Come ecstasy e psilocibina stanno cambiando la psichiatria

Articolo del 01 Marzo 2021

Sotto la spinta di un numero sempre crescente di studi che dimostrano l’efficacia di potenti sostanze psichedeliche nella terapia della depressione e del disturbo post-traumatico da stress, gli enti regolatori di vari paesi dovranno presto affrontare il nodo delle procedure da adottare per somministrarle in modo controllato e sicuro.

In un giorno di sole del 2015 Kirk Rutter si è recato in metropolitana all’Hammersmith Hospital nella speranza di mettere fine una volta per tutte alla sua depressione. Rutter aveva convissuto con la malattia per anni, a fasi alterne, ma il peso era diventato più difficile da sopportare dopo la morte di sua madre nel 2011, a cui l’anno successivo erano seguiti la fine di una relazione e un incidente d’auto. Era come se il suo cervello fosse bloccato in quello che Rutter descrive come “un circuito automatico” in cui ripeteva come un mantra sempre gli stessi pensieri negativi: “’Tutto quello che faccio fa schifo’. Ci credevo veramente”, ricorda.

Quella ad Hammersmith era una visita preliminare. Il giorno dopo sarebbe tornato per partecipare a uno studio in cui avrebbe assunto un potente allucinogeno sotto la guida di Robin Carhart-Harris, psicologo e neuroscienziato dell’Imperial College di Londra. Anni di terapia della parola e una varietà di ansiolitici non erano riusciti a migliorare la sua situazione, e ciò lo rendeva idoneo a partecipare alla sperimentazione.

“Tutti sono stati estremamente cordiali, davvero gentili, e Robin in modo particolare”, ricorda Rutter. Carhart-Harris lo ha accompagnato in una stanza che conteneva un dispositivo per la risonanza magnetica (MRI), per stabilire la linea di base della sua attività cerebrale. Poi gli ha mostrato il posto dove sarebbe rimasto mentre era sotto gli effetti dell’allucinogeno, gli ha chiesto di distendersi e gli ha fatto ascoltare un po’ della musica che avrebbe accompagnato la sessione.

Lo psicologo ha spiegato a Rutter che avrebbe avuto a disposizione un farmaco con cui, se necessario, avrebbe potuto neutralizzare l’allucinogeno e in seguito lo ha guidato nella pratica di una tecnica di centratura che l’avrebbe aiutato a calmarsi se si fosse sentito sopraffatto dalla situazione. Senza preavviso, l’uomo è scoppiato in lacrime. “Un po’ sapevo che avevo tante cose su cui lavorare, all’epoca mi portavo dietro un bel peso”, racconta.

Quando Rutter è tornato il giorno dopo, uno dei ricercatori gli ha dato due pastiglie che contenevano una forma sintetica di psilocibina, la sostanza psicoattiva che si trova nei funghi allucinogeni. Rutter si è sdraiato sul lettino, con un paio di auricolari e una mascherina da notte sugli occhi. Ben presto hanno iniziato ad apparirgli immagini di un testo in sanscrito, poi ha visto strutture d’oro incastonate di pietre preziose. A quel punto la sua mente ha iniziato a elaborare il dolore.

Lo studio dell’Imperial College faceva parte di una serie di sperimentazioni cliniche lanciate negli ultimi anni sull’uso di sostanze psichedeliche illegali, come la psilocibina, la dietilammide dell’acido lisergico (LSD) e la MDMA (3,4-metilenediossimetanfetammina, nota anche come molly o ecstasy), nella cura delle malattie mentali, in genere sotto lo stretto controllo di uno psichiatra o di uno psicoterapeuta. L’idea circola da decenni (o anche da secoli in alcune culture), ma ha guadagnato terreno in modo molto rapido negli ultimi anni, da quando investitori e scienziati hanno cominciato di nuovo a caldeggiare questo metodo.

Un tempo liquidati come amori fugaci e pericolosi della controcultura, gli psichedelici sono sempre più accettati dall’opinione comune. Diversi stati federali e città degli Stati Uniti hanno imboccato la via che porta alla legalizzazione e alla decriminalizzazione della psilocibina per uso terapeutico o ricreativo. E istituzioni rispettate come l’Imperial College, la Johns Hopkins University di Baltimora, l’Università della California a Berkeley e la Icahn School of Medicine at Mount Sinai a New York hanno aperto centri dedicati allo studio di queste sostanze.

