Nella sua accezione più stretta, la musicoterapia non punta sull’aspetto affettivo, estetico o evocativo della musica, bensì sui suoi parametri strutturali, partendo dall’assunto che particolari suddivisioni ritmiche o armonie possano agire sulla connettività tra aree lesionate. L’aspetto affettivo-emozionale di un brano musicale resta però rilevante quando si tratta di anziani con deficit cognitivi più o meno acclarati.

La Fondazione Bracco, in collaborazione con gli Istituti Clinici Scientifici Maugeri IRCCS di Pavia, con il Conservatorio di musica Giuseppe Verdi di Milano e con il Museo del violino di Cremona, ha recentemente realizzato tre incontri sugli aspetti curativi della musica, destinati agli operatori sanitari. Per la maggior parte del pubblico si trattava di un argomento assai poco familiare: mentre, in altri paesi, come Regno Unito, Austria, Lettonia, Germania, Belgio, Danimarca, Francia, il musicoterapista è una figura professionale paramedica riconosciuta, con preparazione accademica, in Italia la musicoterapia è una disciplina il cui insegnamento ha una veste prevalentemente privata (il primo corso è stato attivato nel 1981 ad Assisi dalla Pro Civitate Christiana).

Da qualche anno, l’Università di Pavia ha attivato un master annuale in musicoterapia in collaborazione con gli l’IRCCS Maugeri e la Fondazione Istituto Ospedaliero di Sospiro (CR) che formerà esperti in “comunicazione espressivo-sonora nell’area preventivo-riabilitativa”, secondo gli standard approvati dall’Associazione italiana professionisti della musicoterapia (AIM). Possono iscriversi i diplomati al Conservatorio e i laureati in Scienze sanitarie, riabilitative, psicologiche, dell’educazione e della formazione, dei beni culturali e al DAMS (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo).

Già nel 2008, la Fondazione Veronesi aveva creato un comitato di lavoro, con la partecipazione di esperti internazionali, sul rapporto tra neuroscienze e stimoli sonori. Era noto, infatti, che le tecniche d’intervento denominate neurologic music therapy agivano sui piani cognitivo, motorio e sensoriale di alcune patologie neurologiche: molti studi lo documentavano per quanto atteneva l’ictus e la demenza, la depressione e anche patologie psichiatriche come la schizofrenia. In seguito, il database Cochrane si è arricchito di numerosi studi randomizzati controllati che documentano le potenzialità della musica in diversi ambiti clinici, tra cui i disturbi infantili dell’apprendimento e l’autismo e Lancet ha pubblicato la revisione di ben 73 studi che provavano l’efficacia della musica nella diminuzione del dolore post-operatorio.

Ora, il neuroimaging è in grado di ricostruire il percorso della musica nel sistema nervoso dall’apparato uditivo alla corteccia frontale, dove si integra con le informazioni precedentemente archiviate e si verifica la sua percezione cosciente. Resta, su questo tema, memorabile l’editoriale scritto nel maggio 1997 dal pediatra Franco Panizon per la rivista Medico e Bambino, di cui era direttore.

La musica muove qualcosa nel profondo. E, in senso anatomico e funzionale, il “profondo” sta nella parte più intima del cervello, l’ipotalamo, che è il crocicchio in cui lo spirito e il corpo, per così dire, si toccano e si compenetrano… il punto d’incontro delle vie pulsionali principali.

È da lì che parte la produzione delle encefaline, agonisti fisiologici dei recettori degli oppiacei che inibiscono il dolore, delle endorfine, di ACTH e di prolattina (sembra che, in questo, i mammiferi siano accomunati: nelle stalle moderne, infatti, la diffusione di musica classica aumenta la quantità di latte prodotto dalle mucche). In quell’editoriale, Panizon celebrava, in particolare, le proprietà taumaturgiche del canto, sia in quanto atto fisico non privo di fatica e, perciò, per molti versi simile a un esercizio sportivo, sia perché regolare il tono, il timbro e il ritmo della voce comporta un autocontrollo su funzioni (il respiro e i movimenti della lingua e della glottide) che solitamente non affiorano alla coscienza, perché affidate al sistema nervoso autonomo. Un po’ come con lo yoga, chi canta si avvicina, così, all’introiezione del locus of control, quella consapevolezza di “poter far qualcosa per il proprio corpo” che è parte integrante del potere di auto-guarigione.

