La sete evitabile

Articolo del 05 Luglio 2022

L’Italia è un paese a elevato stress idrico. Tuttavia manca un’infrastruttura idrica tarata sullo scenario attuale alterato dal cambiamento climatico, che espone al rischio di siccità durante congiunture particolari come l’estate di quest’anno, destinate in futuro a ripetersi con inquietante frequenza.

La crisi peggiore degli ultimi settant’anni. La misura della situazione idrologica italiana la dà l’Autorità di bacino del Po (AdBPo) dopo mesi di siccità dichiarata. Il paese è a secco. È stato dichiarato lo stato di emergenza in Piemonte, dove l’allerta riguarda 145 comuni soprattutto nel novarese e nell’Ossolano, in Emilia Romagna, dove l’acqua è stata razionata in numerosi comuni, razionamenti anche in Veneto, Umbria, Lazio, dove il presidente della Regione Nicola Zingaretti ha definito “grave” la situazione della provincia di Roma.

24 giugno 2022: il fiume Po in secca presso l’attracco fluviale di Sermide in provincia di Mantova

La magra del Po sta fermando persino le grandi centrali termoelettriche, come Moncalieri (Torino, Iren), Sermide (Mantova, A2A), alcuni dei gruppi di Ostiglia (Mantova, Ep) per circa 2400 megawatt in meno. Altri 4800 megawatt rischiano di fermarsi nei prossimi giorni senza l’apporto delle attese – ma ridotte – piogge. Tra gli operatori del settore elettrico serpeggia la preoccupazione, nessuno vuole commentare.

Entro la prima meta di luglio la Protezione civile decreterà lo stato di emergenza nazionale, non escludendo nemmeno il razionamento dell’acqua nelle fasce diurne. “Per risolvere questa situazione servirebbero 2-3 perturbazioni organizzate con piogge di qualche giorno – spiega il meteorologo Francesco di Francia, di 3Bmeteo – ma siamo già troppo avanti. Probabilmente si dovrà attendere fine settembre per il primo treno di perturbazioni.”

Una situazione pregressa

Da anni sappiamo che siamo un paese a elevato stress idrico ovvero con un rapporto negativo tra il prelievo idrico e l’effetto combinato di spreco, sovrasfruttamento e inquinamento delle riserve complessive. Non si può dire che in Italia manchi l’acqua: la piovosità media si attesta sui 600 millimetri, superiore a quella di Spagna e Grecia. Quello che manca è un’infrastruttura idrica tarata sullo scenario attuale alterato dal cambiamento climatico, che espone il paese al rischio siccità durante congiunture particolari come l’estate 2022, destinate in futuro a ripetersi con inquietante frequenza.

Se in molte regioni del Sud la scarsità idrica è strutturale, la crisi del bacino del Po ha mostrato a tutti il significato congiunto della riduzione della piovosità, del ridotto innevamento e della scomparsa dei ghiacciai da quelle che sono le torri d’acqua d’Italia, le Alpi.

Secondo la Protezione civile quest’anno si è registrato un 40-50 per cento di acqua piovuta in meno rispetto alle medie degli ultimi anni, e una riduzione fino al 70 per cento dell’innevamento, che ha ridotto la portata di fiumi come il Po fino all’80 per cento in meno. “Nel 2022 abbiamo avuto un’alta pressione precoce, con temperature da piena estate già a maggio, che hanno fatto seguito a un autunno e inverno decisamente sotto la media,” illustra di Francia. “Nemmeno il fortino nivologico sulle Alpi è stato rimpinguato.” Risultato: invasi vuoti, fiumi in secca e ora il rischio di un collasso sistemico prolungato.

L’infrastruttura insufficiente

Si diceva che l’infrastruttura gestionale idrica non si adatta alla nuova normalità idrologica. Le questioni sono principalmente due: la raccolta, tramite invasi e canali e il sovraconsumo, in particolare per l’irrigazione. “La sfida oggi è costruire nuovi invasi, soprattutto in quota, di varie dimensioni, anche micro-invasi, garantendo però il deflusso minimo ecologico per preservare la biodiversità fluviale e ridurre il cuneo salino, che è tornato a essere un problema in questi giorni con una penetrazione nelle foci senza precedenti”, spiega a “Le Scienze” Marco Marano, professore dell’Università di Padova e direttore del corso di laurea magistrale Water and Geological Risk Engineering. Vanno poi manutenuti e ampliati i bacini esistenti, che riescono a catturare solo l’11 per cento del cumulato di pioggia, mentre cinquant’anni fa eravamo al 14 per cento; secondo l’Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue (ANBI) questo valore andrebbe portato almeno fino al 30 per cento. “Servono subito circa 400 nuovi impianti, da realizzare attraverso adeguate semplificazioni”, commenta invece Erasmo De Angelis, segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale. Per l’ampliamento e ammodernamento si guarda al PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che però stanzia meno del 2 per cento per l’acqua. “Troppo poche per adattare l’infrastruttura alla nuova realtà idrica italiana”, ribadisce l’esperto che ha appena pubblicato il libro Acque d’Italia (Giunti, 2022).

