WELFARE: Una definizione dinamica e tante sfumature di significato. Facciamo chiarezza tra storia, presente e scenari futuri.

Articolo del 01 Ottobre 2020

Welfare statewelfare aziendale, welfare culturale, welfare integrativo: un’unica parola, di origine inglese, che ricorre sempre più spesso anche in Italia con sfumature di significato tanto varie da renderne difficile una definizione univoca. Mai come in questo caso viene dunque in aiuto la storia per fare un po’ di chiarezza. La definizione di ciò che si intende per ‘welfare state’ o ‘Stato sociale’ o ‘Stato del benessere’ è in effetti assai complessa e nel tempo ha assunto diverse connotazioni.

Pur avendo origini più antiche, il termine – che, letteralmente, significa “benessere”, “salute”, “stare bene” – nasce in Gran Bretagna per descrivere il forte impegno dei laburisti nel ricostruire lo Stato britannico al termine del secondo conflitto mondiale, con particolare attenzione nei confronti delle fasce di popolazione più povere o, comunque, costrette in condizioni di forte difficoltà. In seguito sopravvissuta all’esperienza del governo laburista, l’espressione è quindi andata a indicare, in senso lato, il cosiddetto Stato Sociale o Assistenziale, vale a dire quel sistema di norme o altri provvedimenti attraverso cui uno Stato cerca di appianare le disuguaglianze sociali ed economiche generate dal libero mercato, con misure specifiche indirizzate nei confronti dei meno abbienti.

In linea generale, quindi, il welfare può essere inteso come il complesso di politiche sociali, in prima istanza prevalentemente pubbliche, messe in atto per garantire a tutti i cittadini assistenza e benessere, se necessario anche ricorrendo all’utilizzo di servizi ritenuti indispensabili a migliorarne le condizioni di vita. Ecco quindi che parlare oggi di welfare significa parlare di previdenzalavorosanità, ammortizzatori sociali e, ancora, di tutti quei servizi che quotidianamente sostengono il benessere quotidiano della persona in ogni fase della sua vita, fornendo protezione in caso di “rischio” e assistenza in caso di “bisogno”. La definizione resta in ogni caso dinamica, proprio perché le diverse forme di intervento mutano inevitabilmente nel tempo.

Se il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta può essere considerato l’età dell’oro del welfare state, è però altrettanto innegabile che negli ultimi anni il sistema abbia attraversato e stia attraversando tuttora una fase di crisi: l’aumentata complessità dei bisogni, l’invecchiamento di una popolazione sempre più anziana, i mutati rapporti tra le generazioni e, ancora, crisi economica, crescita del debito e necessità di porre limiti di spesa alla finanza pubblica hanno reso necessaria una “rivoluzione interna” a questo modello, rendendo sempre più evidente anche il ruolo cruciale di enti e/o di soggetti privati (tra cui, ma non solo, imprese e aziende) nella tutela delle fasce più deboli della popolazione e, più in generale, nel garantire il benessere di tutti cittadini.

Ecco dunque che, a seguito delle recenti novità normative che hanno innalzato il livello di attenzione sul tema, nell’opinione comune l’espressione “welfare aziendale” è spesso ormai associata a qualcosa di recente e innovativo. In realtà, anche in Italia il welfare aziendale ha origine agli inizi dell’Ottocento, a partire dalle iniziative di imprenditori illuminati in risposta ai bisogni sollecitati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione. Senza andare troppo indietro nel tempo (già nel Medioevo le corporazioni esercitavano funzioni di assistenza e previdenza verso i propri soci), forme di welfare aziendale compiuto sono dunque riscontrabili già nel XX secolo: una su tutte, il “modello” Olivetti, si distinse sin dalla fondazione dell’azienda per le numerose assunte a favore dei propri dipendenti. Ed è quindi in questo periodo che, anche nel nostro Paese, va declinandosi il concetto di welfare“sostitutivo” rispetto a quello pubblico, che d’altra parte non garantiva i livello di copertura attuali.

Con l’aumentare dei servizi offerti dal welfare pubblico e, di conseguenza, dei contributi richiesti alle imprese per finanziarli, il welfare aziendale si è però trasformato diventando un sistema aggiuntivo, troppo spesso relegato a una funzione marginale e intesa unicamente a sfruttare la leva retributiva per fare breccia sui dipendenti di grandi aziende e multinazionali. Le crisi degli ultimi anni hanno però in seguito mostrato una progressiva riduzione dello spazio di intervento dello Stato Sociale, sia in termini di risorse che di natura organizzativa, ed è quindi lungo questa via che si è giunti al welfare complementare come lo conosciamo oggi: un welfare aziendale che non deve e non può sostituirsi a quello pubblico, ma che deve servire come strumento di politica economica e sociale, riuscendo a rispondere alle accresciute esigenze dei lavoratori dipendenti, soprattutto a medio e basso reddito.

Sempre in tale contesto, si sta dunque indubbiamente diffondendo una nuova sensibilità anche da parte delle imprese, che hanno compreso come fattore chiave del loro successo sia anche la messa in atto di una gestione delle risorse umane oculata e flessibile, nonché di strategie di welfare aziendale che, in un momento di difficoltà socio-economiche, possano venire incontro alle esigenze dei lavoratori, migliorando il clima interno all’azienda stessa e, di conseguenza, la produttività sul medio-lungo termine.

Fonte: Pensioni&Lavoro