Il punto sulle ricerche di una cura per COVID-19, tra speranza e delusioni

Articolo del 25 Novembre 2020

Le terapie allo studio per il nuovo coronavirus sono centinaia, ma a dispetto di dieci mesi di frenetiche ricerche in ogni parte del mondo, la scarsa conoscenza dei meccanismi d’azione del virus ha frustrato molte speranze. Ma le sperimentazioni non si fermano, e i medici hanno imparato a curare meglio i malati con gli strumenti già a disposizione.

Negli ultimi dieci mesi, mentre l’onda della pandemia si abbatteva su tutto il mondo, migliaia di aziende farmaceutiche e laboratori di ricerca si sono affrettati a studiare il nuovo coronavirus e sviluppare una cura. Secondo il Milken Institute, un think tank che si occupa di sanità, sono in corso centinaia di sperimentazioni cliniche su almeno 300 terapie diverse per COVID-19, e un altro centinaio di farmaci sono invece nella fase dei test di laboratorio.

Ma nonostante tutto l’impegno, la ricerca di nuovi medicinali si sta rivelando difficile per medici e scienziati. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration ha dato la piena autorizzazione a un solo nuovo farmaco antivirale, il remdesivir. Il 9 novembre l’ente ha autorizzato un altro preparato, chiamato bamlanivimab, per l’uso di emergenza su pazienti non coinvolti in sperimentazioni cliniche, ma sembra che sia inefficace sui pazienti più gravi; l’azienda che lo sta sviluppando, Eli Lilly, ha sospeso la sperimentazione su quel gruppo il mese scorso. Anche il remdesivir sembra migliorare solo di poco il decorso clinico. E l’idrossiclorochina, un antimalarico che in laboratorio uccide il virus, ha fatto più danni che altro quando è stata sperimentata sui malati.

Anche se l’identificazione di potenziali nuovi farmaci è stata davvero veloce per gli standard della ricerca clinica, gli scienziati sono tuttora ostacolati dalle tante domande ancora senza risposta sugli effetti del virus sul corpo umano. “Dal punto di vista biologico, molte cose hanno senso”, afferma Srinivas Murthy, medico di terapia intensiva all’Università della Columbia Britannica. “Il remdesivir aveva senso, e anche l’idrossiclorochina aveva senso. Ma alla fine tutto si riduce a questo: funziona nei pazienti?”

Una notizia migliore è che le sperimentazioni cliniche in corso stanno iniziando a separare le terapie utili da quelle che falliscono. Negli ultimi mesi le ricerche hanno rivelato nuove informazioni sul sistema immunitario e sull’evoluzione di COVID-19, il che ha permesso alla scienza di usare sui pazienti farmaci mirati, in base a fattori come la gravità della malattia.

Nel mezzo di una pandemia in rapida diffusione, i ricercatori hanno trovato nuovi modi di sperimentare le varie terapie simultaneamente in più soggetti possibile. “Se c’è un aspetto positivo in questa situazione orrenda, è che ha accelerato gli sforzi della comunità scientifica per implementare metodi di sperimentazione innovativi e ottenere le risposte in modo rapido”, afferma Carolyn Calfee, anestesista all’Università della California a San Francisco. “Ritengo che sarà un cambio di rotta radicale per la medicina di rianimazione.”

Nella loro ricerca gli scienziati stanno esplorando strategie diverse, tra cui farmaci antivirali che impediscono al nuovo coronavirus di replicarsi, molecole immunitarie artificiali note come anticorpi monoclonali (MAb, monoclonal antibodies) che segnalano il patogeno come elemento da distruggere prima che possa entrare nelle cellule (il bamlanivimab di Lilly ne è un esempio) e terapie che impediscono una risposta eccessiva del sistema immunitario al virus, con conseguenze che possono portare alla morte.

Dall’inizio della pandemia, ricercatori e medici hanno fatto importanti progressi nella cura dei pazienti affetti da COVID-19. I tassi di mortalità sono scesi in modo significativo, in parte grazie a miglioramenti nelle strategie di cura: per esempio, si sa meglio quando è opportuno ventilare un paziente o in che posizione distenderlo sul letto. E se finora c’è stato un unico farmaco che ha dimostrato di poter ridurre il rischio di morte, uno steroide chiamato desametasone, gli scienziati confidano che nei prossimi mesi giungano notizie migliori sull’efficacia di altri farmaci.