Vari studi di piccola portata suggeriscono che è possibile somministrarle in modo sicuro e che possono portare benefici a persone affette da depressione incurabile e altri problemi psicologici, tra cui il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Una sperimentazione clinica sulla MDMA si è conclusa di recente e la pubblicazione dei risultati è attesa a breve. A quel punto gli enti regolatori valuteranno se approvarne l’uso su prescrizione medica.

La psicoterapia assistita da sostanze psichedeliche potrebbe offrire opzioni che al momento mancano per la cura di disturbi mentali debilitanti, tra cui PTSD, disturbo depressivo, disturbi dovuti all’uso di alcool, anoressia nervosa e altre condizioni che negli Stati Uniti uccidono ogni anno migliaia di persone e costano miliardi di dollari in produttività perduta in tutto il mondo.

Però questi metodi sono una nuova frontiera per gli enti regolatori. “È territorio inesplorato per quanto riguarda gli interventi formalmente valutati nella cura dei disturbi mentali”, afferma Walter Dunn, psichiatra all’Università della California a Los Angeles e occasionalmente consulente della US Food and Drug Administration (FDA) sugli psicofarmaci. La maggior parte dei farmaci usati per la cura della depressione e dell’ansia si trovano in qualsiasi farmacia. I nuovi metodi, invece, usano una sostanza potente in un contesto terapeutico, sotto lo stretto controllo di uno psicoterapeuta esperto, perciò gli enti regolatori e i responsabili di erogazione delle cure dovranno affrontare il problema di come implementare il sistema in modo sicuro.

“Le sperimentazioni cliniche sulla depressione di cui si hanno i risultati sono state condotte in condizioni estremamente circoscritte e controllate”, spiega Bertha Madras, psicobiologa alla Harvard Medical School che lavora al McLean Hospital di Belmont, nel Massachusetts. Di conseguenza, interpretare quei risultati è difficile. Durante il trial, una terapia può mostrare benefici perché l’esperimento è coordinato con grande attenzione e tutti coloro che vi lavorano hanno una formazione completa. I controlli con placebo pongono un’altra difficoltà, dati gli effetti così potenti di queste sostanze.

E poi ci sono i rischi. In casi estremamente rari, sostanze psichedeliche come la psilocibina e l’LSD possono causare una reazione psicotica di lunga durata, il che si verifica con particolare frequenza nelle persone con precedenti familiari di psicosi. Di conseguenza, le persone affette, per esempio, da schizofrenia sono escluse dai trial clinici che prevedono l’uso di psichedelici. Inoltre l’MDMA è un derivato delle anfetamine, perciò può comportare rischi in termini di abuso di sostanze.

Tuttavia, molti ricercatori sono entusiasti. Diverse sperimentazioni hanno mostrato risultati spettacolari: in uno studio pubblicato a novembre 2020, per esempio, il 71 per cento dei soggetti che avevano assunto psilocibina per il disturbo depressivo mostravano una riduzione dei sintomi pari a oltre il 50 per cento dopo quattro settimane; inoltre metà dei partecipanti sono entrati in remissione. Alcuni studi di follow-up dopo la terapia, per quanto di piccola portata, hanno dimostrato l’esistenza di benefici duraturi.

“A volte con un farmaco guardi i dati e pensi: l’ago si è mosso appena”, afferma Jennifer Mitchell, neurologa al Weill Institute for Neurosciences all’Università della California a San Francisco, che ha collaborato alla sperimentazione clinica sull’MDMA conclusasi di recente. “Poi vedi l’MDMA e pensi: Però! L’effetto è proprio su un’altra scala”. Rutter è stato così colpito dall’esperienza con la psilocibina che è diventato consulente di una delle aziende che sponsorizzano le sperimentazioni su questo composto.

