Come invertire il declino cognitivo legato all’età

Articolo del 24 Gennaio 2021

Uno studio sui topi ha dimostrato che gli individui più anziani possono recuperare le capacità cognitive grazie alla manipolazione del metabolismo dei macrofagi, un’importante popolazione di cellule immunitarie. Il risultato apre interessanti prospettive di ricerca sulle malattie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Ridurre il livello d’infiammazione dell’organismo e stimolare il metabolismo delle cellule immunitarie chiamate macrofagi: sono queste le strategie terapeutiche che possono essere efficaci nel far regredire nei topi il declino cognitivo legato all’invecchiamento.

Lo hanno dimostrato Para Minhas, della Stanford University e colleghi in uno studio pubblicato su “Nature”, che sembra suggerire che il deterioramento delle capacità di memoria e apprendimento associato all’età non sia una condizione permanente, ma sia invece reversibile intervenendo su alcuni processi biomolecolari fondamentali.
Il risultato chiarisce aspetti fondamentali del complesso insieme di collegamenti tra sistema immunitario, infiammazione, invecchiamento e neurodegenerazione, una rete al cui centro ci sono proprio i macrofagi e il loro metabolismo.

I macrofagi sono cellule immunitarie essenziali per la salute, poiché rappresentano la prima linea di difesa contro le infezioni. Si trovano in quasi tutti gli organi, in particolare nei tessuti periferici e nel cervello, dove costituiscono la microglia. La loro attivazione contro i patogeni tuttavia ha un alto costo energetico, che viene coperto da due differenti cammini metabolici, la glicolisi e la fosforilazione ossidativa, che tendono a diventare sempre meno efficienti via via che l’organismo invecchia, compromettendo in particolare la salute del cervello.

L’invecchiamento molto spesso si associa anche all’instaurarsi di uno stato d’infiammazione di basso livello ma cronica, mediata da una molecola proinfiammatoria chiamata prostaglandina E2 (pGE2), che si rileva ad alti livelli anche in alcune malattie neurodegenerative.

L’idea di Minhas e colleghi era verificare se i cambiamenti dei macrofagi con l’età fossero in qualche modo innescati proprio dalla pGE2. La loro sperimentazione ha mostrato innanzitutto che nei topi anziani i macrofagi dei tessuti periferici e la microglia avevano alti livelli di pGE2. Inoltre, l’attivazione del cammino di segnalazione della pGE2 innescava una disfunzione metabolica in queste cellule, che dava il via a sua volta a una infiammazione cronica sistemica e a un deterioramento delle capacità cognitive.

Nelle fasi successive dello studio, gli autori hanno tentato d’influenzare questa cascata di processi intervenendo sui recettori cellulari a cui si lega la pGE2, sia inibendoli in modo diretto con alcuni farmaci sia manipolando geneticamente i topi affinché ne producessero in numero inferiore, nei macrofagi periferici così come nella microglia. In entrambi i casi, l’intervento è riuscito a migliorare il metabolismo delle cellule, riportandolo a uno stato simile a quello dell’età giovanile, e a diminuire lo stato d’infiammazione dell’organismo.

Ma il risultato più importante e sorprendente è che i topi hanno recuperato le loro abilità cognitive, in particolare quelle relative alla memoria spaziale, e ritrovato una notevole funzionalità nella regione cerebrale dell’ippocampo, importante per l’apprendimento e la memoria.

Con tutte le cautele del caso, dovute al fatto che si tratta di una sperimentazione sul modello animale, i risultati offrono interessanti spunti di ricerca, per esempio sul morbo di Alzheimer, una condizione in cui le disfunzioni metaboliche della microglia, secondo alcuni studi passati, possono rivestire un ruolo importante.

 

Fonte: Le Scienze

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