Tutti vegetariani per il clima?

Articolo del 21 Ottobre 2020

Per la prima volta nel 2020 e a un anno dall’ultimo sciopero globale per il clima, oggi i ragazzi di Fridays For Future scendono in piazza per chiedere ai governi di agire urgentemente contro il cambiamento climatico.

Il momento non potrebbe essere più opportuno. La scorsa settimana si è chiusa con i cieli di San Francisco tinti di arancione, a causa dagli incendi che hanno bruciato circa 1,2 milioni di ettari di foresta nella sola California. Questa settimana si è aperta con la notizia che il ghiaccio artico ha toccato il secondo più basso livello di estensione mai osservato.

Il Polo Nord è una specie di sentinella per il cambiamento climatico. Gli effetti del riscaldamento globale da quelle parti si vedono più velocemente che altrove. La notizia ha guadagnato la prima pagina del quotidiano Le Monde non più tardi di mercoledì insieme a un bilancio sull’offerta di pasti vegetariani nelle scuole pubbliche francesi.

La produzione e distribuzione di cibo è infatti al secondo posto tra le attività umane inquinanti, essendo responsabile di una quantità stimata tra un quarto e un terzo delle emissioni di gas a effetto serra ogni anno (13,7 miliardi di tonnellate). Di questa porzione, quasi il 60% è legato alla produzione di carne e latticini. Dopo il settore dell’energia, è l’industria alimentare che sta lentamente finendo del mirino degli attivisti per il clima. Ne è prova il fatto che alcuni tra i più grandi fondi comincino a incorporare gli impatti ambientali nel calcolo del valore a rischio degli investimenti nel settore alimentare.

A sottolineare l’importanza di una dieta vegetariana ci si è messo anche Sir David Attenbourough. Il naturalista e produttore cinematografico britannico ha lanciato questa settimana il suo nuovo film ‘A life on our planet’ dicendo che per salvare la biodiversità sulla Terra occorre ridurre, fino quasi a eliminarlo, il consumo di carne. A fine novembre anche la BBC aveva prodotto un documentario sul tema, intitolato ‘Meat: A Threat to Our Planet?’ (che si può vedere qui).

Infine, poche settimane fa un gruppo di ricercatori statunitensi ha pubblicato su Nature Sustainability uno studio che stima che l’adozione di una dieta che riduce del 70% il consumo di carne porterebbe a un risparmio di 332 miliardi di tonnellate di CO2, l’equivalente di quanto è stato globalmente emesso negli ultimi 9 anni.

Diminuire il consumo di carne è quindi una necessità se si vuole raggiungere, come ha deciso l’Unione Europea, il livello zero di emissioni nette entro il 2050 per rispettare gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi. Ma una simile transizione è fattibile? Come dovrebbero cambiare le nostre diete per essere più sostenibili per l’ambiente? Quali sono le politiche più efficaci per avviare questo cambiamento?

La scorsa settimana Carbon Brief si è dedicato all’argomento cibo e clima con una serie di articoli di approfondimento, concludendo, prima di tutto, che il tema è molto sfaccettato ed è necessario raccontarne la complessità per poter coinvolgere le persone.

