Cosa succede in una famiglia quando un figlio, magari nel pieno dell’adolescenza, mostra un disagio non si riesce a comprendere, contenere, gestire? Ha scatti di rabbia, si isola, il rendimento scolastico si abbassa repentinamente e instaurare un dialogo diventa sempre più difficile? Come capire quando è necessario chiedere aiuto? E, soprattutto, a chi rivolgersi? In questi mesi si sono moltiplicati gli appelli legati alla preoccupazione per il benessere psichico dei ragazzi e delle ragazze, con le scuole che solo ora hanno ripreso a svolgere la loro funzione contenitiva e di socializzazione, oltre che educativa.

Forte il richiamo di Carla Garlatti, Garante per l’infanzia e l’adolescenza, che in questi mesi più volte ha fatto sentire la sua voce, chiedendo sostegno e aiuto per le famiglie in difficoltà. Quelle in difficoltà già conclamata, innanzi tutto: al Governo, ci dice Garlatti, “chiediamo un finanziamento per i servizi di assistenza domiciliare per i caregiver familiari, che hanno a che fare con disabilità gravi spesso acuite dalla pandemia o che si vengono a trovare in situazioni di disagio mentale“. Non meno importante, però, è intervenire in quella delicata “zona grigia in cui le famiglie devono essere aiutate, per esempio nei casi in cui il ragazzino o la ragazzina non ha ancora sviluppato una patologia ma sta male ed esprime un malessere“. In questi casi, prosegue Garlatti, “accade anche che le famiglie non se ne accorgano, perché per un genitore non è facile vedere il malessere del proprio figlio o della loro figlia. Vanno aiutati a rendersi conto di che cosa stanno vivendo e a gestire queste situazioni“. Una gestione di queste situazioni, una presa in carico “che deve iniziare già dalla scuola, che è l’ambiente di crescita dei ragazzi: anche per questo – conclude l’Autorità Garante – il fatto di non andare a scuola provoca conseguenze pesanti“.

Per le famiglie, quindi, può anche essere difficile a volte vedere, accettare che ci sia un problema serio da affrontare, non necessariamente per mancanza di attenzione o buona volontà ma perché la sofferenza del proprio figlio o della propria figlia è difficile da ammettere. Antonella Costantino è a capo dell’unità operativa complessa di Neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza al Policlinico di Milano e ci aiuta a capire quali sono i segnali da monitorare e gli errori da non commettere. “Va detto subito che i sintomi possono essere molto variabili, anche a seconda dell’età – dice la neuropsichiatra – ma è importante fare attenzione a cogliere quegli aspetti che, pur modificandosi nel tempo, non si modificano in base a quel che noi facciamo“. Per esempio, se pensiamo a un disturbo del comportamento, a crisi di rabbia, “a un generale discontrollo degli impulsi, spesso vediamo negli adulti di riferimento delle reazioni immediate: non è giusto che tu faccia questa cosa, che tu ti arrabbi. Il problema – spiega la dottoressa Costantino – è che i comportamenti nascono a partire dalle emozioni e il modo in cui noi rispondiamo è importante“.

Serve a poco, cioè, etichettare come giuste o sbagliate le emozioni  (“non ti devi arrabbiare”), perché così finiamo solo per alzare il livello dello scontro perché stiamo negando  quello che l’altro prova. “Le emozioni sono sempre vere e non sono né giuste né sbagliate – sottolinea Costantino – perché non sono sotto il nostro controllo, a differenza dei comportamenti che ne derivano. Se io riconosco l’emozione, se capisco che sei molto arrabbiato, questo apre già uno spazio di terreno e di comunicazione“. Per cercare di capire come mai, per esempio, quella cosa ha provocato una rabbia di livello 10 mentre gli altri si arrabbiano a livello 2. L’intensità dell’emozione “è un primo segnale che può porre in allarme“, che va monitorato evitando però il giudizio.

Senza giudicare, è possibile trovare un terreno incontro, per spiegare che pur comprendendo l’emozione, la sofferenza, il comportamento non era adeguato: “Ragioniamo sul comportamento, ma accogliamo l’emozione – sintetizza la dottoressa Costantino – facendo così capiamo meglio noi adulti cosa succede e i ragazzi sviluppano strumenti in più per leggere loro stessi“.  In situazioni così, “posso arrivare a capire che quel comportamento è solo occasionale, dipende da un sovraccarico emozionale occasionale, che posso in qualche modo aiutare ad alleggerire… Oppure, posso intuire che ‘è qualcosa da capire, da approfondire“. In questo, c’è anche il ruolo fondamentale della scuola, degli insegnanti, che possono supportare le famiglie. Per quanto riguarda il periodo della pandemia e le restrizioni, la neuropsichiatra invita a non minimizzare l’importanza della socialità negli adolescenti: “Dobbiamo renderci conto – dice – che la loro crescita, la loro evoluzione a quell’età è il mondo fuori, non siamo noi. A volte ha più senso per loro avere una ‘bolla’ sicura fuori casa e magari tenere la mascherina in casa“.

Molti genitori, quindi, faticano a capire chi hanno di fronte, soprattutto se la situazione di crisi è pesante. A chi rivolgersi? “L’aggancio più importante è quello con la medicina territoriale, bisogna sempre mantenere un buon livello di comunicazione col medico di base o il pediatra, sin dai primi segnali bisogna parlarne subito e sempre, senza drammatizzare”. Gisella Trincas è presidente di Unasam, l’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale a cui aderiscono 70 associazioni impegnate in tutte le regioni d’Italia. “Le famiglie non possono restare sole, è fondamentale cercare le organizzazioni di familiari sul territorio per esempio, che vanno considerate un punto di riferimento forte e qualificato“, suggerisce Trincas, che sottolinea quanto sia importante una rete di sostegno. “Le associazioni da questo punto di vista possono aiutare, indicare dove andare: bisogna informarsi, parlare, chiedere, andare nei servizi di salute mentale sul territorio. Perché a volte – dice Trincas – si drammatizzano situazioni che possono essere affrontate in maniera tranquilla e possono rientrare”. Servono “attenzione e speranza”, aggiunge Trincas.

Uscire fuori, quindi, parlare, chiedere. Come si fa con qualsiasi altro tipo di malattia. Perché il tema è che quando si tratta di salute mentale, di benessere psichico, entrano in gioco la vergogna e la negazione, le famiglie – per fortuna sempre meno – faticano a parlarne. “C’è ancora troppo spesso l’idea che se un ragazzo o una ragazza manifesta un disagio psichico, il problema è che i genitori non si sono impegnati abbastanza, oppure i bambini vengono etichettati come maleducati e basta“, dice la dottoressa Antonella Costantino. L’idea che si tratti di malattie, che non ci siano colpe e che con interventi adeguati possano essere curate come le altre è ancora difficile da far passare. Ma solo da qui si può partire, perché una cura sia possibile.

 

Fonte: Il Sole24Ore

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