Allergici o intolleranti?

Articolo del 28 Dicembre 2021

Con il termine “intolleranza al latte” molti allergologi hanno inteso – a torto – definire l’incapacità di scindere il lattosio nell’intestino, a causa di carenza o assenza dell’enzima lattasi, a quello scopo deputato. Chi non è provvisto di quell’enzima tutte le volte che berrà una tazza di latte avrà l’intestino in subbuglio per l’accumulo di lattosio indigerito. Problema che potrà evitare allontanando gli alimenti che lo contengono. Tali individui vengono chiamati “intolleranti al lattosio” ma la parola in questo caso segnala semplicemente la carenza o inefficienza di un enzima. Non vi è alcun problema immunitario.

Anche altri deficit enzimatici (di solito di origine genetica) possono provocare problemi, come la fruttosemia (incapacità di smontare il fruttosio) o il favismo (deficit di glucosio-6P-deidrogenasi). Si tratta comunque sempre di enzimi assenti o biologicamente inefficienti. Quando parliamo di allergie, invece, cambia lo scenario.

Le allergie si dividono in due grande categorie: immediate e ritardate. Quelle immediate dipendono dal fatto che una persona, già sensibilizzata verso un cibo o verso un particolare polline, produce degli anticorpi specifici relativi a quella sostanza, detti immunoglobuline di tipo E (IgE). L’incontro di quella sostanza (antigene) con i suoi anticorpi IgE specifici fa liberare grandi quantità di istamina a particolari cellule dette mastociti. L’istamina (il cui senso biologico è quello di cercare di espellere gli allergeni pericolosi) è quindi responsabile delle risposte allergiche immediate o “IgE mediate”: asma, edema, dermatite, gonfiore, starnuto, prurito. Stiamo parlando della classica fragola che appena ingerita ci fa riempire il viso di puntini rossi, ma anche della mandorla che ci fa gonfiare i tessuti della gola fino a soffocarci. Con le allergie immediate non si può scherzare.

Le “allergie ritardate” invece originano da reazioni cellulari non necessariamente mediate dalla sequenza IgE/istamina e, come dice il nome, possono non avere effetto immediato sull’organismo ma basarsi su modalità più complesse, di accumulo e tolleranza.

Questo spiega perché i test classici per la ricerca delle allergie alimentari (Prick, RAST, Prist) non rilevino questo tipo di risposta allergica. In questo caso le reazioni dell’organismo seguono un meccanismo diverso, legato all’accumulo nel tempo della stessa sostanza (o classe di sostanze), ripetuto quotidianamente o quasi. Tali reazioni “cellulo mediate” o mediate da anticorpi diversi (spesso le IgG), sono ormai internazionalmente definite “allergie alimentari ritardate” o, ancora più genericamente, “sensitivities” o fenomeni di infiammazione da cibo, e sono un po’ più subdole. La risposta allergica infatti (che è poi sempre simile a quella dell’allergia immediata) non si verifica in corrispondenza dell’assunzione di un certo alimento, ma quando quella sostanza, assunta per più giorni di fila, provoca uno stato infiammatorio che supera un certo livello soglia.

A complicare la questione va detto che la soglia sintomatica può variare in relazione a particolari stati metabolici dell’individuo (stress, infiammazione preesistente, perdita di ore di sonno). Se dunque ci si trova di fronte ad una sintomatologia allergica conclamata che tuttavia non evidenzia ai test classici IgE alcuna sostanza responsabile, occorre porre il sospetto di allergia ritardata, proprio quella che tutti chiamano informalmente “intolleranza alimentare”.

Per identificare un’allergia ritardata, che per la cronaca colpisce qualcosa come il 30-35% della popolazione (contro l’1-2% delle allergie IgE mediate), esistono diversi test che si basano su principi diversi, e che in Italia sono considerati ancora test “non convenzionali” dal mondo scientifico. Non forniscono infatti diagnosi, ma orientano la possibilità di interagire con il paziente, spesso con semplici diete di rotazione (alcuni giorni rieducando alla tolleranza verso il cibo incriminato con piccole quantità, altri giorni eliminandolo del tutto) al fine di ricreare la tolleranza perduta, come in un secondo svezzamento. Numerosi lavori scientifici, ormai, documentano la correttezza e la potenzialità terapeutica di questa modalità operativa, già a partire dal 2004, anno in cui Hugh Sampson, forse la massima autorità mondiale in campo immunologico, sul Journal of Allergy and Clinical Immunology definisce le “allergie alimentari ritardate”.

 

Fonte: L’altra medicina

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