Una molecola capace di unirsi alle cellule malate prima viene«inviata» per trovarle e poi viene «caricata» con una dose radioattiva che le distrugge con precisione.
Il «cecchino» migliore e più spietato, capace di riconoscere e poi abbattere un singolo nemico fra migliaia: è la terapia con radioligandi, una nuova frontiera delle cure in oncologia e della medicina di (ultra)precisione che promette di individuare ed eliminare anche singole cellule tumorali ben nascoste. È già applicata sui tumori neuroendocrini o Net ma in un prossimo futuro potrebbe diventare un’opzione per numerose neoplasie, rivoluzionando l’approccio terapeutico per molti pazienti. Per farla conoscere e soprattutto per disegnare un’organizzazione sanitaria che ne consenta un impiego adeguato ed efficiente, le sei società scientifiche protagoniste dell’adozione di questa terapia clinica hanno di recente scritto il primo «Manifesto multidisciplinare sulla terapia con radioligandi».

Teragnostica

Primo obiettivo: spiegare che cosa sia la teragnostica, il principio su cui si fonda questo approccio e che, come suggerisce il nome, unisce diagnosi e terapia: «Si tratta di impiegare radiofarmaci in cui una stessa molecola, chiamata ligando o carrier e dotata di una grande affinità verso recettori espressi dalle cellule tumorali, viene “marcata” alternativamente con due isotopi radioattivi diversi», spiega Orazio Schillaci, presidente dell’Associazione Italiana di Medicina Nucleare e Imaging Molecolare. «In un primo passaggio si somministra a scopo diagnostico il radiofarmaco che emette radiazioni rilevabili da strumenti di diagnosticaper immagini come la PET, così da individuare con precisione dove si trovano le cellule tumorali; nella fase terapeutica si somministra il radiofarmaco composto dallo stesso ligando e da un isotopo radioattivo che distrugge altrettanto selettivamente le stesse cellule in cui si accumula. In questo modo si possono trattare i focolai di malattia senza danneggiare i tessuti sani, ampliando le possibilità di terapia per i pazienti in cui il tumore si è diffuso».

Il «cecchino»

Il radiofarmaco diventa perciò un cecchino, che riconosce ed elimina con un’accuratezza letteralmente millimetrica il tumore, ovunque si nasconda; una capacità che può diventare fondamentale in caso di metastasi o contro i tumori neuroendocrini in cui la terapia con radioligando a base dell’isotopo Lutezio-177 si utilizza già e ha dimostrato di migliorare significativamente la sopravvivenza. Il vantaggio della terapia con radioligandi è la selettività elevatissima: il ligando si aggancia solo al suo bersaglio per cui la radioattività agisce solo in un’area circoscritta e per periodi limitati, che dipendono dal tempo di decadimento della radioattività stessa, diverso per ogni radioisotopo. Scegliendo il bersaglio adatto e il radioisotopo giusto, quindi, si può modulare l’effetto eliminando le cellule malate senza danneggiare i tessuti vicini, anche quando il tumore si è diffuso in sedi multiple e non è possibile operare o trattarlo con una radioterapia sistemica. Il meccanismo è stato riconosciuto come innovativo da Aifa. «L’esperienza sui tumori rari è preziosa per capire come gestire un numero maggiore di pazienti in futuro: l’obiettivo è puntare sulla competenza, con centri di riferimento che erogano la terapia a cui gli specialisti sul territorio, che seguono il malato da vicino, possano accedere da remoto per le competenze e le informazioni, creando una sorta di ospedale “virtuale”» dice Massimo Falconi, presidente di Associazione Italiana Net.

L’utilizzo nel tumore alla prostata

Il 90 per cento della mortalità in oncologia dipende dalla comparsa di metastasi e la terapia con radioligandi può perciò rivelarsi un’opzione molto efficace in questi casi, così come quando il tumore si trova in zone difficili da raggiungere con un intervento chirurgico o «critiche» perché se il bisturi danneggia l’area circostante, si possono avere conseguenze serie per la qualità di vita: basti pensare al tumore della prostata e al rischio di lesionare le strutture nervose per la continenza e l’erezione. Proprio questo carcinoma in fase avanzata o metastatica è uno dei possibili nuovi utilizzi della terapia con radioligandi, come spiega Sergio Bracarda della Società Italiana di Urologia Oncologica: «Gli studi indicano che l’approccio offre un vantaggio di sopravvivenza nei pazienti con tumore alla prostata metastatico che, come quello del seno, è dipendente dagli ormoni e quindi vede come via principale di intervento la modulazione della soppressione degli androgeni: il trattamento ormonale è vantaggioso in termini di probabilità di successo, ma è limitante in termini di possibilità di cura per chi sviluppa resistenze. La terapia con radioligandi, con il suo peculiare meccanismo d’azione, offre un’opzione in più e va a inserirsi in uno scenario molto ricco di opportunità terapeutiche: è perciò importante definire il momento e le situazioni in cui è più opportuno utilizzarla». Visti i numeri di pazienti con tumore alla prostata, ben diversi da quelli dei malati con tumori neuroendocrini, sarà necessario uno sforzo organizzativo per garantire la terapia ai pazienti.