Nella sua accezione più stretta, però, la musicoterapia non punta sull’aspetto affettivo, estetico o evocativo della musica, bensì sui suoi parametri strutturali, partendo dall’assunto che particolari suddivisioni ritmiche o armonie possano agire sulla connettività tra aree lesionate: per esempio, si è visto che, nel morbo di Parkinson, un ritmo come quello del tango può contribuire a riabilitare l’andatura. Il concetto di ritmo, ossia della successione degli accenti sonori nel tempo, è soggetto a differenze culturali e, nella musica occidentale, i ritmi sembrano derivare dalla musica-poesia della civiltà greca. Tuttavia, due recenti studi, dell’Università di Harvard e dell’Università di Vienna, pubblicati su Science, riaprendo un campo di ricerca etnografica che per primo aveva esplorato Carl Stumpf a Berlino all’inizio del ventesimo secolo e che fu stroncato dall’avvento del nazismo negli anni trenta, hanno trovato in 315 diverse culture caratteristiche musicali coerenti con tratti psicologici simili in contesti simili (per esempio, le note per la danza o nei canti di guerra sono più ravvicinate che nelle ninne nanne e nei canti d’amore).

Attualmente, per scopi curativi, si sta elaborando una musica semplificata, composta con un algoritmo da un sistema di intelligenza artificiale chiamato melomics health, ideato all’Università di Malaga. Alfredo Raglio, responsabile del laboratorio di ricerca e musicoterapia dell’IRCCS Maugeri, creato nel 2011 a Pavia, è tra i ricercatori che studiano un algoritmo specifico per ogni necessità terapeutica, in collaborazione con altre istituzioni italiane ed europee. Oltre che quello per il dolore da fibromialgia, i ricercatori di Pavia hanno già sperimentato, su operatori sanitari, un algoritmo che aiuta il rilassamento nello stress da lavoro, che potrà essere aggiornato sulla base dei dati derivati dalla ricerca. I brani Music for Relaxation e Music for Pain Relief, creati con l’algoritmo Melomics-Health, sono disponibili su Spotify.

L’aspetto affettivo-emozionale di un brano musicale resta comunque rilevante quando si tratta di anziani con deficit cognitivi più o meno acclarati. In uno studio condotto a Taiwan, a una trentina di anziani affetti da demenza e residenti in casa di riposo è stata offerta una mezz’ora pomeridiana di ascolto della loro musica preferita, due volte la settimana per sei settimane: al termine dell’esperimento, il loro livello di ansia era molto inferiore di quello di altrettanti anziani di pari condizione psicofisica e stato coniugale, ma accuditi senza l’inserto sonoro. La musica, in questo caso, potrebbe agire non in via diretta, secondo moduli cerebrali specie-specifici, ma in via indiretta, persona-specifica, agganciando e portando in superficie un ricordo gradevole sommerso. Se così fosse, le note costituirebbero una sorta di elemento narrativo da aggiungere alle storie di vita vissuta (scritte od orali) in quella che viene chiamata “terapia della reminiscenza”.

La Reminiscence therapy, codificata dall’American Psychological Association (APA) è stata teorizzata all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso dallo psichiatra e geriatra Robert Neil Butler, primo direttore dello statunitense National Institute on Aging e vincitore di un premio Pulitzer nel 1976 con il saggio Perché sopravvivere? Essere vecchi in America, che metteva in luce le difficoltà degli anziani (povertà, fallimento del sistema di sicurezza sociale, isolamento sociale) nella società americana. Butler aveva capito che la tendenza degli anziani a rievocare le esperienze del passato doveva essere considerata non un segnale del loro declino cognitivo, ma una risorsa di cui avvalersi per migliorare il loro umore, per limitare l’isolamento e rinforzare l’autostima e il senso d’identità. Prima che, nella fase demenziale tardiva, venga del tutto compromessa, la memoria autobiografica remota compensa la frustrazione di non riuscire a riportare alla mente esperienze recenti. Secondo la revisione Cochrane che ha valutato i dati emersi da studi clinici controllati condotti in contesti culturali differenti (Giappone, UK e USA), l’efficacia della terapia della reminiscenza è incerta per gli anziani depressi istituzionalizzati, ma è maggiore per quelli che restano o che tornano nell’ambiente di vita famigliare.

Nelle residenze per anziani più equipaggiate (qui, decisamente futuribili), la memoria potrebbe essere rafforzata con l’utilizzo della realtà virtuale: in Australia, l’immersione in un ambiente gratificante grazie a dispositivi tecnologici indossati sul capo (HMD, head-mounted displays) riesce a riscuotere dall’apatia i pazienti geriatrici depressi o dementi. In modo più accessibile, la musica potrebbe venire incontro a molte necessità assistenziali delle persone anziane: alcuni ospedali della città di New York, per esempio, hanno verificato che trasmetterla in cuffia (con la possibilità di scegliere tra cinque diversi generi) a quelle in attesa di essere visitate al pronto soccorso, ne attenuava l’ansia e lo sconforto. Anche contro l’insonnia, senza dubbio una delle maledizioni della vecchiaia, la musica talvolta funziona, se l’ascolto serale è continuativo e se la scelta cade su un brano melodico e poco ritmato.

 

Fonte: Scienza in Rete

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