Le persone che hanno subito traumi o abusi infantili soffrirebbero spesso di una forma di amnesia detta dissociativa, in cui il ricordo doloroso viene rimosso fino all’età adulta. Questa teoria, spesso contestata da chi invece sostiene che si tratti di false memorie, sembra ora trovare una conferma negli studi di risonanza magnetica cerebrale e nelle analisi dei dati basate sull’intelligenza artificiale.

Quando un adulto afferma di aver improvvisamente ricordato eventi dolorosi della sua infanzia, quanto è probabile che questi ricordi siano accurati? Questa domanda è alla base delle cosiddette “guerre della memoria” che hanno agitato la psicologia per decenni. E la validità [del ricordo] dei traumi sepolti si presenta come un motivo di contesa nelle cause giudiziarie e nelle trame televisive e cinematografiche.

Gli avvertimenti sull’affidabilità di un evento traumatico dimenticato che viene ricordato più tardi – noto formalmente come memoria ritardata o recupero della memoria – sono stati avallati dalle principali organizzazioni di salute mentale, come l’American Psychiatric Association (APA). Lo scetticismo si basa su un insieme di ricerche che dimostrano che la memoria è inaffidabile e che semplici manipolazioni in laboratorio possono far credere alle persone di aver avuto un’esperienza che non si è mai verificata. Alcuni casi importanti di recupero della memoria di abusi infantili si sono rivelati falsi, provocati da terapeuti troppo zelanti.

Ma gli psicoterapeuti specializzati nel trattamento di adulti sopravvissuti a traumi infantili sostengono che gli esperimenti di laboratorio non escludono la possibilità che alcune memorie ritardate negli adulti siano reali. I terapeuti che si occupano di traumi affermano che gli abusi subiti nei primi anni di vita possono sopraffare il sistema nervoso centrale, inducendo i bambini a separare un ricordo doloroso dalla consapevolezza cosciente. E sostengono che questo meccanismo di difesa psicologica, noto come amnesia dissociativa, si presenta regolarmente nei pazienti che incontrano.

Le tensioni tra le due posizioni sono state spesso descritte come un dibattito che vede dalla parte delle false memorie gli scienziati “duri e puri” e da quella delle memorie ritardate chi è impegnato nella pratica clinica. Ma i clinici che fanno anche ricerca hanno pubblicato studi peer-reviewed sull’amnesia dissociativa in riviste importanti per decenni. Uno studio pubblicato a febbraio sull'”American Journal of Psychiatry”, la rivista di punta dell’APA, evidenzia la considerevole messe di prove scientifiche a sostegno delle argomentazioni di chi cura i traumi.

Il nuovo studio utilizza la risonanza magnetica (MRI) per studiare l’amnesia, insieme a varie altre esperienze dissociative che si ritiene si verifichino spesso in seguito a gravi abusi infantili, come sentimenti di derealizzazione e depersonalizzazione. In un editoriale pubblicato nello stesso numero della rivista, Vinod Menon, docente di psichiatria e scienze comportamentali presso la Stanford University School of Medicine, ha elogiato i ricercatori per “aver scoperto un potenziale meccanismo in un circuito cerebrale alla base delle differenze individuali nei sintomi dissociativi negli adulti con trauma della prima infanzia e disturbo post-traumatico da stress (PTSD)”.

Milissa Kaufman è l’autrice senior del nuovo studio di risonanza magnetica e guida il programma di ricerca sui disturbi dissociativi e sul trauma del McLean Hospital, un ospedale universitario affiliato alla Harvard Medical School. Kaufman osserva che, come i precedenti studi di risonanza magnetica sui sopravvissuti al trauma, anche questo dimostra che c’è una base neurologica per i sintomi dissociativi come l’amnesia. “Pensiamo che questi studi sul cervello possano aiutare a ridurre i pregiudizi associati al nostro lavoro”, spiega Kaufman. “Come molti terapeuti che trattano adulti sopravvissuti a gravi abusi infantili, ho visto alcuni pazienti che recuperano i ricordi degli abusi.”

Dal 1980, l’amnesia dissociativa è catalogata come sintomo comune di PSTD in ogni edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), la bibbia diagnostica della psichiatria. La condizione è stata definita sulla base non solo di studi di casi psichiatrici, ma anche di decine di ricerche che hanno coinvolto vittime di abusi infantili, disastri naturali, torture, stupri, rapimenti, violenze di guerra e altri traumi.

Per esempio, due decenni fa lo psichiatra James Chu, allora direttore del programma per i traumi e i disturbi dissociativi del McLean Hospital, pubblicò uno studio che coinvolgeva decine di donne che ricevevano un trattamento in regime di ricovero e che avevano subito abusi infantili. La maggior parte delle donne aveva riferito di aver avuto in precedenza un’amnesia parziale o completa di quegli eventi, che in genere recuperavano non in una sessione di terapia, ma a casa, da sole o con la famiglia o gli amici. In molti casi, ha scritto Chu, queste donne “sono state in grado di trovare una solida conferma delle memorie recuperate”.

