La recente potentissima eruzione nell’arcipelago polinesiano ha permesso di documentare la connessione tra le esplosioni vulcaniche e la generazione di tsunami anche in bacini marini non collegati direttamente. Lo stesso processo può spiegare il disastro di Krakatoa di oltre un secolo fa.

Nell’agosto del 1883, un’isola montuosa indonesiana chiamata Krakatau, o Krakatoa, si autodistrusse. Eruzioni vulcaniche episodiche si trasformarono in un’esplosione che lanciò detriti a 80 chilometri di altezza e ricoprì 800.000 chilometri quadrati di superficie terrestre di cenere corrosiva. Mentre gran parte dell’isola si disintegrava e crollava in mare, si sollevò uno tsunami che si abbatté sulle vicine isole di Java e Sumatra, causando la maggior parte delle 36.000 vittime dell’eruzione.

15 gennaio 2022. L’arcipelago di Tonga è stato colpito da uno tsunami scatenato dall’eruzione di un vulcano sottomarino, resta in gran parte isolato, con i collegamenti telefonici e Internet interrotti. L’eruzione ha innescato un’allerta tsunami in diverse isole del Pacifico meridionale, alle isole Fiji, Samoa ma anche in Giappone e sulla West Coast americana, con l’ordine di evacuare le zone costiere

Anche se l’Indonesia soffrì la maggior parte dei danni, l’eruzione del Krakatoa ebbe effetti devastanti in tutto il mondo. Per un qualche meccanismo, piccoli tsunami si abbatterono sulle coste di paesi che si affacciavano sia sull’Oceano Pacifico sia sull’Oceano Atlantico, anche se non sembrava proprio esserci modo per lo tsunami del Krakatoa di saltare dall’Oceano Indiano oltre i continenti per raggiungere altri bacini oceanici. In mancanza di qualsiasi altra spiegazione, quindi, gli scienziati dell’epoca diedero la colpa di questi tsunami lontani a terremoti coincidenti.

Ma nei decenni successivi i geofisici hanno continuato a interrogarsi sui dati. Uno studio del 1955, per esempio, trovò che gli tsunami lontani erano correlati all’arrivo dell’onda di pressione prodotta dall’eruzione che si propagava nell’aria. Gli autori dello studio ipotizzarono che si fosse instaurato qualche tipo di accoppiamento tra questa perturbazione atmosferica e l’acqua. Simulazioni al computer del 2003 hanno ulteriormente supportato questa ipotesi, mostrando che lo tsunami principale del Krakatoa, anche quando si è fatto strada attraverso le separazioni tra i continenti per raggiungere sia l’Oceano Pacifico sia quello Atlantico, è rimasto indietro rispetto a piccoli tsunami in luoghi come le Hawaii, la California e l’Alaska, che invece erano sincronizzati con la più rapida onda di pressione dell’esplosione. (Un’onda di pressione la cui frequenza è nel campo delle onde percepibili dall’orecchio umano è conosciuta come suono.)

Per corroborare l’idea speculativa che le onde sonore o di pressione dei vulcani potessero causare tsunami, gli scienziati avevano bisogno di osservare un’altra versione del Krakatoa in tempo reale nell’era moderna – un desiderio certamente inconfessabile.

Poi, il 15 gennaio 2022, una caldera vulcanica in gran parte sommersa nel Pacifico meridionale chiamato Hunga Tonga-Hunga Ha’apai ha emesso un ruggito da incubo. Il suo fungo di cenere e il suo tsunami locale hanno devastato l’arcipelago del Regno di Tonga. Anche se per fortuna ha causato poche vittime, questo vulcano ha battuto ogni sorta di record: ha lanciato detriti fino a due terzi della distanza che separa la Terra dallo spazio, la sua nube di cenere ha generato fino a 200.000 scariche di fulmini all’ora e l’esplosione stessa è stata una delle più potenti mai registrate.

L’eruzione del Krakatoa del 1883 in una stampa dell’epoca

In termini di scala ed energia dell’esplosione, l’evento tongano è stato “fondamentalmente un Krakatoa 2”, ha dichiarato Matthew Haney, geofisico dell’Alaska Volcano Observatory dello U.S. Geological Survey. Un rumore simile a un colpo di pistola avrebbe potuto essere udito fino ad Anchorage, dove Haney lavora. “Siamo a 9600 chilometri di distanza. Sentire un’eruzione vulcanica? È un’idea sconvolgente”.

Ma a fare il giro del mondo non è stato solo il rumore di Hunga Tonga-Hunga Ha’apai. Una serie di tsunami, alti decine di centimetri, si sono riversati su coste lontane in bacini oceanici disparati. “Non ci aspettavamo quel segnale di tsunami nei Caraibi”, ha commentato Paul Fanelli, oceanografo della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA).

Questa volta, gli scienziati pensano di aver trovato la soluzione. Quando gli strumenti di misurazione dell’altezza delle onde in tutto il pianeta sono stati abbinati ai corrispondenti sensori di pressione dell’aria, è apparso chiaro che l’onda di pressione dell’esplosione deve aver trovato una connessione con le superfici di più oceani e mari, trasferendo energia all’acqua e producendo una miriade di tsunami.

Questa spiegazione ha risolto allo stesso tempo un mistero che perdurava da 139 anni sul Krakatoa. “Considerato ciò che è stato osservato nel 1883… ha senso che sia successo anche allora”, ha detto Greg Dusek, oceanografo fisico della NOAA. “Le due serie di osservazioni sembrano in buon accordo tra loro.”

