2021-2030: ecco il Decennio del mare

Articolo del 05 Marzo 2021

Solo il 20 per cento dei fondali marini è stato mappato con accuratezza: è lo specchio di quanto poco sappiamo delle dinamiche fisiche e biologiche degli oceani, essenziali per la vita sul pianeta, ma sottoposti a sfide sempre più drammatiche. Il Decennio del mare istituito dall‘UNESCO deve essere l’occasione per colmare gravi lacune nelle nostre conoscenze di questo ambiente

L’oceano è vasto. A noi che siamo organismi decisamente continentali regala due elementi familiari: un orizzonte ottico diritto e un’altitudine zero oltre cui si eleva ogni altro rilievo. Tutto ciò però è nulla rispetto alla reale importanza degli oceani per il sistema Terra. Su qualsiasi sussidiario impariamo che gli oceani coprono circa due terzi della superficie terrestre, che pullulano di vita, e sono importanti per il clima. Comprendiamo che è qualcosa di importante, ma ne abbiamo un‘idea abbastanza vaga. Di fatto conosciamo meglio la superficie della Luna e di Marte dei fondali marini del pianeta Terra.

Ecco perché l’UNESCO ha istituito il Decennio del mare 2021-2030, che potrebbe essere un punto di svolta, l’occasione per avvicinare le società umane a quell’enorme volume liquido in gran parte ancora inesplorato.

Con il Decennio del mare – che era stato proposto già nel 2016 dalla Commissione oceanografica intergovernativa delle Nazioni Unite – il mondo scientifico e della conservazione intende migliorare la conoscenza degli oceani e formare nuove generazioni che conoscano veramente gli oceani. Questo è più di un dettaglio. È anzi una condizione necessaria per raggiungere l’obiettivo numero 14 (su 17) della cosiddetta Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: conservare e usare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine. È un obiettivo certamente ambizioso, ma dagli oceani dipendono troppi aspetti del mondo naturale e di quello antropico per poterci permettere di sottovalutarne l’importanza.

Del resto, la vita si è formata negli oceani e per centinaia di milioni di anni lì è rimasta. Oggi la maggior parte della biomassa terrestre è sulla terraferma, e parlando di noi umani, è bene ricordare che quasi 2,4 miliardi di persone (circa il 40 per cento della popolazione mondiale) vivono entro 100 chilometri dalla costa, mentre 600 milioni vivono in zone costiere a meno di 10 metri sul livello del mare.

Dice Paola Del Negro, direttore generale dell’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (OGS): “Il Decennio è un’opportunità per riprendere a esplorare gli ambienti profondi, dove ci sono adattamenti alla vita quasi sconosciuti. Finora la ricerca è stata soprattutto orientata allo sfruttamento economico delle risorse, e non abbastanza alla crescita delle conoscenze sul mare. “È un’opportunità straordinaria per cominciare ad avere osservazioni continue, di un monitoraggio della componente biologica del mare“. Secondo Del Negro disponiamo sempre di più di osservazioni continue delle caratteristiche fisiche, ma siamo indietro con le osservazioni sulla biosfera marina. Tuttavia oggi abbiamo tecniche e metodi che potrebbero rivoluzionare le nostre conoscenze. Anche se, aggiunge Del Negro, “la maggior parte degli strumenti che abbiamo finora usato non è stata concepita per il mare, ma è derivata da altre tecnologie“.

È come se lo studio scientifico degli oceani sia sempre stato qualcosa di affascinante, ma non necessario (se non per scopi industriali, commerciali e strategici). E questo malgrado gli oceani producano metà dell’ossigeno che respiriamo, regolino il clima del pianeta, siano il mezzo che sostiene il 70 per cento dei trasporti di beni da una costa all’altra, siano un pozzo ricco di risorse per il nostro sostentamento, per la medicina, e anche per il nostro benessere psicologico.

Quanto poco sappiamo del mondo marino lo sottolinea anche Larry Mayer, dell’Università del New Hampshire e presidente del Comitato nazionale degli Stati Uniti per il Decennio del mare: “Per quanto ci siano molte sfide dovute alla nostra limitata conoscenza degli oceani, una delle più grandi per me è il fatto che meno del 20 per cento del fondale marino è mappato a una risoluzione utile per comprendere la maggior parte dei processi oceanici”.

Una mappa non è solo qualcosa di didattico o estetico: la mancanza di questa conoscenza – spiega Mayer – ha un impatto enorme sulla comprensione della circolazione oceanica, della turbolenza oceanica (fondamentale anche per i modelli oceanici e climatici), dell’impatto delle mareggiate e degli tsunami, della distribuzione dell’habitat bentonico (per esempio coralli di acque profonde), della distribuzione di potenziali risorse (ghiaia, sabbia, minerali), dei rischi marini (frane sottomarine, infiltrazioni di gas naturale), della comprensione dei processi tettonici e geologici delle placche (per esempio il trasporto di sedimenti, compresa la distribuzione degli inquinanti).

