 milioni (30%) di 60 anni e più: per cui ogni sei giovani ci sono nove anziani”, sostiene  Giuseppe Gesano dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr. “Se poi si considerano solo i cittadini italiani, il rapporto giovani vs anziani diventa sei ogni dieci. Negli anni Sessanta, vi erano due giovani per ogni anziano”.

Ma gli effetti di quell’onda demografica tipica del baby boom sono andati dispersi, vanificando il “momento felice” per la natalità negli anni Novanta e cancellandone gli effetti di eco nelle generazioni future. “A causa di comportamenti riproduttivi sempre più contenuti e posticipati, tra il 1986 e il 2006 il numero dei nati annui si è mantenuto quasi sempre sotto i 570 mila. Dopo il 2008 si sono poi aggiunti gli effetti della crisi economico-finanziaria, che ha inciso profondamente sulla possibilità di formare nuove famiglie” precisa il ricercatore del Cnr-Irpps. “Dagli anni Novanta è però cresciuto il contributo delle immigrate straniere alla natalità nel nostro Paese, che è passata dall’8,3% delle nascite nel 2002, fino al 20,2% nel 2019. Due i motivi: l’aumento della quota di straniere sul totale delle donne in età riproduttiva, che dal 3,4% nel 2002 passa a più del 10%, e i loro modelli riproduttivi più ampi e precoci”.

L’andamento della natalità è quindi condizionato da due fattori: uno strutturale, l’altro comportamentale. Il primo ha una forte componente inerziale che deriva dalla dimensione delle generazioni che transitano nell’arco delle età riproduttive, ma può includere i flussi migratori con popolazione giovane se mettono al mondo figli. Il secondo si collega ai modelli riproduttivi: oltre a tutti i provvedimenti e gli incentivi per le coppie stabili e la fecondità degli autoctoni, il contributo degli immigrati può risultare importante. “La natalità può dunque aumentare per due vie: la prima cerca di risollevarla anticipando i processi riproduttivi e ampliandone i risultati finali, come avviene in Francia, Inghilterra e Nord Europa, con disponibilità di servizi all’infanzia, sostegno alle famiglie e modifiche al quadro socioculturale” dichiara l’esperto. “La seconda via non ha esplicite finalità demografiche, ma è la conseguenza delle politiche di accoglienza degli immigrati, che perlopiù arrivano in età giovane e riproduttiva, e possono dare un’accelerazione alla natalità nei Paesi di accoglimento, pur tra tanti problemi di inserimento e di integrazione”.

Se si compara l’andamento quasi costante della mortalità con quello della natalità negli ultimi sessant’anni in Italia parrebbe che essa non sia altrettanto sensibile né riguardo ai fattori strutturali, né a quelli causali. “Basta però aggiungere il dato relativo al 2020, con gli effetti del Covid-19 che manifestano un netto rialzo sia del numero di morti (+112mila rispetto al 2019), sia della mortalità (dal 10,6 al 12,6 per mille)”, fa notare il ricercatore del Cnr-Irpps. “Ciò indica quanto in realtà la mortalità sia sensibile ai fattori di crisi e quanto la struttura per età della popolazione possa contribuire ad accentuare o ad affievolire gli effetti di quelle crisi. Per il primo aspetto, il Covid-19 ha prodotto una extra-mortalità a partire dal febbraio 2020, con decessi legati all’infezione e alle altre patologie non curate a causa dell’emergenza sanitaria, e ridotto tutti i decessi (soprattutto dovuti agli incidenti stradali, ma anche alle epidemie influenzali) grazie alle restrizioni imposte alla mobilità e alla convivenza sociale. Il secondo aspetto, quello strutturale, emerge evidente quando si consideri che la letalità del virus ha colpito soprattutto gli anziani”.

In conclusione, l’intreccio indissolubile tra la struttura demografica e i comportamenti riproduttivi da un lato e quelli letali dall’altro disegna in Italia lo sviluppo di una popolazione in crisi, che sembra non avere più in sé le forze per autosostenersi nel ricambio naturale tra le generazioni, al quale si sottrae anche un numero considerevole di italiani emigrati all’estero. Pur in queste prospettive “infelici” a lungo termine, qualcuno potrebbe vantare i benefici a breve derivanti da una popolazione in calo: minore pressione sull’ambiente e sulle risorse, sulla suddivisione del reddito e delle ricchezze, sulla concorrenza nell’uso delle strutture e dei servizi, minore affollamento, e così via. “Anche in questa prospettiva i meccanismi della demografia si dimostrano impietosi, e la popolazione che dovrebbe godere di quei benefici sarà una popolazione sempre più vecchia, inadeguata per età e competenze acquisite sia a produrre gli strumenti necessari e a mantenerli aggiornati, sia a utilizzarli in tutte le loro potenzialità”, conclude Gesano.

 

Fonte: Almanacco della Scienza