Novità stupefacenti
L’attuale ondata di interesse per il potenziale terapeutico degli psichedelici è un po’ un ritorno di fiamma. Negli anni cinquanta e sessanta i ricercatori pubblicarono più di mille articoli sull’uso di queste sostanze come terapia psichiatrica, testandole su circa 40.000 persone. Poi, quando se ne diffuse l’uso ricreativo, gli psichedelici furono vietati e la FDA ne ridusse le forniture disponibili per la ricerca. Solo di recente neuroscienziati e psicofarmacologi come Carhart-Harris hanno avuto a disposizione la tecnologia necessaria per iniziare a dipanare la matassa dell’effetto di questi composti sul cervello e così hanno ottenuto le prime informazioni su come essi possano essere d’aiuto nelle malattie psichiatriche.

La scienza ha iniziato a studiare gli effetti biologici degli psichedelici alla fine degli anni novanta, usando su volontari tecniche di neuroimaging come la tomografia a emissione di positroni prima e dopo l’assunzione delle sostanze, oppure abbinandole ad antagonisti che ne affievolivano alcuni effetti. Quegli studi mostravano somiglianze nella risposta del cervello a psichedelici come la psilocibina e l’LSD, come pure alla N,N-dimetiltriptammina (DMT), il principio attivo dell’ayahuasca, e alla mescalina, un composto psichedelico derivato dal peyote. Tutte queste sostanze agiscono come recettori della serotonina, un neurotrasmettitore che influisce sull’umore.

La serotonina è il bersaglio anche della classe predominante di psicofarmaci chiamati inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o SSRI. Oggi si ritiene che il funzionamento di questi antidepressivi non consista nell’inondare il cervello di serotonina, come si presumeva inizialmente, bensì nello stimolare la neuroplasticità, ossia la capacità del cervello di creare nuove connessioni neuronali. Esistono prove che le sostanze psichedeliche come la psilocibina aumentano la neuroplasticità negli animali e alcuni elementi indicano che possa avvenire altrettanto nel cervello umano. Studi clinici suggeriscono inoltre che gli effetti biologici funzionino meglio se abbinati a supervisione umana.

Gli psichedelici “attivano uno stato terapeutico onirico, che intensifica la percezione sensoriale, e i ricordi emergono come piccoli filmati”, afferma Franz Vollenweider, psichiatra e neurochimico alla clinica psichiatrica dell’Università di Zurigo e uno dei pionieri dell’era moderna della ricerca sugli psichedelici. Vollenweider ritiene che questo stato mentale recettivo offra l’opportunità di aiutare le persone a sfuggire agli schemi di pensiero rigidi, simili al circuito automatico di Rutter.

“Le persone restano bloccate in disturbi come la depressione perché sviluppano un sistema di pensiero efficiente ma sbagliato”, sostiene David Nutt, psicofarmacologo all’Imperial College e aperto sostenitore della necessità di apportare riforme basate sui fatti alle politiche governative sulle droghe illegali. La psichiatria ha un nome per questo tipo di pensieri: ruminazione.

L’idea alla base della terapia psichedelica è che lo stato recettivo indotto dallo stupefacente apra la porta a nuove idee su come pensare al passato e al futuro, idee che il terapeuta può rafforzare. “Sono in continuo aumento gli elementi a supporto del principio che si tratti di una vera e propria sinergia tra l’iperplasticità indotta dalla sostanza e il sostegno terapeutico”, afferma Carhart-Harris, che ha studiato con Nutt.

Rutter racconta che il suo viaggio con Carhart-Harris è stato concentrato ma flessibile. Quando Rutter ha tolto la mascherina per la prima volta dopo che l’allucinogeno aveva fatto effetto, il terapeuta gli appariva “fratturato” e sembrava avere un occhio aggiuntivo in mezzo alla fronte. “Immagino di sembrarti abbastanza strano in questo momento”, gli ha detto Carhart-Harris. Rutter è scoppiato a ridere e lo psicologo lo ha imitato. Quando hanno smesso di ridere, i due hanno iniziato a parlare. Rutter voleva discutere del proprio risentimento, il che l’ha portato a interrogarsi sulla parola “relent” (lasciar andare) e sulla sua etimologia. Carhart-Harris l’ha cercata con il computer portatile. “È stato un momento davvero piacevole”, racconta Rutter. In seguito il paziente è tornato per una seconda sessione, con una dose più alta di stupefacente, a cui hanno fatto seguito una seconda risonanza magnetica e una sessione di “integrazione” in cui parlare dell’esperienza.