Per l’irrigazione il problema principale rimane il getto a pioggia, ancora diffusissimo dall’Alto Adige alla Sicilia, che disperde fino al 70 per cento dell’acqua, e l’efficientamento della fase di convogliamento e distribuzione di competenza dei consorzi di bonifica. “Serve un applicazione diffusa di metodi di irrigazione goccia a goccia, che contribuisce a ricaricare meno la falda, ma è imprescindibile nei momenti di magra”, continua Marano. “Oltre a scegliere colture anche non tradizionali che però richiedono meno acqua.” Non mancano le tecnologie pilota, dall’irrigazione di precisione a nuovi sistemi di vaporizzazione dell’acqua. Inutile l’innovazione artificiale come tecnologia di accumulo idrico, mentre la rinaturalizzazione dei fiumi e la riforestazione possono servire a contenere gli acquazzoni e rallentare il flusso favorendo la captazione e l’assorbimento del suolo e quindi la ricarica di falda.

Un impianto di irrigazione a pioggia a Pergine Valsugana

C’è poi il tema dello spreco nei 600.000 chilometri di rete idrica potabile italiana dove perdiamo per strada il 42 per cento di acqua e del sovraconsumo dei cittadini. “Ognuno di noi consuma 245 litri di acqua al giorno, 100 litri in più rispetto alla media dei cittadini del resto d’Europa”, spiega de Angelis. “Serve subito una grande campagna di risparmio.” Ogni gesto conta, anche se l’impatto delle misure antispreco adottate finora dai comuni è risibile, a fronte dei consumi del settore agricolo e industriale.

Una nuova governance

Secondo numerosi intervistati per questo articolo il nodo della gestione idrica italiana risiede nella governance. “Dalla riforma Bassanini, manca uno sguardo complessivo su disponibilità idrica, prelievi, utilizzi, infrastrutture, fabbisogni, sprechi”, spiega Erasmo De Angelis. Attualmente la gestione idrica è divisa tra diversi ministeri, vari enti scientifici, le ARPA e le Regioni: una frammentazione che colpisce anche la raccolta e l’organizzazione dei dati. “Avremmo invece bisogno di una forte regia nazionale, in grado di integrare tutti i dati scientifici e seguire la parte operativa dei piani”, continua De Angelis. “Un tempo c’era: si chiamava Servizio idrografico e mareografico italiano, istituito nel 1917. Ma nel 2002 la riforma ha passato le competenze alle ARPA regionali.”

Ad aggravare la situazione degli investimenti c’è stata poi l’erosione degli investimenti pubblici per questo bene pubblico: le infrastrutture idropotabili con la legge Galli del 1996 si devono sostenere principalmente con la tariffa. Che però è la più bassa di Europa, in media 160 euro per una famiglia di tre persone, un terzo rispetto ai Paesi Bassi e più bassa della Grecia. E così, languendo anche il sostegno in legge di bilancio le opere rimangono ferme.

“Serve un mandato chiaro sotto il controllo del Consiglio dei ministri”, commenta Alessandro Russo, presidente e amministratore delegato di Gruppo CAP, gestore del servizio idrico integrato milanese. “Sull’energia c’è un ministero con una chiara attribuzione, il MITE [Ministero della transizione ecologica, NdR], perché non fare lo stesso con l’acqua invece che spacchettarlo per ogni ambito di attribuzione?” Per il momento si procederà dando l’incarico straordinario della gestione emergenziale alla Protezione civile. Ma c’è già chi scommette che l’incarico è destinato a durare.

Un’economia circolare dell’acqua
“L’idrologia italiana ha sempre puntato, fin dai tempi del sistema dei Navigli di Leonardo da Vinci sul ‘mandare via’ l’acqua in maniera veloce, per evitare ristagni e malattie”, spiega Alessandro Russo. “Oggi bisogna puntare tutto sul trattenere e soprattutto sul riutilizzare, creando degli utilizzi di varia fascia, usando le acque depurate. Un’economia circolare dell’acqua adattata ai cambiamenti climatici.”

In Italia attualmente si buttano in mare fino a otto miliardi di metri cubi di acqua ogni anno, anche di grande qualità, in uscita dai depuratori che non può essere usata. “Questa è acqua che può essere impiegata per usi industriali, come il raffreddamento degli impianti, per lavare le strade o gli automezzi. Basta usare la fonte idropotabile”, commenta De Angelis. “Dal giugno del prossimo anno l’Europa ci sanzionerà perché siamo l’unico paese europeo che non riusa l’acqua.”

Serve quindi ridurre i consumi nei cicli industriali. Come nel settore delle cartiere, dove alcune aziende hanno iniziato a ridurre i consumi. Negli ultimi sei anni la cartiera Fedrigoni ha ridotto del 47 per cento il consumo di acqua fresca nel comparto delle etichette autoadesive, a parità di produzione, e il 15 per cento in meno di acque di processo in quello di carta. Oppure nell’edilizia dove è necessario costruire massimizzando il risparmio idrico indoor e la raccolta idrica per scopi irrigui e per gli scarichi sanitari, favorendo pavimentazioni permeabili in esterno.

Prima ancora di parlare di desalinizzazione o tecnologie di cattura dell’umidità dell’atmosfera – una necessità in alcune zone della Spagna – serve mettere a sistema l’esistente, riorganizzare i consumi, aumentare la tariffa e organizzare una regia centrale in grado di ripensare le acque italiane in un’ottica pienamente circolare, ispirata Alla migliore scienza del clima e basata su un’infrastruttura di dati e di conoscenza, fondamento di un’innovazione tecnologica da implementare su tutta la rete. Adattamento ai cambiamenti climatici significa esattamente questo.

 

Fonte: Le Scienze

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