Ma come con tutte le rivelazioni scientifiche travolgenti, sono sorte nuove domande. Quando e perché le onde di pressione dei vulcani interagiscono con le onde dell’oceano? Perché i lontani tsunami di Tonga sono comparsi solo lungo certe coste? E quanto potenti, e potenzialmente distruttivi, potrebbero diventare questi tsunami?

A scuola di tsunami

Normalmente, per generare uno tsunami è necessario spingere e spostare molta massa in un bacino d’acqua. I terremoti lo fanno in modo diretto. “Gli tsunami da terremoto sono molto, molto semplici”, ha spiegato Emily Lane, esperta di idrodinamica del National Institute of Water and Atmospheric Research della Nuova Zelanda. “C’è un terremoto che si verifica sott’acqua, in grado di causare effettivamente una deformazione del fondo marino: questa deformazione viaggia verso la superficie dell’acqua, per poi irradiarsi in forma di tsunami.”

Gli tsunami vulcanici sono più complessi. I detriti espulsi o lanciati, il collasso parziale o completo del vulcano stesso e le esplosioni sottomarine possono tutti spostare una massa d’acqua. Il lavoro investigativo sul fondale marino intorno a Hunga Tonga-Hunga Ha’apai scoprirà nei prossimi mesi quale processo, o combinazione di processi, abbiano generato il suo tsunami regionale, di tipo classico.

Ma quasi tre ore prima che quel grande tsunami attraversasse l’Oceano Pacifico e raggiungesse il Giappone, piccoli picchi d’onda sono arrivati alle isole Ogasawara, circa 1000 chilometri a sud di Tokyo. Quello stesso giorno, picchi simili sono apparsi nel Mar dei Caraibi, da Porto Rico al Messico, e persino nel Mar Mediterraneo, a 18.000 chilometri di distanza dall’eruzione.

Queste piccole e veloci onde hanno ricordato ad alcuni scienziati un modo meno convenzionale in cui la Terra può creare tsunami: usando l’atmosfera.

Le tempeste possono talvolta produrre perturbazioni atmosferiche sostenute e significative. Nel 1929, il matematico e oceanografo britannico Joseph di Proudman ipotizzò che, se si muove a una certa velocità sopra un bacino idrico, una perturbazione può dare il via a qualcosa che da allora si chiama risonanza di Proudman. Le sue equazioni hanno dimostrato che l’onda di pressione atmosferica può trasferire energia alle onde nell’acqua, ingigantendole. E quando queste onde amplificate si abbattono sulla costa, sono note come meteotsunami.

La matematica di Proudman ha infine dimostrato che il trasferimento di energia dal cielo al mare è più efficiente quando una perturbazione atmosferica viaggia alla stessa velocità delle onde marine. E la velocità delle onde marine dipende dalla profondità dell’acqua.

Le tempeste tendono a produrre onde di pressione atmosferica che viaggiano decine di centimetri al secondo, ha spiegato Alexander Rabinovich, esperto di meteotsunami dell’Institute of Ocean Sciences di Sidney, nella British Columbia, in Canada. A quella bassa velocità, le onde di pressione entrano in risonanza con onde marine altrettanto lente che percorrono bacini d’acqua poco profondi fino a innescare grandi meteotsunami.

Questo è il motivo per cui si presentano decine di volte all’anno nelle acque relativamente poco profonde della costa orientale degli Stati Uniti, del Golfo del Messico e dei Grandi Laghi, a volte con un effetto letale: un meteotsunami alto tre metri sul lago Michigan nel 1954 uccise sette persone. In rare occasioni, questi meteotsunami possono rivaleggiare con la minaccia degli tsunami causati dai terremoti: nel 1978, onde di meteotsunami alte sei metri hanno terrorizzato la città portuale croata di Vela Luka, frangendosi ripetutamente per diverse ore.

Gli tsunami causati dall’eruzione di gennaio a Tonga erano molto simili a meteotsunami – come numerosi oceanografi, fisici e vulcanologi hanno capito quasi contemporaneamente poche ore dopo lo zenit esplosivo del vulcano. “Tutti i fenomeni meccanici e fisici nei due casi sono abbastanza simili tra loro”, ha spiegato Eric Anderson, ricercatore della Colorado School of Mines che studia le interazioni tra idrosfera, criosfera e atmosfera. Ma in questo caso c’è una differenza fondamentale. “È interessato l’intero globo”, ha sottolineato Rabinovich.

Un ruggito sentito in tutto il mondo

I ricercatori non sono ancora d’accordo sul tipo specifico di onda di pressione o combinazione di diversi tipi di onde che possono essere responsabili in questo caso. L’eruzione di Tonga ha prodotto molteplici perturbazioni atmosferiche, tra cui un’onda d’urto di breve durata e onde acustiche che viaggiavano in tutto il mondo. Spingendo molta aria verso l’alto, l’esplosione ha prodotto anche le cosiddette onde di gravità atmosferiche. Queste si creano quando una massa d’aria fredda sale rapidamente per poi sprofondare di nuovo verso il livello del mare per effetto della gravità, colpendo la stratosfera praticamente come un gong e generando oscillazioni di pressione che si propagano orizzontalmente in tutte le direzioni.

 

Fonte: Le Scienze

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