I numeri. Il punto di riferimento per quantificare l’impatto della produzione e distribuzione del cibo sul clima del nostro pianeta è questo studio pubblicato sulla rivista scientifica Science nel 2018, che ha stimato la quantità di anidride carbonica equivalente (che comprende oltre alla CO2 anche gli altri gas serra) emessa per produrre diversi tipi di cibo. Per produrre un chilo di manzo vengono emessi 59,6 kg di CO2eq, quasi il doppio di quanto emesso per 1 kg di agnello (24,5 kg) e il triplo di quanto emesso per produrre un 1 kg di formaggio (21,2 kg), 8 volte le emissioni dovute alla produzione di 1 kg di maiale e 10 volte quelle di 1 kg di pollo. I cibi a base vegetale in confronto inquinano molto meno: 1 kg di tofu comporta l’emissione di 3 kg di CO2eq, 1 kg di pomodori 1,4 kg di emissioni di gas a effetto serra e 1 kg di noci solo 0,2 kg di CO2eq. Queste stime sommano le emissioni causate da tutti i passi della produzione: il cambiamento di uso del suolo, la coltivazione dei mangimi, l’allevamento o la coltivazione delle specie vegetali, l’utilizzo dei fertilizzanti, la trasformazione, l’imballaggio, la conservazione e il trasporto. L’analisi pubblicata su Science mostra però che per la produzione di carne il consumo di suolo e l’allevamento sono due fasi di gran lunga più inquinanti delle altre. Consideriamo il manzo: il 25% delle emissioni è dovuto al consumo di suolo, quasi il 70% all’allevamento, dai mangimi derivano il 5% del totale di gas serra emessi e il trasporto comporta un irrisorio 0,5% (mangiare carne a chilometro zero non risolve radicalmente il problema).

Il maggior impatto di manzo e agnello è dovuto al fatto che sono ruminanti e dunque emettono grandi quantità di metano durante il processo di digestione. Il metano è un gas a effetto serra che rimane nell’atmosfera per circa nove anni, un periodo molto più breve dell’anidride carbonica. Tuttavia, il suo potenziale di riscaldamento globale è 86 volte superiore al biossido di carbonio se calcolato in media su 20 anni e 28 volte superiore su 100 anni. Grandi quantità di metano sono anche emesse dallo sterco di polli e maiali.

Ma il metano non è l’unico problema, come dicevamo poco fa. Prima ancora che gli animali vengano allevati, enormi estensioni di foresta sono abbattute per fare posto ai pascoli e coltivare i cereali necessari ad alimentare il bestiame, principalmente soia e mais (l’allevamento di bovini e la coltivazione della soia sono considerati la principale causa di deforestazione in Amazzonia) ma non solo. La farina di pesce, una pasta ricca di proteine ottenuta da sardine e acciughe, costituisce una parte importante dell’alimentazione di suini e polli e per produrla sottraiamo le prede naturali a una serie di altre specie, tra cui i pinguini di Sud Africa e Namibia che sono ormai a rischio di estinzione.

L’obiezione potrebbe essere quella che senza carne non siamo in grado di ricevere una quantità di proteine sufficiente. I dati dello studio di Science smentiscono anche questa credenza. Per produrre 100 grammi di proteine partendo dal manzo emettiamo quasi 50 kg di CO2eq, quasi 20 kg da agnello e montone, 10 kg dal formaggio, 7 kg dal maiale, 6 kg dal pollame e 4,2 kg con le uova. Per ottenere 100 gr di proteine dal tofu vengono emessi circa 2 kg di CO2eq, dalle noci solo 0,26 kg. La transizione a una dieta basata principalmente su alimenti vegetali piuttosto che animali porterebbe dunque a un grande beneficio in termini ambientali. Ma quanto grande?

Quanto guadagneremmo rinunciando alla carne? Una risposta a questa domanda è contenuta nel rapporto ‘IPCC, 2019: Climate Change and Land’. L’IPCC stima che l’adozione globale di una dieta vegetariana farebbe risparmiare annualmente da qui al 2050 circa 6 miliardi di tonnellate di CO2eq. Sostituire il 75% di carne e latticini con cereali e legumi, ci permetterebbe di emettere 5 miliardi di tonnellate in meno di CO2eq ogni anno. Anche cambiamenti meno drastici, come quello di sostituire il 75% di carne rossa con altre carni – la dieta dei cosiddetti climate carnivors, porterebbe a un guadagno annuo di 3,4 miliardi di tonnellate. Se, infine, tutto il mondo seguisse una dieta mediterranea emetteremmo ogni anno 3 miliardi di tonnellate in meno di CO2eq fino al 2050.

