Coronavirus, cosa ha scoperto la scienza: il contagio.

Articolo del 30 Dicembre 2020

Mai era avvenuto un simile sforzo scientifico per conoscere e cercare di contrastare un virus in tempi brevi. Cosa sappiamo finora? Le risposte qui sotto, con i link alle principali pubblicazioni.

Come avviene la trasmissione del virus?

Il virus Sars-CoV-2 si trasmette soprattutto attraverso il contatto con una persona malata o che comunque ha contratto l’infezione. La via di trasmissione più semplice sono le goccioline emesse con la respirazione e la saliva, oltre che ovviamente se si tossisce e si starnutisce. Negli ultimi mesi è emerso inoltre il ruolo degli aerosol e dunque il rischio della permanenza nei luoghi chiusi con altre persone. Le mascherine aiutano, ma è necessaria soprattutto la ventilazione. Il virus può passare anche attraverso le mani, ovviamente se non si lavano frequentemente, la bocca il naso e gli occhi. Sono stati riportati aneddotici casi di contagio per via fecale (Ecdc). Sul fronte degli alimenti, va ricordato che le infezioni respiratorie normalmente non si trasmettono con i cibi, ma occorre sempre mantenere la massima igiene separando cibi crudi e cotti. Al momento, infine non risulta che il virus si trasmetta attraverso il contatto con animali domestici.

Per quanto riguarda il periodo di massima infettività da parte della persona che ha contratto l’infezione pare che il picco d’infettività si abbia nel primo giorno di comparsa dei sintomi e si mantenga alto nei giorni immediatamente successivi. La ricerca è coordinata da Luca Ferretti dell’Università di Oxford ed è apparsa sulla piattaforma Medxriv

Quante particelle virali occorrono per contagiarsi?

In chiave sperimentale pare che occorrano anche limitate quantità di virus per indurre infezione, anche se quanto più la carica virale è alta tanto maggiori sono i rischi. Altro parametro importante è il tempo di esposizione al virus. Quanto più si rimane a stretto contatto con un soggetto infetto, tanto maggiori sono i rischi. Alcuni studi, appunto sperimentali, indicano che basterebbero anche meno di 1000 particelle virali per contagiare una persona. Ovviamente, come detto, la carica virale del soggetto che può trasmettere il virus è fondamentale.

Quali sono gli ambienti a maggior trasmissione?

Ovviamente il virus si mantiene nell’aria e si trasmette all’interno di ambienti chiusi. Basti pensare che ad oggi si sa che le particelle virali molto piccole possono permanere anche per ore nell’ambiente come aerosol. Per questo nei negozi, sui mezzi di trasporto e più in generale dove non è possibile un adeguato ricambio d’aria sono indicate le mascherine, che hanno lo scopo di proteggere gli altri da eventuali emissioni da bocca e naso, oltre che i guanti per preservare gli oggetti. L’Istituto superiore di sanità raccomanda in questo senso di garantire un buon ricambio d’aria in tutti gli ambienti in abitazioni uffici e ovunque sia possibile. Aprire regolarmente le finestre è estremamente utile per “cambiare aria”. Ovviamente occorre anche ricordare che il lavaggio e la disinfezione delle mani sono la chiave per prevenire l’infezione, anche attraverso i possibili contatti con oggetti su cui il virus può permanere.

Per quanto riguarda gli ambienti a rischio ed in particolare scuole materne e primarie, un piccolo studio americano, condotto da esperti dell’Università dello Utah e dal Centro del controllo delle malattie (Cdc) degli Usa condotto su tre microepidemie da Sars-CoV-2 in età pediatrica indica che i bimbi molto piccoli non sarebbero in grado di trasmettere efficacemente il virus, a fronte di una trasmissione simile a quella degli adulti dei bambini più grandicelli, in età di scuola elementare. Si tratta solamente di 12 casi osservati ma l’indicazione è interessante.

La trasmissione in ambienti chiusi è molto più probabile rispetto a quanto può avvenire all’aperto, specie se si sta a distanza. Ma anche attraverso aerosol. Nell’aerosol la permanenza del Sars2-COv-19 può essere anche di tre ore, seppur in quantità ridotte, come mostra uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine.