Il trattamento “mi ha fatto guardare diversamente al dolore”, afferma Rutter. “Ho capito che non mi stava aiutando, e che lasciarlo andare non era un tradimento”.

Ostacoli clinici
Ma testare queste sostanze in modo efficace e tradurre la ricerca clinica in terapie concrete sarà difficile. Due degli studi osservati con maggiore attenzione si sono trovati ad affrontare proprio questi ostacoli.

Uno è quello completato di recente sull’MDMA, che testava la tecnica in persone affette da PTSD grave. Si trattava di uno studio di fase III, che di solito è l’ultimo passo prima che gli enti regolatori debbano decidere se approvare la terapia o meno, e contava 90 partecipanti distribuiti tra 15 sedi in tutto il mondo. Era sponsorizzato dalla Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS), un’organizzazione no profit con sede a San José, in California, che però non ha ancora reso noti i risultati.

Intanto l’azienda farmaceutica COMPASS Pathways di Londra, che si occupa di salute mentale, è impegnata in uno studio di fase IIb in cui testa vari dosaggi di psilocibina contro la depressione resistente al trattamento.

Valutare i risultati non sarà semplice. Un ostacolo riguarda i gruppi di controllo: la maggior parte dei soggetti a cui è somministrato il placebo sanno di non aver ricevuto un potente allucinogeno. Alcuni studi di valutazione degli psichedelici hanno cercato di risolvere il problema somministrando ai soggetti nel gruppo di controllo una compressa contenente niacina, che causa una reazione fisica, in genere un rossore sulla pelle. Mitchell afferma che nel suo studio sull’MDMA alcuni soggetti a cui era stata somministrato lo stupefacente pensavano di aver ricevuto il placebo e alcuni di coloro a cui era stato somministrato il placebo credevano di aver ricevuto lo stupefacente.

Chi progetta gli studi in questione deve anche tenere presente quanto influiscano sui risultati gli altri aspetti della sperimentazione, quelli non legati alla sostanza in sé, come lo stato mentale del soggetto che si sottopone all’esperimento e l’ambiente in cui esso si realizza.

Le sale usate per lo studio COMPASS allo Universitair Medisch Centrum di Utrecht, nei Paesi Bassi, hanno un’atmosfera che ricorda decisamente quella di un centro benessere in un hotel. Ai piedi del letto singolo c’è una coperta in stile messicano, ripiegata. In un angolo, alcuni pouf a sacco sono raccolti attorno a un vaso con una palma. E su una delle pareti fa bella mostra di sé una riproduzione del Ramo di mandorlo in fiore di Van Gogh. Tutte le 24 sedi in cui viene condotto lo studio seguono lo stesso stile.

Poi c’è la questione della formazione e dell’esperienza dei terapeuti che guidano le sessioni di somministrazione degli stupefacenti e quelle successive di integrazione. COMPASS, che lo scorso settembre è diventata una società per azioni valutata sul mercato oltre un miliardo di dollari, ha sviluppato un programma di formazione a cinque livelli per i terapeuti che partecipano alla sperimentazione. Ekaterina Malievskaia, cofondatrice e Chief Innovation Officer dell’azienda, afferma che i ricercatori devono attenersi al programma di formazione se l’azienda vuole sperare di ottenere l’approvazione degli enti regolatori.

Madras si spinge ancora oltre e afferma che qualsiasi impiego di queste sostanze su scala più ampia dovrà replicare le condizioni della sperimentazione. Gli psichedelici “dovranno essere approvati nelle stesse condizioni rigorose in cui sono stati studiati”, sostiene. Però non è chiaro quale sia la strada da seguire per imporre tali condizioni. La FDA statunitense prevede un meccanismo per garantire che i farmaci siano somministrati in modo specifico: le strategie di valutazione e mitigazione del rischio, o REMS (Risk Evaluation and Mitigation Strategies).