L’importanza della tempistica
Alcune peculiarità del coronavirus e di COVID-19 hanno però reso più complicata la ricerca. Per esempio, all’inizio non era evidente che si tratta di una malattia che ha più stadi: c’è l’infezione delle vie respiratorie superiori causata dal virus e poi c’è una reazione immunitaria, più rara e più grave, che può verificarsi quando il patogeno arriva in profondità nei polmoni.

Questa differenza, a quanto pare, determina la probabilità che una determinata terapia sia efficace. Se si somministra troppo presto un immunosoppressore come il desametasone, si distrugge la capacità del corpo di combattere da solo il virus. Se si somministra una terapia antivirale troppo tardi, il virus sarà già fuori controllo.

Questa tempistica potrebbe aiutare a spiegare perché si è rivelato così difficile curare i pazienti COVID-19 più gravi con nuovi farmaci. A ottobre un comitato di sicurezza non ha riscontrato alcun miglioramento con la somministrazione di bamlanivimab in pazienti gravi. Due settimane più tardi Regeneron ha interrotto la sperimentazione sul suo cocktail di MAb  a causa di dubbi sulla sicurezza. “È stata certamente una delusione”, commenta Michael Matthay, specialista di terapia intensiva all’Università della California a San Francisco e ricercatore principale dello studio sul bamlanivimab.

Myron Cohen, che si occupa di malattie infettive all’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill, non è sorpreso dell’inefficacia del farmaco sui pazienti molto gravi. Nelle sperimentazioni su animali, gli anticorpi monoclonali e gli altri antivirali sembrano avere il massimo dell’efficacia all’inizio della malattia, quando il virus è ancora nel naso e non ha causato complicanze gravi.

Un’altra spiegazione dei risultati deludenti nel decorso clinico di questi pazienti, aggiunge Matthay, è forse da ricercarsi in un fenomeno chiamato potenziamento dipendente da anticorpi, in cui il virus si lega al flusso improvviso di anticorpi nei tessuti delle vie respiratorie, riesce a entrare in altre cellule del sistema immunitario e causa un’infiammazione. Ancora non è chiaro se questo accada con i MAb usati nella cura della COVID-19, ma questa sindrome è stata osservata in altre malattie e nel 2017 ha persino affossato un promettente vaccino contro la dengue.

Però Matthay e altri continuano ad avere grandi speranze per quanto riguarda gli anticorpi monoclonali in generale. “Uno o due possono non funzionare, ma ciò non significa che non funzioni l’intera classe”, afferma il ricercatore. Nell’estate 2020 c’erano otto MAb in fase di sperimentazione clinica e non meno di 80 altri farmaci basati sugli anticorpi in fase di sviluppo.

Attualmente diverse aziende, tra cui Lilly e Regeneron, stanno testando i loro preparati a base di anticorpi su pazienti meno gravi e anche su persone che hanno molte probabilità di essere esposte a COVID-19, come i dipendenti delle case di riposo. Queste sperimentazioni potrebbero fare luce sull’utilità o meno di questo tipo di medicinali quando sono somministrati ai pazienti immediatamente (come è avvenuto con il presidente Donald Trump, che a quanto pare ha ricevuto il cocktail di anticorpi di Regeneron appena un giorno dopo la comparsa dei sintomi).

Un problema frustrante, però, sta nella difficoltà di somministrare i MAb ai soggetti con sintomi meno gravi: infatti la somministrazione deve avvenire per via endovenosa, perciò è più facile effettuarla in ospedale, dove è più probabile che i pazienti siano gravi ed è meno probabile trovare quei casi più lievi in cui il medicinale potrebbe rivelarsi più efficace.

Anche altri farmaci, come il remdesivir, sembrano esprimere al massimo la loro efficacia nelle prime fasi dell’infezione, soprattutto quando riescono a sopprimere il virus prima ancora che il sistema immunitario lo rilevi e possa scatenare una risposta eccessiva. Sono attualmente in corso sperimentazioni cliniche su più di 20 antivirali, molti dei quali sviluppati in origine per combattere altri virus. Il vantaggio di questi farmaci riconvertiti rispetto ai nuovi MAb è che sono già stati sperimentati sugli esseri umani e sono risultati sicuri, afferma Jingyue Ju, ingegnere chimico alla Columbia University.