Come già anticipato, questa stima è stata aggiornata recentemente da un gruppo di ricercatori statunitensi. La loro conclusione è che l’adozione di una dieta che riduce del 70% il consumo di carne comporterebbe un risparmio totale entro il 2050 di 332 miliardi di tonnellate di CO2. Una stima al rialzo dunque, se si considera che per ottenere il guadagno in termini di CO2eq bisognerebbe considerare la mancata emissione anche degli altri gas serra che gli autori non includono.

Cosa significherebbe un tale cambio di alimentazione a livello globale per gli obiettivi dell’accordo di Parigi? Per rispondere a questa domanda possiamo ricorrere al concetto di carbon budget, ovvero la quantità di CO2 che possiamo ancora emettere se vogliamo limitare il riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali ben al di sotto dei 2°C o meglio entro 1,5°C. Questa quantità non è affatto facile da stimare e ha i suoi limiti (per esempio non considera le emissioni negative, quelle associate alla rimozione di CO2 dall’atmosfera) ma l’IPCC l’ha fissata a 420 miliardi di tonnellate di CO2 nel suo rapporto ‘Special report: global warming of 1,5°C’ pubblicato alla fine del 2018. Nel frattempo abbiamo emesso circa 100 miliardi di tonnellate e il nostro budget residuo è di 335 miliardi di tonnellate. Dunque una dieta con il 70% di carne in meno raddoppierebbe il budget rimanente.

Una stima alternativa del peso dell’industria del cibo sul nostro budget di CO2 si trova in questo studio del 2018 pubblicato sulla rivista Climate Policy, che conclude che nel 2030 solo l’allevamento emetterà tra il 27% e il 49% dell’ammontare di CO2eq concessa in quell’anno se vogliamo restare entro il limite degli 1,5°C. L’allevamento rappresenta circa il 58% del totale delle emissioni del settore alimentare, quindi circa 8 miliardi di tonnellate all’anno. Senza alcun intervento, questa quantità è destinata ad aumentare, per effetto dell’aumento della popolazione umana e della crescente domanda di carne e latticini, fino a raggiungere 9,3 miliardi di tonnellate fra 10 anni, una quantità pari al 27-49% del budget di CO2eq stimato per quell’anno (19-34 miliardi di CO2eq secondo i risultati ottenuti nel 2017 dal progetto ADVANCE).

Quanta carne mangiamo? Ma quanto siamo lontani da un’alimentazione vegana? O almeno vegetariana? Nel 2019 il progetto EAT-Lancet Commission ha analizzato le abitudini alimentari delle diverse regioni del pianeta e formulato la cosiddetta planetary health diet, una dieta universale che sia salutare e sostenibile per tutti. Questa dieta è basata principalmente su cereali integrali, frutta, verdura, noci e legumi e prevede una porzione di latticini al giorno e una porzione di carne a settimana. Oggi, soprattutto in Nord America, Europa, Asia Centrale e Sud America, siamo molto lontani da questo bilanciamento.

In Nord America il consumo di carne rossa è circa 6 volte quello consigliato, in Europa 4 volte. Al contrario la quantità di verdura e frutta che mangiamo è di molto inferiore a quella prevista. Il Nord Africa è l’unica regione in cui il consumo di carne rossa è equilibrato, ma il consumo di verdura e legumi è insufficiente. Questa fotografia ci fa capire quanto siamo lontani dall’obiettivo di un’alimentazione sostenibile, anche se qualche piccolo passo avanti è stato fatto negli ultimi dieci anni, soprattutto nei Paesi europei, ma anche in USA e in Australia seppure più debolmente. La tendenza opposta si osserva però nei Paesi in via di sviluppo di Asia e Sud America e purtroppo il bilancio è a nostro sfavore: la diminuzione nel consumo di carne pro capite nel “nord” del mondo non compensa l’aumento del “sud” del mondo.