Ma, soprattutto, pensando alle tante scoperte fatte a fronte della piccola parte di fondali mappata, Mayer si chiede: “Chissà cosa troveremo nell’altro 80 per cento“. E aggiunge: “Come possiamo gestire ma anche proteggere ciò che ancora non conosciamo e comprendiamo?”

Questo impensierisce chiunque si occupi di oceani. Il primo campanello d’allarme di un uso insostenibile degli oceani sono state le popolazioni ittiche. Secondo le Nazioni Unite l’80 per cento degli stock ittici mondiali sono completamente sfruttati o sovrasfruttati e si stima che il 27 per cento del pesce sbarcato venga perso o sprecato tra lo sbarco e il consumo. Ma un nuovo campanello potrebbe suonare per le risorse cosiddette abiotiche, come i minerali sottomarini.

“Questo è uno dei nodi più difficili“, spiega Roberto Danovaro, biologo marino e presidente della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli. “Sulla terraferma molte risorse minerarie, e gli idrocarburi, cominciano a scarseggiare o, semplicemente, il loro sfruttamento non è più accettato socialmente come poteva esserlo prima. Sui fondali ci sono minerali rari, o rarissimi, come l’indio, il nickel, il cobalto, prodotti come effetto metabolico o microbico e che richiedono decine o forse centinaia di migliaia di anni per essere ricostituiti e che cominciano ora a essere esplorati e sfruttati. E questo viene fatto distruggendo il fondale. C’è una nuova corsa all’oro per questi noduli metallici che valgono effettivamente quanto l’oro.“ La resa del cosiddetto deep sea mining è però poco efficiente: “È come abbattere una chiesa antica per portare via l’altare“, dice Danovaro.

La lontananza dalle coste e la scarsa conoscenza che i cittadini hanno degli oceani favoriscono un uso sregolato delle risorse. Di fatto, dice Danovaro, gran parte degli oceani è ancora una terra di nessuno. “Per certi versi è più facile concentrarsi sulla plastica negli oceani, che è tangibile, visibile, e ci rende tutti corresponsabili“, dice il biologo, però ci sono molte altre problematiche meno evidenti, ma non meno urgenti da risolvere.

Per Danovaro dunque, il Decennio del mare potrebbe essere l’occasione per “andare verso un accordo transnazionale per lo sfruttamento e la tutela delle profondità oceaniche“. Per ottenere insomma una Blue Economy che non sia distruttiva (un rischio più che concreto), ma sostenibile.

Coordinato dall’UNESCO, il Decennio ha comunque già un suo piano d’azione, il cui testo inizia così: “La salute e il benessere umano, che comprendono uno sviluppo economico equo e sostenibile, dipendono dalla salute e dalla sicurezza dei mari del mondo. Il piano di azione prevede eventi di consultazione tra il mondo della ricerca, i giovani, fondazioni, privati, e altre forze per passare dall’oceano che abbiamo, all’oceano che vogliamo“, spiega Francesca Santoro, specialista di programma della Commissione oceanografica dell’UNESCO.

Il piano prevede di affrontare sette sfide principali: ottenere un oceano pulito, un oceano sano e resiliente, un oceano produttivo, un oceano predicibile, un oceano sicuro, un oceano accessibile, e un oceano che ispiri e coinvolga. E al centro di ognuna di queste missioni c’è la scienza. Forse è questo il fulcro del Decennio del mare, ma sarà una scienza di successo se sarà partecipata, all’interno del mondo scientifico, ma anche tra questo e i cittadini.

La condivisione, nel mondo scientifico, non è sempre stata immediata e spontanea. C’è stata anzi troppa lentezza (e un pizzico di gelosia, forse) nella condivisione di dati e informazioni. “Fino a oggi c’è stata troppo poca comunicazione di dati e risultati“, ammette Paola Del Negro. In realtà di dati oggi ce ne sono molti. Disponiamo di un mare di dati, si potrebbe dire. Ma sono spesso poco accessibili. “Il grande balzo in avanti sarà nella condivisione dei big data. E questo richiede un forte cambiamento di mentalità dei singoli ricercatori e ricercatrici e dei gruppi di ricerca.“

Oggi abbondano le indicazioni che sia il clima sia la salute degli oceani si stanno deteriorando a un ritmo molto rapido. Come avviene in molti sistemi, possono esserci punti di svolta (noti come tipping points) che possono creare effetti rapidi e catastrofici. Per il cambiamento climatico come per la salute degli oceani abbiamo ancora la possibilità di cambiare i comportamenti e offrire approcci alla mitigazione, ma questi devono essere basati su una comprensione molto più completa del sistema oceanico.

Tutto ciò richiederà del tempo, e per questo dobbiamo iniziare ora, e andare avanti almeno per un decennio, dicono gli scienziati. Uno degli obiettivi più ambiziosi del Decennio è dunque quello che Santoro definisce “la creazione di una ocean literacy“: ottenere una generazione che conosca gli oceani, che sappia come funziona la scienza.

 

Fonte: Le Scienze

LEGGI TUTTE LE ALTRE NEWS