Come se non bastasse gli scienziati del MIT di Boston coordinati da Lydia Bourouiba hanno segnalato su JAMA la capacità del ceppo virale responsabile della pandemia che stiamo affrontando di arrivare anche a diversi metri, ovviamente sulla spinta della potente espirazione che accompagna uno starnuto. Per quanto riguarda gli ambienti chiusi, occorre mantenere la giusta distanza al ristorantesui luoghi di lavorotra gli operatori sanitari e a domicilio.

Chi sono i superdiffusori?

Uno dei casi più noti e drammatici è stato quello del coro di Mount Vernon, stato di Washington: lì il 10 marzo 61 coristi si sono ritrovati per più di due ore a provare, mangiare, stare insieme. Ma uno di loro da tre giorni aveva i sintomi di quello che pensava essere un raffreddore. Entro poche settimane i malati erano 53, tre dei quali ricoverati e due deceduti, stando a quanto riferito dai CDC, che hanno ricostruito accuratamente la vicenda.

Il caso dei coristi non è certamente l’unico: secondo gli esperti della London School of Hygiene & Tropical Medicine (LSHTM), che hanno creato un database apposito nel quale sono già stati censiti più di 60 episodi, un superdiffusore in un dormitorio di migranti di Singapore ha infettato 800 persone, una persona presente a un concerto a Osaka, in Giappone, 80, mentre in Sud Corea da un corso di Zumba sono arrivate 53 infezioni. Un altro caso è poi quello di Israele, dove in base a un’indagine genetica svolta dall’Università di Tel Aviv su 200 malati, l’80% dei nuovi malati si infetta dal 10% di persone contagiate.

Una delle caratteristiche che rende ostica la lotta al Sars-CoV 2 è proprio questa: alcune persone – per questo sono chiamate superdiffusori – diffondono il virus in modo più che efficiente, mentre altre quasi per nulla, e solo ora si sta iniziando a capire meglio perché.

Per vederci più chiaro, i virologi fanno riferimento all’ormai noto indice R, che indica quante persone un contagiato può infettare. Stando a quanto riferito su Science, in natura il numero associato a Sars-CoV 2 è 3, ma nelle realtà si va da zero a 3 appunto, per la grande variabilità del fenomeno. Molti esperti valutano anche un altro parametro, chiamato k, che indica la capacità di diffusione del virus: più basso è k, minore è il passaggio. Nel caso del Sars-Cov-2, secondo recentissime stime k sarebbe attorno allo 0,1%, simile a quello della SARS, più basso di quello della MERS e in linea con i dati israeliani (sul fatto che il 10% dei contagiati infetterebbe il restante 80%). Se questo valore fosse confermato, significherebbe che la trasmissione, in realtà, non è molto efficiente, che la maggior parte delle catene di contagio si spengono da sole, e che il virus, per avere successo una volta, deve entrare in un nuovo territorio almeno 4 volte: un dato rassicurante.

Ma a parte le caratteristiche del virus, contano anche altri elementi quali la modalità di trasmissione. Oltre alle droplets, infatti, sembra esserci una trasmissione attraverso particelle di saliva più piccole, che occasionalmente potrebbero creare grandi problemi.

C’è poi l’ospite: molto dipende dal suo sistema immunitario, dalla sua carica virale, da dove, nel suo organismo, è concentrato il virus, da quanti recettori (gli ormai noti ACE2) per il virus esprime e poi da che cosa fa quando incontra altre persone (cantare è altamente sconsigliato), da quanto si lava le mani, dal tipo di vita sociale che conduce e così via.

Tra le certezze raggiunte vi è il fatto che questo virus ama particolarmente le situazioni di affollamento e di contatto (come le classi di ballo al chiuso, i bar-karaoke, i macelli e così via): in un’indagine cinese su 318 focolai, solo uno aveva avuto origine all’aperto, mentre secondo uno studio giapponese il rischio al chiuso è 19 volte più alto di quello all’aperto.

