In occasione della giornata internazionale della Biodiversità del 22 maggio, dedichiamo uno spazio alle specie viventi, di cui gran parte riesce a sopravvivere a stento, a causa di fattori di stress ambientale, principalmente dovuti a pressioni di origine antropica.

Il 22 maggio del 1992 le Nazioni Unite hanno adottato il testo della Convenzione per la Diversità Biologica, e da quel giorno, ogni anno, proclamano questa giornata internazionale con lo scopo di aumentare la sensibilità e la consapevolezza dei problemi legati alla biodiversità.

Dall’anno della sua entrata in vigore la Convenzione sulla diversità biologica ha ottenuto notevoli risultati, come:

  • l’incremento delle aree e delle specie protette;
  • l’adozione del Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza;
  • l’adozione del Protocollo di Nagoya sull’accesso alle risorse genetiche e l’equa condivisione dei benefici derivanti dal loro utilizzo;
  • la creazione e attuazione di strategie e piani d’azione nazionali e internazionali per la conservazione della biodiversità.

La biodiversità viene, quindi, inserita nei nuovi progetti di sviluppo, in quanto dovrebbe essere parte integrante delle politiche.

Oggi, il goal 15 – “Vita sulla terra” dell’Agenda 2030 dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, intende proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, combattere la desertificazione, arrestare e invertire il degrado del territorio e arrestare la perdita di biodiversità, essendo la sopravvivenza delle specie direttamente correlata alla nostra e viceversa.

Anche gli ecosistemi vengono valorizzati in quanto forniscono servizi essenziali, che sono basi fondamentali per lo sviluppo sostenibile e il benessere umano (approvvigionamento e medicinali, per citarne alcuni), proprio grazie alla diversità di specie esistenti.

La perdita delle specie

Il WWF dichiara che, fino a oggi, la scienza ha descritto 1 milione e 700 mila specie animali e vegetali, ma gli scienziati ipotizzano che negli habitat più integri e inaccessibili (le foreste tropicali o gli abissi marini) ce ne potrebbero essere addirittura oltre i 12 milioni!

Gli oceani, di cui è stato esplorato solo il 5%, coprono circa due terzi della superficie terrestre. Siamo, quindi, ancora “in alto mare”. Il video, qui sotto, della Schmidt Ocean Institute mostra le ultime “nuove” 30 specie marine identificate.

 

La conoscenza attuale del regno animale e vegetale, in generale, è estremamente limitata.

La ricerca biologica ed ecologica ha, infatti, lo scopo di non rendere frammentaria la conoscenza delle specie che ancora non sono a noi note, ma che stiamo estinguendo a nostra insaputa.

In particolare, le specie appartenenti al subphylum dei vertebrati sono quelle che maggiormente risentono delle pressioni antropiche. Sono stati registrati, negli anni, tassi di estinzione sempre più veloci rispetto a quelli previsti in precedenza.

Uno studio del 2015 aveva lanciato il preoccupante allarme dell’avvio del sesto evento di estinzione di massa.

La peculiarità è che questa è la prima estinzione di massa innescata dall’azione dell’essere umano.

L’estinzione provoca inevitabilmente ulteriore estinzione, per via delle strette interazioni ecologiche tra le specie. Le keystone species, ovvero le specie chiave, se sottratte al sistema ecologico, provocano il collasso dell’intera rete trofica (o alimentare). Per questo gli equilibri sono molto delicati: se levi una pedina, il sistema crolla.

Lo scorso anno, nel 2020, gli stessi autori hanno dichiarato che la velocità della perdita di biodiversità animale è aumentata in modo significativo.

Tutto questo in soli 5 anni!

Tra le attività più pressanti viene citato il commercio della fauna selvatica come responsabile di questa perdita.

Gli scienziati stimano che nel XX secolo, almeno 543 specie di vertebrati terrestri si siano estinte, mentre probabilmente scomparirà quasi lo stesso numero di specie nei soli prossimi 20 anni. Dichiarano inoltre che:

La sesta estinzione di massa in corso può essere la più grave minaccia ambientale alla persistenza della civiltà, perché è irreversibile”.

Va specificato che, da un punto di vista evoluzionistico, non c’è nulla di insolito nelle estinzioni. Molte specie del passato (i dinosauri), come sappiamo grazie ai numerosi ritrovamenti fossili, si sono estinte.

La peculiarità è che oggi è una singola specie a causare la Sesta Estinzione di massa; oltretutto, è la più veloce mai registrata.

Il paradosso:

“L’Homo sapiens discende da estinzioni di massa di altre specie, ma ora è l’agente di un’estinzione di massa speciale”.

Secondo Butchart, uno dei risultati della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica è il moltiplicarsi con successo delle iniziative locali di conservazione, ma non è sufficiente.

Butchart dichiara nei suoi studi che gli indicatori generali delle pressioni sulla biodiversità, come il consumo delle risorse, le specie aliene invasive, l’inquinamento da azoto, il sovra sfruttamento e gli impatti dei cambiamenti climatici, hanno mostrato un aumento.