Con le REMS l’ente regolatore può esigere che i medici e i farmacisti che prescrivono queste sostanze siano certificati in base a una determinata strategia di cura definita per mitigare i rischi associati a ciascuna determinata sostanza, come i rischi di assuefazione e dipendenza legati alla prescrizione di oppiacei. Le REMS si potrebbero usare per gli psichedelici, afferma Dunn. In questo modo si potrebbe legare la somministrazione della sostanza alla componente di terapia e magari si arriverebbe a certificare gli operatori che praticano questo tipo di cura. Una fonte interna a una delle sperimentazioni afferma che si stanno portando avanti negoziati con la FDA per determinare se i terapeuti che somministrano la sostanza debbano essere formati, che cosa possa essere incluso nella formazione e se debba essere richiesta una certificazione.

Una certificazione potrebbe significare una legittimazione dei terapeuti che “curano” illegalmente i pazienti con queste sostanze anche da 30 anni. Però alcuni di loro potrebbero resistere ai consigli, o al coinvolgimento, di quel governo che li ha spinti a lavorare in clandestinità.

Per le approvazioni c’è ancora molta strada da fare. Alla fine del 2020, in un comunicato stampa MAPS ha affermato che nella sua sperimentazione clinica sull’MDMA sono state rilevate differenze statisticamente significative nella risposta del gruppo a cui è stato somministrato il principio attivo e del gruppo di controllo che aveva ricevuto il placebo.

Ma l’azienda non ha intenzione di dare altre informazioni sui risultati prima della pubblicazione completa dei dati, prevista nel corso di quest’anno. MAPS sta anche reclutando soggetti per un secondo studio di fase III su una terapia con MDMA per pazienti affetti da PTSD da moderato a grave, studio che intende portare a termine prima della fine dell’anno. Anche COMPASS conta di ottenere i risultati dello studio di fase IIb sulla psilocibina entro quella data e afferma di avere in preparazione uno studio di fase III.

Robert Malenka, psichiatra e neuroscienziato alla Stanford University, in California, che ha studiato gli effetti dell’MDMA sui roditori, si dice convinto che prima o poi alcune sostanze psichedeliche saranno approvate per l’uso in specifiche condizioni. “Hanno il potenziale per diventare, e voglio usare l’analogia giusta, parte della cassetta degli attrezzi che abbiamo a disposizione per curare i pazienti”, afferma. Ma mette in guardia contro l’eccessivo fanatismo, soprattutto un tipo di proselitismo che ha visto tra chi offre sottobanco psicoterapia assistita da sostanze psichedeliche: “Non credo che saranno cure miracolose”.

Malenka spiega che è necessario esaminare ulteriormente le ipotesi sull’effetto di queste sostanze nel cervello e che sul lungo periodo sarebbe forse opportuno studiare composti che offrano gli stessi benefici senza gli effetti allucinogeni. Altri sottolineano che per molte persone gli SSRI funzionano anche se i clinici non ne comprendono ancora a fondo il meccanismo.

Per quanto riguarda i lavori clinici, però, Madras solleva dubbi sulle dimensioni e sulla progettazione delle sperimentazioni. Nota che in molti casi gli studi includono soggetti che hanno già sperimentato l’assunzione di psichedelici in passato. Chi è attratto da questo tipo di esperienza, sottolinea, rischia di essere più portato a riferire valutazioni positive. Nutt ha affermato che lavorare con chi è già esperto nell’uso di queste sostanze riduce al minimo la possibilità di eventi avversi. Ma esistono anche altri possibili fattori di confusione, secondo Madras. “I moduli per il consenso – spiega – informano su quello che ci si può aspettare, perciò alcuni soggetti non saranno del tutto obiettivi.”

Rutter afferma di essere convinto, nonostante tutto, che la terapia ricevuta nel 2015 gli abbia cambiato la vita in meglio. Nelle settimane successive a quella sessione, si trovava a chiedersi se il circuito automatico sarebbe riapparso. “Ero terrorizzato – racconta – e poi ho capito: ho un po’ di controllo sulla situazione, no?” L’idea non gli era mai venuta in mente prima.

Circa una settimana più tardi era con alcuni amici in un centro commerciale e ha sentito il ritorno dell’ottimismo e dell’apertura mentale. “È stato come se qualcuno avesse aperto una finestra in una stanza dove c’era aria viziata.” A cinque anni di distanza, la depressione non si è ripresentata.

 

Fonte: Le Scienze

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