L’arma più efficace, in attesa di capire ancora meglio tutti i passaggi, resta la prevenzione attraverso l’individuazione e il tracciamento di tutti i contagiati ma, soprattutto, dei superdiffusori, come avviene in Corea del Sud. Da quel paese giunge, tra le altre, una storia emblematica: un uomo risultato poi positivo al tampone si era recato in diversi locali notturni; analizzando migliaia di contatti avuti dal paziente, nelle ore successive al suo tampone sono stati trovati 170 casi positivi.

Il tracciamento, come si vede anche in Italia con lo scarso successo della app Immuni, è meno facile di quanto si potrebbe pensare, e anche per questo distanziamento e igiene accurata restano, per ora, strumenti di prevenzione ineludibili.

Gli asintomatici trasmettono il virus?

Fino dai primi giorni, una delle domande più pressanti è stata quella relativa al ruolo degli asintomatici, che con ogni probabilità hanno contribuito non poco alla diffusione del Sars-CoV 2 in Europa prima e nel resto del mondo poi. Oggi la scienza ha raggiunto alcuni punti fermi grazie agli studi su popolazioni specifiche. In particolare, in Islanda, dove è attivo un grande progetto di analisi di tutta la popolazione grazie alla collaborazione con la DeCode, azienda del gruppo Amgen che sta effettuando anche la mappatura genetica degli islandesi, si è capito che circa una persona contagiata su due non ha alcun tipo di sintomo, e molte altre delle restanti ne hanno di lievissimi. Questo dato, contenuto in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine che descrive con molta precisione il quadro complessivo della diffusione del virus, conferma altre osservazioni che sono giunte a conclusioni analoghe, riprese anche, per esempio, sul sito dei CDC.

Ma la questione più importante è: quanto sono pericolosi gli asintomatici? Quanto efficacemente diffondono il virus? La domanda, di cui ha scritto anche Bill Gates sullo stesso New England Journal of Medicine, è stata oggetto di molte indagini, dai primi due casi certi segnalati sulla stessa rivista, relativi a due cittadini rientrati in febbraio in Germania dalla Cina, uno dei quali senza sintomi e l’altro con sintomi lievissimi, a un lavoro olandese pubblicato su MedRivX nel quale, su 91 cittadini di Singapore, tra il 48 e il 66% aveva contratto il virus in contatti con persone asintomatiche o lievissimamente sintomatiche. Sempre sullo stesso sito, inoltre, un altro studio internazionale condotto in Cina segnalava, in un cluster di 135 casi, un’origine da contatti con persone asintomatiche compresa tra il 67 e il 72%.

Uno studio arriva da Vo’ Euganeo, tra  i primi focolai italiani, ed è appena stato pubblicato su Nature. Lo studio condotto dall’Università di Padova sui risultati dei primi due giri di tamponi sulla popolazione del paese ha rivelato che più del 40% delle infezioni da Covid-19 sono state asintomatiche. La ricerca è a firma di Andrea Crisanti e ha rappresentato la base scientifica per le azioni di sorveglianza attuate dalla Regione Veneto. Essa dimostra come non si rilevi alcuna differenza statisticamente significativa nella carica virale delle infezioni sintomatiche rispetto a quelle asintomatiche. Risultato che, affermano gli autori, implica che, potenzialmente, anche le infezioni asintomatiche o paucisintomatiche potrebbero contribuire alla trasmissione di Sars-CoV-2.

Negli ultimi giorni è arrivato poi uno studio, pubblicato su Clinical Infectious Diseases, importante perché condotto su 14.000 persone poste in quarantena in Vietnam. Tra le 49 positive, metà non aveva sintomi ma, soprattutto, almeno due sono state infettate da altre due persone che non ne avevano.

Resta insomma da capire quanto e in quali condizioni ideali una persona contagiata ma priva di sintomi o con sintomi talmente lievi da essere difficilmente riconosciuti come tali possa infettarne altre, ma sul fatto che la trasmissione dagli asintomatici, ancorché in misura nettamente inferiore rispetto a quella dai sintomatici, sia possibile, sembrano esserci pochi dubbi.

Fino a quando si è contagiosi? E quando lo si è di più?