Quelli, invece, che misurano la salute degli ecosistemi (lo stato della biodiversità), come il rischio di estinzione, l’estensione e le condizioni dell’habitat e la composizione della comunità, hanno segnato una diminuzione sostanziale.

Da una prospettiva evoluzionistica, l’estinzione dell’era dell’Antropocene è una minaccia, soprattutto, per le condizioni ecologiche che attualmente permettono la sopravvivenza umana stessa! Stiamo, quindi, portando la nostra specie, quella degli ominidi, verso l’estinzione, attraverso la non tutela delle altre.

Il limite principale è la mancanza di coordinamento internazionale e la mancanza di capacità di previsione collettiva.

Le specie minacciate: alcuni numeri

La sempre crescente richiesta di risorse e servizi ha accelerato la crisi perché la rapida crescita della popolazione umana ha provocato il sovra sfruttamento delle risorse naturali.

La Lista Rossa IUCN (l’Unione mondiale per la Conservazione della Natura) ogni anno diffonde la Lista Rossa delle specie a rischio estinzione, da cui è possibile risalire al numero e la densità di popolazione delle stesse.

In uno studio, i ricercatori hanno analizzato 515 specie di vertebrati terrestri, di cui l’1,7% sono costituite da meno di 1.000 individui in tutto il mondo. La maggior parte di queste sono, infatti, particolarmente vicine all’estinzione, perché hanno meno di 250 individui.

Nella maggior parte dei casi, questi pochi individui sono sparsi in diverse piccole popolazioni.

L’analisi dello studio mostra che i tassi di estinzione sono circa 117 volte più alti rispetto alle stime di cinque anni fa. Probabilmente, queste specie sopravvivranno solo per qualche altro decennio!

Le strette interazioni ecologiche tra le specie sull’orlo dell’estinzione tendono, quando queste scompaiono, ad avvicinare altre specie all’annientamento”.

Il rinoceronte di Sumatra (Dicerorhinus sumatrensis), lo scricciolo di Clarión (Troglodytes tanneri), la tartaruga gigante di Española (Chelonoidis hoodensis), la rana arlecchino (Mantella cowanii), l’elefante (Loxodonta cyclotis), il gorilla (Gorilla gorilla), e la tigre (Panthera tigris), per fare un breve elenco, rappresentano un importante valore ecologico, di reddito e approvvigionamento locale e internazionale, ma sono a rischio estinzione, contando, attualmente, meno di 1.000 individui.

Cause e conseguenze

Il concetto di “perdita di biodiversità” rappresenta appieno l’irreversibilità dell’evento, anche se troppo spesso viene considerata intangibile e poco allarmante. È, però, ufficiale: la comunità scientifica ha dichiarato che siamo entrati nella sesta estinzione di massa.

Quando gli ecosistemi vengono impoveriti o distrutti, diventano instabili per la sopravvivenza delle specie che li vivono.

Da numerosi studi di diverse discipline si è arrivati a poter catalogare gli stress predominanti, che causano instabilità negli ecosistemi, e sono:

  • i cambiamenti climatici;
  • la distruzione ininterrotta degli habitat;
  • il commercio illegale e il bracconaggio;
  • l’inquinamento in qualsiasi sua forma;
  • l’introduzione di specie “aliene” (non autoctone);
  • il prelievo eccessivo e l’uso non sostenibile delle risorse.

 

Ogni specie è strettamente legata all’altra all’interno di un ecosistema.

Un esempio concreto:

Le lontre nel XVIII secolo venivano cacciate per ricavarne le pelli. Le lontre sono, però, le principali predatrici dei ricci di mare, che a loro volta si nutrono di alghe. La scomparsa delle lontre ha provocato l’aumento della popolazione dei ricci di mare, a causa della mancata predazione da parte dei mammiferi; pertanto, le alghe sono diminuite. Questo processo a catena ha portato all’estinzione della “mucca di mare” della famiglia Dugongo, un mammifero erbivoro marino, mangiatore di alghe.

Tra le conseguenze, sono evidenti anche e soprattutto i danni economici e culturali, che stanno marcando le nostre vite in questo periodo, ma che ci trascineremo per le prossime generazioni.

Consideriamo, ad esempio, che il 75% delle colture alimentari mondiali dipendono dagli impollinatori (pipistrelli, insetti, uccelli, topi, uomo): è elevato il numero di specie coinvolte che permettere a noi ominidi di produrre e commercializzare le fonti di cibo.

La crisi è silente, soprattutto per le specie degli invertebrati e della microfauna, che ricoprono un ruolo ecosistemico fondamentale nella catena trofica (ve ne parlerò prossimamente).

Le Specie: motore dell’evoluzione

Secondo i paleontologi, le estinzioni di massa sono eventi in cui si perdono oltre i 3/4 delle specie ospitate sul pianeta Terra, in un intervallo temporale breve (geologicamente parlando).

Negli ultimi 540 milioni di anni se ne sono verificate ben cinque per via non antropica.

Il primo di questi eventi si è concluso circa 443 milioni di anni fa e ha portato alla scomparsa di circa l’86% delle specie; l’ultimo si è concluso 65 milioni di anni fa e ha portato alla scomparsa del 76% di esse.

