Quanti dati producono i bambini? Con il coronavirus è ancora peggio.

Articolo del 23 Ottobre 2020

La parola è brutta ma rende bene l’idea: datizzati, che sarebbe un tentativo di italianizzazione di datified. Quanto siamo datizzati? Cioè quanto è nitida l’impronta digitale della nostra vita che concediamo più o meno volontariamente a istituzioni, società e aziende private in cambio di servizi più o meno indispensabili? La risposta è soggettiva ma non per le nuove generazioni. Perché con il Covid-19 la raccolta di dati ha subìto una accelerazione senza precedenti. E le conseguenze dirette le imparerà a conoscere chi oggi è più giovane, più debole e meno informato.

L’infanzia datificata

Per usare le parole delle Autorità Garante per l’Infanzia inglese, le nuove generazione sono la prime datizzate dalla nascita. Come spesso accade, più di un Grande Fratello che vede, misura e registra tutto siamo di fronte a un gigantesco concorso di colpe che ha per protagonisti le istituzioni, i genitori e una drammatica mancanza di cultura digitale collettiva. La prima raccolta dati – strano a dirsi – inizia con la prima poppata. Il digitale in questo caso non c’entra. Molto spesso i neogenitori tengono traccia delle prime settimane di vita del neonato su un quaderno di carta segnando giorno per giorno le ore di sonno, stato delle feci, quantitativo di latte, pannolini cambiati, ecc.

Chi preferisce il supporto digitale può arricchire queste informazioni applicando dispositivi indossabili e sensori alla culla per rilevare per esempio battito cardiaco, temperatura magari aggiungendo un monitor a infrarossi per controllare quello che succede di notte. Va da sé che tutte queste informazioni – compresi i dati biometrici – possono essere collezionati su smartphone e volendo condivisi con il mondo esterno. Non c’è nulla di illegale. Ci sono pediatri che per risparmiare una telefonata si fanno mandare questa sorta di “diario di bordo” via Whatsapp. Un copia e incolla dei dati e via. In fondo, che c’è di male, è il medico curante?

Lo sharenting selvaggio

E gli amici? I parenti? I contatti su Facebook? Il nostro pubblico? Già e a loro, chi ci pensa? La condivisione di immagini e video sui social network ha ormai un nome proprio: “sharenting”, che nasce appunto dall’unione dei termini “sharing” (condivisione) e “parenting” (genitorialità). Per fortuna a differenza del termine “datizzati” non c’è ancora una traduzione italiana. Ma anche da noi non sono pochi i papà e le mamme che hanno cominciato a pubblicare dati dei propri figli prima ancora del loro “debutto ufficiale in società”.

L’ecografia su Facebook o Instagram in fondo è una trovata simpatica per comunicare ad amici o parenti o all’universo mondo l’arrivo del nuovo bambino. La pratica, intendiamoci, non va giudicata ma solo compresa più fondo e anche misurata. Secondo uno studio del dipartimento per l’educazione britannico, quando un bambino compie il tredicesimo anno d’ètà, i suoi genitori hanno già pubblicato 1.300 foto e video sui social media. Vuole dire che se il figlio ha preso dai genitori, se cioè ha mutuato da mamma e papà l’urgenza di condivisione via social, raggiungerà entro i 18 quota 70mila post. Secondo una stima gli adolescenti anglosassoni si esprimono sui social almeno 26 volte al giorno.

Chi protegge i minori da loro stessi sui social?

Ad ogni modo esistono delle regole e delle norme da rispettare. In Europa, per fortuna, dal 2018 abbiamo la Gdpr, che ha introdotto un limite di età di 16 anni alla capacità dei bambini di acconsentire al trattamento dei propri dati. Prima del regolamento europeo i principali social network prevedevano una età minima per iscriversi fissata a 13 anni. Questo perché le principali piattaforme online sono americane, e quindi applicavano il limite fissato dalla legge federale Usa. L’articolo 8 della Gdpr prevede invece il divieto di offerta diretta di servizi digitali (quindi iscrizione ai social network e ai servizi di messagistica), ai minori di 16 anni, a meno che non sia raccolto il consenso dei genitori (occorre accertare che il consenso sia dato dall’esercente la patria potestà) o di chi ne fa le veci.

Questo limite può essere ulteriormente abbassato dagli Stati nazionali (ma il limite non può scendere al di sotto dei 13 anni). In Italia, per esempio, con il Codice Privacy si è abbassata l’asticella fino a 14 anni. Quindi da lì in poi, se naturalmente c’è il consenso dell’adolescente, vale tutto. Fin qui siamo dalle parti dell’esercizio volontario della nostra impronta digitale. Cioè diciamo cose, pubblichiamo foto e video con il nostro consenso, in scienza e coscienza. Poi c’è anche quello che accade a nostra insaputa.

Come funziona l’internet of Toys?

Già ci sono i giocattoli. Quelli connessi, che parlano, ascoltano e registrano. Questi giocattoli sono in grado di “trattare” (anche) dati personali interagendo con le persone e con l’ambiente circostante tramite microfoni, fotocamere, sistemi di localizzazione e sensori, nonché di connettersi alla rete per navigare online e comunicare con smartphone, tablet, PC e altri smart toys. Come scrive il Garante della privacy, è bene leggere con attenzione l´informativa sul trattamento dei dati personali raccolti, che dovrebbe sempre essere disponibile nella confezione e/o pubblicata sul sito dell´azienda produttrice.

