Cultura Uomini e storie: come sono nati i vaccini.

Articolo del 17 Novembre 2020

Mentre i ricercatori di tutto il mondo cercano un vaccino anti-covid sicuro ed efficace, ecco le storie di scienziati che, con i loro vaccini, hanno salvato milioni di vite.

Quell’anno l’influenza sembrava molto più aggressiva e virulenta del solito. Maurice Hilleman, il capo del dipartimento per le malattie respiratorie del Centro medico della difesa americana, voleva vederci chiaro. Col suo team isolò il virus e lo analizzò: si trattava di un ceppo nuovo, potenzialmente catastrofico: era il 1957, l’anno in cui il virus A/Singapore/1/57 H2N2 scatenò l’epidemia di influenza asiatica che uccise circa due milioni di persone in tutto il mondo.

MAURICE HILLEMAN. Negli Usa le vittime sarebbero potute essere milioni, ma non superarono quota 69mila: Hilleman era riuscito a creare un vaccino e a distribuirne 40 milioni di dosi in tutto il Paese. Fu soltanto una delle scoperte del microbiologo americano, padre di vaccini contro oltre 40 agenti infettivi, sette dei quali (morbillo, orecchioni, rosolia, epatite B, varicella, meningite e batterio emofilo dell’influenza b) li troviamo nel nostro calendario dei vaccini obbligatori.

EDWARD JENNER. Anche se il più prolifico, Hilleman non fu il primo a percorrere la difficile strada della prevenzione (e della cura) delle malattie con la vaccinazione. Il padre dell’immunizzazione fu Edward Jenner (1749-1823), un medico di campagna che intuì come sconfiggere la piaga del vaiolo che, nell’Inghilettra del Settecento, mieteva 40mila vittime l’anno.

All’epoca, l’unico palliativo noto era la variolizzazione: un sistema decisamente rudimentale col quale i medici trasmettevano alle persone sane una forma più lieve di vaiolo, soffiando nelle loro narici le croste polverizzate dei malati o deponendo il pus delle piaghe infette su un graffio profondo. La variolizzazione, però, era pericolosa: diffondeva il contagio impiegando un virus umano vivo, attenuato (diremmo oggi) in modo artigianale. L’intuizione era corretta, ma gli strumenti e le conoscenze erano del tutto inadeguate.

Edward Jenner e molti suoi colleghi avevano però notato che i mungitori erano immuni al vaiolo se sulle loro mani erano comparse delle piaghe, simili a quelle vaiolose e uguali a quelle che a volte spuntavano sulle mammelle delle mucche. E se il vaiolo bovino, meno aggressivo del vaiolo umano, fosse stata la soluzione? Nel 1796, Jenner passò ai fatti: prese James Phipps, il figlio di otto anni del suo giardiniere, e gli innestò il pus estratto dalle pustole di Sarah Nelmes, una mungitrice che aveva contratto il vaiolo bovino. Il ragazzino ebbe un po’ di febbre, ma in due giorni guarì: due mesi dopo, quando, senza etica né scrupoli, il medico lo variolizzò deliberamente, esponendolo al virus, James non sviluppò alcun sintomo.

Dopo due anni e altri 23 esperimenti, Jenner fu il primo a dimostrare scientificamente l’efficacia antivaiolosa di quello che ribattezzò vaccino (inteso come derivato dalla vacca), aprendo così la strada alle attenuazioni di laboratorio di Pasteur (1822-1895) e alla gara all’ultima scoperta tra i pastoriani (i collaboratori dello scienziato francese) e i discepoli di Robert Koch (1843-1910), il padre tedesco della batteriologia.

LOUIS PASTEUR. Era il 1885 quando nel laboratorio parigino del chimico e microbiologo francese Louis Pasteur entrò Joseph Meister, un bambino di nove anni accompagnato dalla madre. Arrivavano da un villaggio dell’Alsazia: cinque giorni prima, il piccolo era stato azzannato più volte da un cane idrofobo. Per la medicina dell’epoca Joseph non aveva scampo, per questo il suo medico, un fan degli studi di Pasteur sulla rabbia, lo aveva mandato da lui. E lo scienziato somministrò al bambino il suo trattamento antirabbico.