Vecchi farmaci, nuovi usi
Ju sta studiando la possibilità di usare contro COVID-19 il sofosbuvir, un medicinale sviluppato per la terapia contro l’epatite C. Il sofosbuvir imita le lettere del codice genetico di un virus in un filamento falso che, però, non codifica davvero le proteine virali. Quando il virus cerca di replicarsi, i suoi enzimi incorporano il farmaco nel nuovo genoma e così la replicazione non va a buon fine. Altri preparati attualmente sottoposti a sperimentazione clinica, come un medicinale contro l’HIV chiamato lopinavir, sono detti inibitori della proteasi e impediscono la scissione delle proteine virali in piccole parti che poi si diffonderebbero in tutto il corpo. Tuttavia “la maggior parte dei farmaci riconvertiti non hanno avuto i risultati che speravamo”, afferma Murthy. “Bisogna ancora vedere se stiamo percorrendo le vie sbagliate o se dobbiamo esplorare altre possibilità.”

Il desametasone, lo steroide in uso dagli anni sessanta che riduce i tassi di mortalità nei pazienti gravi, è uno dei farmaci riconvertiti che hanno avuto successo. La sua efficacia è innegabile:  è stata accertata in un’ampia sperimentazione in cui il medicinale è stato somministrato a 2100 persone. Tuttavia non è ancora del tutto chiaro come funzioni, dice Calfee, perché gli steroidi possono agire su molte vie immunitarie diverse. Inoltre i ricercatori preferirebbero una cura più specifica, che agisca solo sulle vie immunitarie interessate dal coronavirus, senza esporre i pazienti a forti steroidi.

Una possibilità è il tocilizumab, un MAb prodotto da F. Hoffmann-La Roche. Invece di agire sul virus, questo farmaco attacca una molecola messaggera chiamata interleuchina 6 (IL-6), che si ritiene intervenga nelle reazioni eccessive del sistema immunitario. Anche se un ampio studio osservazionale condotto su quasi 4000 pazienti ha determinato che il tocilizumab riduceva il rischio di morte, studi controllati randomizzati su questo e altri inibitori di IL-6 non hanno rilevato benefici, perciò il loro uso è ancora in discussione.

Difficoltà delle sperimentazioni
Ad alcune delle domande che riguardano i meccanismi e l’efficacia dei nuovi farmaci sarà difficile, se non impossibile, dare una risposta a questo punto. Terapie come quelle con il desametasone e il remdesivir ormai sono lo standard, perciò nei nuovi studi sono somministrate ai pazienti tanto nel gruppo che riceve il farmaco quanto nel gruppo che riceve il placebo, cosicché diventa difficile per i ricercatori capire quali siano gli effetti di qualsiasi altro nuovo farmaco.

E se i medici possono usare medicinali come il bamlanivimab in casi di emergenza, per gli scienziati diventa difficile trovare pazienti disponibili a partecipare a sperimentazioni in cui è previsto un gruppo di controllo che riceve un placebo. “Chi vorrebbe mai far parte del gruppo di controllo quando partecipa a una sperimentazione?”, si chiede Eric Toner, ricercatore che si occupa di salute pubblica al Johns Hopkins Center for Health Security.

Calfee sottolinea un altro problema delle sperimentazioni: i pazienti affetti da COVID-19 non sono un gruppo omogeneo e alcune terapie possono funzionare meglio su alcune persone che su altre. Se i medicinali sono ammessi all’uso clinico con troppa fretta, prima che la loro efficacia sia stata dimostrata, diventa difficile determinare quali pazienti possano beneficiare di più delle diverse combinazioni. Comunque Calfee ammette che in una pandemia è importante avere risposte subito. “È la sfida insita in una malattia che si evolve rapidamente”, afferma.

Su una nota più positiva, alcuni ricercatori come Toner ritengono che le sperimentazioni sugli anticorpi monoclonali, in particolare, possano portare a cambiamenti permanenti nel modo in cui si curano le malattie infettive. Questi farmaci si possono produrre non appena i ricercatori riescono a sequenziare il genoma di un nuovo virus. Ora la tecnologia che semplifica la produzione di MAb in grandi quantità potrebbe consentire di produrle rapidamente per le malattie virali future. E se le sperimentazioni cliniche su COVID-19 porteranno allo sviluppo di un farmaco antivirale in grado di attaccare tutta una serie di virus, conclude il ricercatore, “potrebbe essere qualcosa di rivoluzionario”.

 

Fonte: Le Scienze

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