Dal 12 ottobre 2020 anche in Italia non è più richiesto un doppio tampone negativo per uscire dall’isolamento, ma al massimo 21 giorni (altri paesi chiedono meno, solo la Cina è rimasta a multipli tamponi negativi). Queste decisioni sono il frutto indiretto dei molti studi effettuati negli ultimi mesi, che hanno individuato le caratteristiche del contagio medio e definito meglio il comportamento del virus: la persona infetta trasmette Sars-CoV 2 soprattutto da circa due giorni prima dell’esordio dei sintomi a circa cinque giorno dopo, e anche se ci sono numerose eccezioni e variabili, questo intervallo è ormai considerato quello più accreditato.

Anche perché in nessuno studio è stata trovata traccia di virus vivi 9 giorni dopo l’infezione. Anche l’OMS consiglia di fare riferimento solo agli aspetti clinici e non alla presenza di materiale genetico, che non necessariamente è indicativo di malattia.Tutto ciò ha appena ricevuto una conferma di peso: l’esito di una grande metanalisi pubblicata su Lancet Microbe dai virologi dell’Università di Glasgow, in Scozia, insieme con i colleghi dell’Ospedale Cotugno di Napoli, che ha preso in esame oltre 1.500 studi pubblicati sul tema tra il 2003, anno della prima comparsa della SARS, fino al giugno 2020, confrontando anche le caratteristiche dei diversi coronavirus.

Dopo una prima scrematura gli autori hanno selezionato 79 ricerche su Sars-CoV 2, 11 sulla MERS e 8 sulla SARS che hanno coinvolto un totale di circa 8.000 persone, e hanno tracciato un profilo piuttosto dettagliato di che cosa succede alle tracce di un Sars-CoV 2 penetrato nell’organismo: il materiale genetico resta nell’apparato respiratorio superiore per 17 giorni, in quello inferiore per 14,6 giorni, nelle feci per 17,2 giorni e nel siero per 16,6 giorni.

Tra l’altro, fino a ora sono stati segnalati casi di presenze di materiale genetico anche molto più lunghe: quelle massime sono state di 83 giorni nel tratto respiratorio superiore e 59 in quello inferiore, di 126 giorni nelle feci e di 60 nel plasma. Interessante anche il confronto con i suoi parenti stretti SARS e MERS: la prima raggiunge l’apice della contagiosità nei giorni che vanno dal decimo al quattordicesimo dal contatto, mentre la seconda nei giorni 7-10.

In altri termini, il Sars-CoV 2 è molto più precoce. L’analisi di casistiche così ampie ha poi fatto emergere le sfumature: per esempio gli anziani, che hanno un sistema immunitario meno efficiente, e per i quali la contagiosità può essere più lunga (ma anche in questo caso non va mai oltre i 9 giorni), oppure gli asintomatici, che anche se hanno la stessa carica virale dei sintomatici riescono a eliminare il virus dal proprio organismo in tempi più brevi.

Un caso del tutto particolare è quello dei (fortunatamente pochi) malati di tumore che si ammalano di Covid: secondo uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine dagli oncologi del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, e condotto su una ventina di pazienti, quelli sottoposti a terapie immunologiche come i trapianti e le CAR T sono molto più contagiosi, perché non producono anticorpi specifici, e vanno dunque isolati a lungo, almeno per 20 giorni.

Gli autori della metanalisi consigliano comunque il comportamento da tenere: non appena si avvertono i primi sintomi quali il mal di gola, il dolore osseo o la febbre, è bene isolarsi, in attesa di poter fare un tampone, anche perché questo può accorciare i tempi. Se infatti si aspettano magari 1-2 giorni per il test, e poi altrettanti per l’esito, l’isolamento diventa più lungo.

Il virus si trasmette tra madre e feto?

Il Sars-CoV 2 può passare la placenta ed essere trasmesso al feto. La buona notizia, certificata in uno studio pubblicato su Nature Communications e derivante dallo studio del caso di una donna francese, è che non ci sono pericoli per lo sviluppo del feto. A conclusioni simili erano giunti uno studio americano su un altro caso, pubblicato su Pediatric Infectious Diseases Journal e uno italiano su 31 bambini, condotto dagli specialisti dell’Ospedale San Gerardo di Monza, dell’Ospedale Sacco di Milano e del Policlinico San Matteo di Pavia, uscito per ora sul sito senza revisione MedXRiV.

 

Fonte:  Lab24 de IlSole24Ore

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