Altre possibilità di impiego

Le possibilità di impiego della terapia con radioligandi peraltro non si esauriscono qui: oltre ad arricchire il ventaglio di armi a disposizione in fasi diverse dell’evoluzione di uno stesso tumore, perché i bersagli molecolari che ciascuno esprime si modificano nel tempo e una neoplasia inizialmente non adatta a essere colpita con un radioligando può diventarlo, sono molte le neoplasie in cui si sta studiando l’impiego dei «cecchini radioattivi», dai linfomi al tumore al seno, dal melanoma al mieloma multiplo, dal tumore ai polmoni a quello del pancreas. Osserva Giordano Beretta, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica: «Questa strategia deriva dalla terapia con iodio 131, usata da decenni per il cancro della tiroide: ora, con la nuova generazione di radioligandi, si aprono molteplici opportunità per la diagnosi e terapia di altre patologie perché questi farmaci consentono di selezionare e poi trattare i pazienti con determinate caratteristiche, cioè con sufficienti ‘bersagli’ recettoriali che possono essere colpiti dal radioligando, aumentando così efficacia e appropriatezza del trattamento. Per rendere accessibile questa innovazione terapeutica a tutti i pazienti che ne possono beneficiare, tuttavia, occorre migliorarne la disponibilità superando gli ostacoli amministrativi e organizzativi: sono e saranno sempre più indispensabili reti oncologiche interconnesse, che consentano al paziente, ovunque si trovi, di accedere al trattamento nel luogo più idoneo e più vicino a casa», conclude Beretta.

Team multidisciplinare

Il fulcro della terapia con radioligandi è il team multidisciplinare, perché la cura può essere erogata solo mettendo assieme molte competenze specialistiche diverse. Come spiega Francesca Spada di Aiom «Ciò non significa mandare il paziente da un medico all’altro o passarlo a un centro di riferimento se non si sa come intervenire: il team è un gruppo di specialisti dedicati a un contesto clinico specifico che discute assieme ogni caso nel primo momento utile alla diagnosi o in caso di sospetto diagnostico, così da offrire al paziente il miglior percorso di diagnosi e cura fin dal principio. Istituzionalizzare l’iter e i componenti dei team è fondamentale per evitare che siano i malati ad auto-coordinarsi nel percorso di cura con conseguenze negative cliniche, emotive ed economiche».

Serve un grosso impegno organizzativo

Difficile pensare a una medicina più precisa di così: la terapia con radioligandi è letteralmente cucita addosso al singolo paziente, fin dalla sua realizzazione. A causa dei tempi di decadimento della radioattività, ben definiti e legati alla natura del radiofarmaco e dell’isotopo impiegato, il processo di produzione e somministrazione è avviato di volta in volta per il singolo malato attraverso procedure organizzative strutturate e rigorose in ogni passaggio. Le prospettive d’impiego sono numerose, ma perché i pazienti possano beneficiarne davvero serve una piccola rivoluzione organizzativa, che tenga il passo dell’innovazione e aiuti anche ad andare oltre la preoccupazione che molti provano al solo sentir parlare di radioattività e medicina nucleare. «L’uso di sorgenti radioattive implica un’attenta valutazione della sicurezza per i pazienti, gli operatori e la popolazione», osserva Michele Stasi, presidente dell’Associazione Italiana di Fisica Medica e Sanitaria. «Bisogna per esempio gestire i rifiuti radioattivi, proteggere medici e operatori con adeguati percorsi e protocolli, garantire la sicurezza di familiari e accompagnatori dopo la dimissione: di tutto questo si occupa il fisico medico, che ha un ruolo centrale nella radioprotezione del paziente. Dal 2020 c’è poi una novità che apre scenari nuovi per la terapia con radioligandi: la direttiva europea 59/13 Euratom sulla radioprotezione è stata infatti recepita dal nostro Paese con il decreto legislativo 101/20 e permette di superare l’obbligo del ricovero in degenza protetta per chi è trattato con radiofarmaci diversi dallo iodio 131. Valutando per ciascuno la radioattività al momento della dimissione e fornendo istruzioni al paziente e ai familiari, è possibile ipotizzare l’erogazione della terapia con radioligandi in regime ambulatoriale o di Day Hospital».

Il censimento dei reparti

Una semplificazione, nel rispetto della sicurezza, non di poco conto visto che stando all’ultimo censimento AIMN in Italia i reparti di medicina nucleare dove è possibile erogare questa terapia sono 254, ma solo 47 possiedono le camere di degenza protetta, schermate per le radiazioni, per un totale di 220 posti letto: gestire i malati senza doverli ricoverare grazie a un’adeguata valutazione individuale significa poter ampliare la platea di chi può accedere al trattamento e quindi poter affrontare l’inevitabile maggior pressione sui reparti quando, in un futuro sempre più prossimo, si potranno trattare così altre neoplasie oltre ai Net (dei 2.700 nuovi casi ogni anno il 40-50 per cento ha l’indicazione al trattamento con radioligandi e questo fabbisogno è coperto dall’attuale capacità di erogare la cura).

Il ruolo di fisico medico e radiofarmacista

Il fisico medico, garante della radioprotezione, non è però l’unico specialista che dovrà affiancare oncologo e medico nucleare: il Manifesto sottolinea anche l’importanza del radiofarmacista, che, come spiega Monica Santimaria della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera «È il garante della qualità della cura perché deve occuparsi dell’approvvigionamento del radiofarmaco, della sua preparazione in ambienti sterili, del controllo della qualità, della farmacovigilanza, della gestione del rischio clinico, delle possibili interazioni con altri farmaci o alimenti. Ha perciò competenze trasversali a tutte le figure specializzate che ruotano attorno alla terapia con radioligandi e può essere il loro anello di congiunzione». A dimostrazione del fatto che questo approccio funziona «in gruppo»: solo con team multidisciplinari e strutture adeguate sarà davvero possibile mettere questa terapia a disposizione di tutti i pazienti con l’indicazione al trattamento.

LEGGI TUTTE LE ALTRE NEWS