Era la prima volta che lo sperimentava su un essere umano: dopo 12 iniezioni e due settimane a letto, Joseph si alzò, guarito. E dire che quella sorprendente invenzione era nata da un errore: sei anni prima, mentre studiava il colera dei polli, aveva inoculato per sbaglio nelle sue cavie alcuni batteri indeboliti, perché rimasti fuori dal terreno di coltura. I fortunati volatili avevano sviluppato sintomi molto lievi della malattia e quando Pasteur aveva somministrato loro batteri vivi, non si erano ammalati.

Il caso gli aveva suggerito il meccanismo alla base dei moderni vaccini attenuati: con un batterio o un virus indebolito in laboratorio, si poteva provocare una malattia più leggera che non danneggiava il paziente e lo rendeva immune alla versione più aggressiva del male. Ma in che modo Pasteur aveva reso meno letale il virus della rabbia?

Procedendo per tentativi. Scoprì che, a mano a mano che la materia cerebrale infetta delle sue cavie seccava, il virus in essa contenuto perdeva forza, diventando innocuo nel giro di due settimane. Polverizzata e allungata in acqua, la poltiglia di cervello e virus indebolito si era trasformata nell’intruglio salvavita somministrato a Joseph. Pasteur lo chiamò vaccino, in onore del suo precursore inglese Edward Jenner che quasi un secolo prima aveva salvato in modo simile i suoi pazienti dal vaiolo.

ROUX E VON BEHRING. La corsa al primo rimedio contro un’altra grave malattia infettiva, la difterite, fu un testa a testa: nel 1888, il braccio destro di Pasteur, Émile Roux, aveva scoperto che il batterio della difterite produceva una tossina, un veleno che attaccava la gola dei malati e la faceva gonfiare, soffocandoli. Da qui partirono le ricerche del microbiologo prussiano Emil von Behring. Entrambi, per vie diverse, riuscirono a metterea punto una cura, usando il siero sanguigno (cioè la parte liquida che rimane quando il sangue coagula) ricco di qualità antitossiche di un cavallo reso immune alla difterite.

Fu però von Behring, grazie all’aiuto dell’immunologo Paul Ehrlich e delle sue teorie sugli anticorpi, a dare fondamenta più solide al suo studio e a ricevere il Nobel per la medicina, e il titolo non ufficiale di pioniere della moderna sierologia. Benché l’effetto protettivo del siero si esaurisse in una ventina di giorni, la sieroterapia si affermò come terapia di emergenza per altre malattie, dal tetano all’influenza spagnola (1918-1920), e oggi, con gli stessi criteri di emergenza, è usata un’altra frazione del sangue su malati con sintomi gravi di CoViD-19.

SALK E SABIN. Dopo la Seconda guerra mondiale si diffuse un’epidemia particolarmente violenta di poliomielite. Il poliovirus, identificato nel 1949, colpisce il sistema nervoso centrale e i neuroni motori del midollo spinale: fra il 1951 e il 1955 uccise o paralizzò circa 28.500 persone all’anno. La partita si giocò sul suolo statunitense e a vincerla fu un vaccino. Anzi, due: il primo, messo a punto dallo scienziato statunitense Jonas Salk, conteneva virus inattivato e, invece di causare la malattia, stimolava gli anticorpi a difendere l’organismo in caso di contagio.

Adottato tra mille festeggiamenti nel 1955, venne soppiantato pochi anni dopo dal vaccino con virus attivo attenuato del virologo polacco Albert Sabin. Più economico e semplice da somministrare, a gocce su una zolletta di zucchero, quello di Sabin fu l’arma letale antipolio usata nelle vaccinazioni a tappeto partite dal 1962. Salk, il cui vaccino (potenziato) oggi è in uso in Italia, morì nel 1995, mentre cercava un vaccino contro l’Aids.

Poco più di un decennio prima era cominciata la vera rivoluzione nello sviluppo dei vaccini, scandita dall’avvento della biologia molecolare, delle tecniche di manipolazione del Dna e dello studio di ogni minima informazione contenuta nel Dna delle cellule dei microrganismi.

Costruiti a tavolino, non più con gli stessi virus e batteri che devono combattere, ma solo con una parte delle loro molecole o con specifici antigeni, oggi i vaccini vecchi sono stati migliorati, mentre i più recenti sono in grado combattere e sconfiggere malattie nuove e letali come Ebola. E adesso il mondo aspetta di sapere quando la scienza produrrà il vaccino anti-covid.

 

Fonte: Focus

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