Oggigiorno, è stato coniato il nuovo termine di “defaunizzazione dell’Antropocene“, da Rodolfo Dirzo, con cui si intende definire le estinzioni faunistiche (delle specie animali) di origine antropica, al fine di marcare la responsabilità da parte delle azioni dell’uomo, vittima e carnefice.

Perché è così importante la salvaguardia della biodiversità?

Perché la variabilità genetica delle popolazioni e delle specie è il motore dell’evoluzione. Permette, infatti, di far fronte, ad esempio, a malattie e pandemie su scala globale, come il Covid-19 che ci ha dato un esempio concreto e attuale dell’impatto che queste possono avere.

Le strategie di ripopolamento

Gli obiettivi prioritari degli Stati ONU sono:

  • Ridurre le minacce per le specie a livello locale, eco-regionale e globale (es. bracconaggio, sfruttamento della fauna selvatica etc.);
  • Stimolare governi e istituzioni a promuovere interventi di conservazione, protezione e gestione degli habitat naturali;
  • Incoraggiare le comunità locali a preservare le specie e ripopolare gli ecosistemi (inizia ora la decade del Ripristino degli Ecosistemi).

Da parte della comunità scientifica, nel corso degli anni, gli studiosi hanno sviluppato diversi modelli per risalire alle cause che hanno provocato queste estinzioni di massa nelle diverse ere geologiche e quella attuale, causata con altissime probabilità dalle attività antropiche e dal cambiamento climatico.

Tra questi, il modello del team del Dipartimento di Geoscienze di Princeton si basa sui molteplici fattori convergenti che hanno causato l’estinzione alla fine del Cretaceo. La teoria afferma che la causa catastrofica è stata avviata da più fattori, ovvero un mix di condizioni diverse e simultanee.

Secondo il paleontologo Peter Ward, invece, un’estinzione di massa avviene quando vi è una sinergia tra eventi non usuali (di cui tratta in questo TED), i cui parametri principali sono:

  • l’accelerazione del cambiamento climatico;
  • le alterazioni della composizione atmosferica;
  • i fattori di stress ad alta intensità;
  • i feedback positivi tra i primi tre.

 

Questi come altri modelli previsionali sono stati ampliamente studiati per comprendere quale sarà il destino delle specie.

 

Il modello che integra gli studi passati è il modello HIPPOC proposto da Edward O. Wilson, per cui l’impatto umano sulla biodiversità è dovuto a una convergenza di diversi fattori interagenti (le sei forze). La sesta forza è stata aggiunta nel libro “La sesta estinzione” di Elizabeth Kolbert, includendo i cambiamenti climatici. Nello specifico l’acronimo rappresenta:

  • (Habitat loss): inteso come perdita di habitat, ovvero la frammentazione di questi e l’alterazione delle relazioni tra le specie e le aree;
  • I (Invasive species): specie invasive come quelle esotiche (non autoctone), includendo la conseguente diffusione dei nuovi agenti patogeni. L’introduzione di queste specie è data principalmente da commercio e viaggi, che influenzano negativamente soprattutto gli habitat delle isole, dove le specie locali risentono maggiormente di questo tipo di pressioni ecologiche, essendo aree geograficamente limitate.
  • P (Population growth): intesa come la crescita della popolazione e del rapporto con il cambiamento del paesaggio, che limita e modifica la dispersione degli animali e delle piante;
  • P (Pollution): ovvero l’inquinamento delle matrici naturali (aria, acqua, suolo) da attività agricole, industriali, urbane etc.
  • O (Over exploitation): il sovra-sfruttamento delle risorse biologiche, in particolare nelle attività di pesca e di caccia;
  • C (Climate change): ovvero il cambiamento climatico, che influisce sull’adattamento delle specie negli ecosistemi, che stanno soffrendo gli effetti climatici, come il surriscaldamento terrestre (che provoca a sua volta lo scioglimento dei ghiacciai, l’acidificazione dei mari e l’aumento di siccità) e l’alterazione dei cicli stagionali (che incidono sulle migrazioni, i periodi di riproduzione etc.).

Questo rapporto tra specie invasive e la biosfera genera un gap (un vuoto) evolutivo, in quanto i tassi di evoluzione biologica (come gli adattamenti alla variabilità delle temperature) sono in media dieci volte più lenti rispetto ai tassi di variazione antropica (l’aumento di popolazione umana).

In questo modo, i comuni processi ecologici vengono alterati.

Conclusioni

Realizzare una buona pratica di conservazione oggi, porterà i suoi frutti tra una o due generazioni. Con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile internazionale si intende far fronte a questa e altre problematiche collettive, cercando di mantenere i benefici attuali anche per le prossime generazioni.

Da questo anno inizia, inoltre, la decade del ripristino o ripopolamento degli ecosistemi, al fine di risanare l’ambiente per riequilibrare i fragili equilibri preda-predatore ma non solo. L’intera rete trofica è soggetta a ripristino per poter trarre beneficio nelle dinamiche ecosistemiche, di cui giovano tutte le specie, incluso l’Homo Sapiens.

 

Fonte: Missione Scienza