I sostenitori delle false memorie hanno evidenziato che l’uso di domande “guida” da parte dei ricercatori potrebbe indurre un ricordo non veritiero. Come ha scritto lo psichiatra Michael I. Goode sullo studio di Chu in una lettera alla rivista, “Ai partecipanti è stato chiesto ‘se ci  fosse stato un periodo durante il quale non ricordavano che fosse accaduta questa esperienza traumatica’. Con questa sola domanda, la realtà dell’esperienza traumatica è stata intrinsecamente data per vera dai ricercartori”.

Gli studi di risonanza magnetica condotti negli ultimi due decenni hanno scoperto che i pazienti con PTSD e con amnesia dissociativa mostrano una ridotta attività nell’amigdala – una regione del cervello che controlla l’elaborazione delle emozioni – e una maggiore attività nella corteccia prefrontale, che controlla la pianificazione, la concentrazione e altre capacità di funzionamento esecutivo. Al contrario, i pazienti con PTSD che non riportano alcuna perdita nella memoria del trauma mostrano una maggiore attività nell’amigdala e una ridotta attività nella corteccia prefrontale.

“La ragione di queste differenze nei circuiti neuronali è che i pazienti con PTSD e con sintomi dissociativi come l’amnesia e la depersonalizzazione – un gruppo che comprende tra il 15 e il 30 per cento di tutti i pazienti PTSD – si spengono emotivamente in risposta al trauma”, dice Ruth Lanius, professore di psichiatria e direttrice dell’unità di ricerca sul PTSD alla University of Western Ontario, che ha condotto vari di questi studi di risonanza magnetica. I bambini possono cercare di distaccarsi dall’abuso per evitare un dolore emotivo intollerabile, il che può portare a dimenticare un’esperienza per molti anni, sostiene. “La dissociazione comporta una fuga psicologica quando una fuga fisica non è possibile”, aggiunge Lanius.

Ma i sostenitori delle false memorie rimangono scettici sugli studi di imaging cerebrale. Henry Otgaar, professore di psicologia forense all’Università di Maastricht, nei Paesi Bassi, che è stato coautore di più di 100 pubblicazioni accademiche sulla falsa memoria e che spesso testimonia come perito di parte nei casi di abuso, sostiene che i ricordi autobiografici intatti sono raramente repressi, se non addirittura mai. “Questi studi sul cervello forniscono prove biologiche solo per le affermazioni dei pazienti che riferiscono perdite di memoria dovute alla dissociazione”, spiega. “Ci sono molte spiegazioni alternative per queste correlazioni, per esempio l’amnesia retrograda, in cui l’oblio è dovuto a una lesione cerebrale”.

Nel tentativo di fornire una base più solida ai loro argomenti, Kaufman e i suoi colleghi della McLean hanno usato l’intelligenza artificiale per sviluppare un modello delle connessioni tra diverse reti cerebrali che potrebbero spiegare i sintomi dissociativi. Hanno inserito nel computer i dati della risonanza magnetica di 65 donne con storie di abuso infantile a cui era stato diagnosticato il PTSD, oltre ai loro punteggi in un questionario comunemente usato per i sintomi dissociativi. “Il computer ha fatto il resto”, dice Kaufman.

La sua scoperta cruciale è che i sintomi dissociativi gravi probabilmente coinvolgono le connessioni tra due reti cerebrali specifiche che sono attive contemporaneamente: il cosiddetto sistema della condizione di default (default mode network), che si attiva quando la mente è a riposo e coinvolge il ricordo del passato e la visione del futuro, e la rete di controllo frontoparietale (frontoparietal control network), che è coinvolta nella soluzione dei problemi.

Lo studio della McLean non è il primo tentativo di applicare l’apprendimento automatico ai sintomi dissociativi. In un documento pubblicato nel numero di settembre 2019 del “British Journal of Psychiatry”, i ricercatori hanno mostrato che le scansioni di risonanza magnetica delle strutture cerebrali di 75 donne – 32 delle quali con disturbo dissociativo dell’identità, per il quale l’amnesia dissociativa è un sintomo chiave, e 43 controlli abbinati – riescono a distinguere tra le persone con o senza il disturbo quasi il 75 per cento delle volte.

Kaufman dice che devono essere condotte ulteriori ricerche prima che i medici possano iniziare a utilizzare la connettività cerebrale come strumento diagnostico per valutare la gravità dei sintomi dissociativi nei loro pazienti. “Questo studio è solo un primo passo sulla strada della medicina di precisione nel nostro campo”, sottolinea.

Richard Friedman, professore di psichiatria clinica al Weill Cornell Medical College, considera lodevole l’obiettivo dei ricercatori della McLean. Ma nota che la strada da percorrere rimane impegnativa e avverte che la storia della psicologia è piena di “valutazioni oggettive” di una particolare diagnosi o stato mentale che poi non si sono rivelate all’altezza della loro fama. Friedman cita il caso dei test della macchina della verità, in cui abbondano falsi positivi e falsi negativi.

Benché disporre di un test basato sul cervello in grado di diagnosticare i sintomi dissociativi non sia probabile in tempi brevi, la ricerca sulle spiegazioni neurobiologiche mostra che la controversia sul dimenticare e ricordare le memorie traumatiche è ben lungi dall’essere risolta.

 

FonteLe Scienze

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