Qualcuno si ricorderà – anzi non si ricorderà – del caso della bambola interattiva Cayla. Biondina, giacca di jeans e gonna rosa. È oggi considerata in Germana uno strumento di spionaggio. L’Autorità garante delle telecomunicazioni l’ha messa al bando l’estate scorsa. Non solo non è più possibile venderla ma non si può neppure detenerla. Chi l’ha acquistata dovrà distruggerla.

È importante comprendere anche quali e quante informazioni saranno acquisite direttamente dal giocattolo (ad esempio, tramite fotocamera o microfono) e come potrebbero eventualmente essere utilizzate (solo per far funzionare lo smart toy o anche per altre finalità). La nostra legislazione già chiede che i sistemi elettronici siano prodotti e configurati per ridurre al minimo la raccolta e il trattamento di dati personali (privacy by design e privacy by default).

Ma al netto della progettazione, ai genitori viene chiesto di studiare questi dispositivi, non solo sotto il profilo della normativa ma soprattutto su quello delle conseguenze che l’interazione con questi dispositivi avrà sulla psicologia dei bambini. Un dato su tutti? Il 57% dei genitori che usano una smart speaker come Alexa o Google Home lo usa per raccontare favole. Anche qui, non c’è giudizio ma solo ricerca degli strumenti per la comprensione degli effetti.

La scuola, il lockdown e i nostri dati sulle piattaforme extra-Ue

E poi ci sono i dati degli studenti. Durante il lockdown è successo di tutto, ogni scuola, anzi ogni classe si è organizzata come ha potuto usando ad esempio le piattaforme di videoconferenza che c’erano. Quali? Solitamente le solite delle solite multinazionali americane: Teams, Zooms, Hangouts solo per citare le più note. Sul sito del ministero dell’istruzione sono indicate tre piattaforme per la didattica a distanza: una è di Google, una di Microsoft e una di Tim. Eppure, a marzo il Garante della privacy aveva chiesto al ministro Lucia Azzolina di creare piattaforme open source e di preferire il registro elettronico alle piattaforme extra-Ue.

Come ha chiarito il garante della privacy in carica Antonello Soro in una audizione al senato: «Fra il registro elettronico e la piattaforma di una multinazionale di cui non si sa nulla è meglio nel presente dare indicazioni perché le scuole ricorrano tutte le volte che è possibile al primo». Eppure, non è vero che non si sa nulla. Google per esempio, a questo indirizzo spiega in modo piuttosto trasparente come usa i dati di cui viene in possesso . La questione come abbiamo già scritto riguarda la sovranità del dato ed è squisitamente geopolitica: i tuoi voti a chi li vuoi dare? Al tuo Stato o a una multinazionale?

I dati sensibili, il fascicolo sanitario elettronico

E poi ci sono i nostri dati sensibili, quelli che riguardano la nostra salute e quella dei nostri figli. Immaginate di avere archiviata in una cartella elettronica tutta la nostra storia sanitaria. Immaginate solo perché il Fascicolo sanitario elettronico (Fse) ce l’hanno solamente 18 milioni di italiani. Non è stata raggiunta nemmeno la metà della popolazione. Chi ha la fortuna di poterne usufruire sa quanto può essere utile anche soltanto per controllare magari il risultato di un tampone o gli esami medici. Nel caso dei minori sono i genitori che devono dare il consento. Il mancato consenso alla consultazione del Fse non comporta conseguenze nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.

Ma come si legge nel sito del Garante della privacy il tuo Fse sarà accessibile a tutti gli operatori del SSN/SSR che ti prenderanno in cura. Le informazioni in questo caso davvero sensibili, pensate solo se qualcuno dovesse entrare nel vostro fascicolo sanitario elettronico. Ma pensate anche quando vostro figlio sarà grande l’importanza clinica di avere uno “storico” del proprio stato di salute. Il prezzo della datizzazione in questo caso non è mai stato più binario.

La nuova cittadinanza digitale

E poi ci siamo noi cittadini chiamati a tenere insieme e a tenere traccia di tutte le tracce che siamo chiamati a lasciare. «Le conseguenze sul piano cognitivo, sociale e politico – ha scritto Giovanna Mascheroni, sociologa dei media all’Università Cattolica – sono potenzialmente distruttive e ci invitano a interrogarci sui diritti di cittadinanza che ormai diamo per scontati». La docente ha ottenuto un grant della Fondazione Cariplo proprio sulla datizzazione dell’infanzia per approfondire il percorso del dato all’interno dell’essere famiglia.

«Sappiamo troppo poco sull’uso che verrà fatto di questi dati – spiega Mascheroni al Sole 24 Ore – e sull’impatto che avranno sui nuovi adulti. Quello che mi spaventa è se saranno usati per regolare l’accesso alle risorse. Pensiamo all’università, l’ingresso oggi è regolato dalle competenze scolastiche. Domani potrebbe confluire in pacchetti di dati che vanno a definire meglio la futura performance dell’individuo». Se così fosse, ed è un film dell’orrore, i futuri adulti potrebbero accusare anche i genitori per avere permesso un uso indiscriminato dei propria impronta digitale.

«Il rischio – conclude Mascheroni – è che come per il digital divide applicato all’apprendimento si andranno a creare nuove e più profonde disuguglianze». L’asimmetria informativa tra cittadini e piattaforme digitali è pervasiva e strutturale: non solo le famiglie non hanno a disposizione tutte le informazioni di cui avrebbero bisogno per prendere una scelta informata, ma molti dei comportamenti, per essere efficienti, presupporrebbero un grado di conoscenza tecnica che vamolto al di là delle competenze diffuse tra la popolazione.

Fonte24+ de IlSole24Ore