Come incentivare un cambio di dieta. I mezzi per modificare i nostri stili di alimentazione sono diversi. Devono agire tenendo conto che le nostre abitudini alimentari sono influenzate da tanti fattori diversi: la nostra cultura e le nostre tradizioni, ma anche la disponibilità di certi cibi e il loro costo, il marketing e la pubblicità a cui siamo esposti, le politiche pubbliche, gli accordi internazionali di commercio.

Uno degli strumenti più utilizzato finora sono le linee guida per una sana alimentazione formulate a livello nazionale (qui quelle italiane). Tuttavia diversi studi hanno raggiunto la stessa conclusione: le linee guida alimentari sono scarsamente seguite dalla popolazione e anche se fossero seguite porterebbero a una riduzione delle emissioni largamente insufficiente (al massimo 500 milioni di tonnellate di CO2eq).

Interventi più incisivi hanno trovato resistenza nella classe politica, poco incline a intervenire in una sfera considerata privata della vita delle persone e pressata dagli enormi interessi economici dell’industria alimentare. Tra questi interventi c’è quello sulla tassazione dei prodotti alimentari ad alto livello di emissioni. In alcuni Paesi i Parlamenti hanno preso in considerazione una tassa sulla carne ma non sono mai arrivati ad approvarla, in parte perché si è posto un problema di accessibilità per le famiglie con redditi più bassi.

Una misura alternativa è quella che interviene sui pasti serviti dalle istituzioni pubbliche, in particolare nelle scuole. Molti Paesi hanno deciso di diminuire sensibilmente la quantità di carne servita agli studenti, tra questi gli Stati Uniti (grazie al lavoro di Michelle Obama), il Portogallola Germania e la Francia, come accennavamo all’inizio.

Un’altra pratica che è stata ben accolta dal pubblico è quella del carbon labelling, ovvero etichettare ciascun prodotto alimentare con la quantità di emissioni di gas serra associata. Tuttavia la stima di questa quantità può essere molto difficile e di sicuro è troppo costosa per le aziende.

Ma i Paesi in via di sviluppo continuano a consumare carne e ne consumeranno sempre di più. Con l’aumento della popolazione nei Paesi a basso e medio reddito e l’ingresso di un sempre maggior numero di cittadini nella classe media, il consumo di carne sta aumentando e a questo ritmo rischia di sovrastare la timida diminuzione in corso nei Paesi ricchi. La Cina è oggi il maggior produttore di carne del mondo, con 88 milioni di tonnellate all’anno, quasi il doppio degli Stati Uniti, e l’Asia nel complesso è responsabile del 45% della produzione globale (15 volte la quantità del 1960). La maggior parte di questa carne viene consumata localmente e non è destinata all’esportazione. Il consumo di carne è infatti visto come un traguardo sociale e mentre gli alimenti vegetali in Europa e in parte negli Stati Uniti stanno diventando di moda, è improbabile, per ora, che lo stesso accada in Cina o nel resto dell’Asia. Anche il Sud America ha aumentato enormemente il consumo di carne negli ultimi decenni, diventando nel 2019 la terza regione al mondo per consumo di carne rossa dopo Stati Uniti ed Europa.

E se rendessimo l’allevamento più sostenibile? L’ultima obiezione che potremmo fare a chi ci dice di mangiare meno carne è se possiamo sviluppare metodi meno inquinanti per allevare il bestiame. La risposta è sostanzialmente negativa. Sempre lo studio pubblicato nel 2018 su Science mostra che anche per gli allevamenti meno inquinanti, in cui ad esempio si impiegano mangimi che riducono la quantità di metano emessa durante la digestione o si riutilizza il metano prodotto dallo sterco, emettono comunque quantità di gas serra superiori rispetto alla produzione di cibi vegetali. Per alcuni alimenti vegetali infatti la produzione può addirittura assorbire anidride carbonica dall’atmosfera, come nel caso delle noci. Soprattutto la conversione degli allevamenti intensivi in allevamenti sostenibili non produrrebbe la quantità di carne che consumiamo oggi.

 

FonteScienza in Rete