Il dibattito sui possibili fattori di rischio e/o di protezione nei confronti della malattia di Parkinson è da tempo oggetto di analisi da parte dei neurologi di tutto il mondo. Un importante risultato di questa serie di studi – secondo il Professor Giovanni Defazio, ordinario di Neurologia presso l’Università di Cagliari, uno dei pionieri italiani in questo tipo di ricerche – è che la distribuzione dei diversi possibili fattori di rischio già individuati, ad esempio, l’età avanzata, la familiarità, il sesso maschile, l’etnia (i più colpiti sono i Caucasici), diversi fattori ambientali, i traumi cranici e i disturbi dell’umore come la depressione – non è uniforme, in quanto tali fattori possono variamente presentarsi, definendo così vari sottotipi eziologici.

Ciò supporta l’ipotesi che non esista una sola, ma diverse malattie di Parkinson con diverse eziologie e verosimilmente diverse evoluzioni, ognuna delle quali risponde a diversi fattori di rischio e/o di protezione. Il primo studio di Defazio fu presentato al convegno nazionale 2017 dell’Accademia Limpe-Dismov per il Parkinson e i disordini del movimento: si trattava di una review su 797 studi che metteva in evidenza il ruolo protettivo di tre fattori: attività fisica; fumo; caffè. Anche i risultati di un altro studio italiano pubblicato 2 anni fa sulla rivista Neurobiology of disease, avevano sottolineato come l’attività fisica e la caffeina fossero in grado di influenzare positivamente la progressione della malattia (solo se tali fattori erano presenti prima dell’esordio dei sintomi).

Una moderata attività fisica quotidiana, precedente all’esordio della malattia, mostra un effetto benefico con un miglioramento soprattutto sulla sintomatologia non motoria come dolore, incontinenza, ipotensione ortostatica, stipsi, disturbi del sonno, affaticamento, ansia, depressione, ecc.

In accordo ai risultati di un recente studio, appena pubblicati su Parkinson’s & Related Disorders, il consumo di caffè sembrerebbe avere carattere protettivo, ovvero un pregresso consumo moderato di caffè ritarderebbe l’età d’esordio della malattia, inducendo comunque una sintomatologia motoria meno grave. Al progetto di ricerca, coordinato dal professor Giovanni Defazio, hanno partecipato l’Università La Sapienza di Roma, le Università di Bari, Catania e Verona, oltre all’Albert Einstein College of Medicine di New York, al dipartimento di Neurologia dell’ASST Pavia-Voghera e all’IRCCS Neuromed di Pozzilli.

Un autore che ha focalizzato le sue indagini sugli effetti della caffeina è Ronald Postuma dell’Università di Montreal. Secondo Postuma il caffè agirebbe non solo come fattore protettivo sullo sviluppo della malattia ma anche come “farmaco” potenzialmente in grado di ritardarne l’evoluzione una volta che i sintomi si sono già manifestati.

«Siamo ancora nell’ambito delle forti probabilità – osserva Defazio, sgombrando il campo dai facili entusiasmi -. Dalle nostre ricerche emerge una plausibilità biologica evidente dal punto di vista epidemiologico secondo cui alcuni fattori, come ad esempio i pesticidi, sono a rischio, mentre altri, come l’attività fisica o il caffè, sono protettivi, ma sembrano esserlo anche il thè, la vitamina E o i FANS».

Inoltre, riguardo al fattore caffeina, sembra che non tutti i dosaggi siano efficaci allo stesso modo. Va dunque ancora analizzato come indirizzare e dosare l’azione di ogni fattore protettivo per una migliore riduzione del rischio.

 

Fonte: La Stampa

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