Dall’immunità “addestrata” un’altra possibile arma contro il coronavirus.
Articolo del 23 Ottobre 2020
I vaccini potrebbero proteggere, almeno in parte, anche da agenti patogeni che non sono il loro bersaglio. La scoperta è legata a una forma particolare di memoria immunitaria “addestrata”, individuata di recente e ancora poco studiata, ma che è tornata di attualità come possibile aiuto nella pandemia di COVID-19.
Laboratori di ogni parte del mondo sono impegnati in una corsa alla realizzazione di vaccini che contribuiscano a fermare la pandemia di COVID-19. Più nell’ombra, però, altri scienziati indagano sulla possibilità che un vaccino in uso da decenni possa offrire anch’esso un certo livello di protezione.
Recenti analisi dei dati epidemiologici globali condotte da diversi gruppi negli Stati Uniti e in Israele hanno trovato che nei luoghi in cui è più alto il tasso di vaccinazione anti-tubercolare (BCG) con il bacillo di Calmette-Guérin [forma attenuata del Mycobacterium bovis, responsabile della tubercolosi bovina, NdR] la diffusione del COVID-19 è più lenta e i tassi di mortalità per la pandemia sono più bassi. E in uno studio di ridotte dimensioni pubblicato in preprint l’11 agosto, fra il personale ospedaliero a cui era stata somministrata a marzo una dose di richiamo del vaccino BCG non c’era stato alcun caso di COVID-19, contro un tasso di infezione dell’8,6 per cento in un gruppo non vaccinato comparabile.
Ma i vaccini non dovrebbero funzionare così, almeno secondo l’immunologia classica. Il batterio della tubercolosi e il virus SARS-CoV-2 che causa la pandemia sono due agenti patogeni del tutto diversi, e i vaccini sono fatti apposta per essere molto specifici.
La specificità è legata ai loro effetti di lunga durata, perché i vaccini impegnano il ramo adattativo del sistema immunitario: linfociti B e T e anticorpi, che riconoscono un determinato patogeno. Alcuni di questi linfociti diventano “cellule della memoria immunitaria”, che persistono per mesi o anni e mettono il corpo in grado di lanciare risposte più forti e più rapide se il patogeno si ripresenta.
“Per molto tempo si è pensato che questo fosse il solo modo in cui la risposta immunitaria lascia un ricordo dell’infezione: i linfociti memoria”, dice Mihai Netea, medico clinico e specialista di malattie infettive della Radboud University, nei Paesi Bassi. Netea è uno degli scienziati che stanno mettendo in discussione questo dogma. Ha richiamato l’attenzione su decenni di dati provenienti da studi epidemiologici e ricerche di laboratorio su topi, piante e invertebrati, che suggeriscono tutti che la memoria immunitaria può funzionare anche in un’altra maniera; in quella che nel 2011 ha chiamato “immunità addestrata”.
L’immunità addestrata è una forma di memoria del sistema immunitario innato: una branca meno studiata e assai più antica delle nostre difese che si è evoluta più di mezzo miliardo di anni fa, quando i vertebrati e il sistema immunitario adattativo ancora non esistevano. Negli ultimi anni i ricercatori hanno cominciato a capire in che modo le cellule del sistema immunitario innato, che hanno una vita breve e decisamente aspecifiche, ricordano i vecchi invasori.
Studi recenti hanno anche evidenziato la possibilità che una qualche manifestazione patologica dell’immunità addestrata sia coinvolta nelle malattie infiammatorie croniche e nei disturbi neurodegenerativi. E uno studio pubblicato il 12 agosto su “Cell Host & Microbe” da un gruppo internazionale di cui fa parte Netea ha svelato che il vaccino BCG promuove benefici più ampi per la salute innescando appunto l’immunità addestrata.
“È pazzesco!”
Netea si è imbattuto nell’immunità addestrata nel 2010, quando una studentessa che faceva l’internato nel suo laboratorio stava studiando il modo in cui i vaccini plasmano la risposta immunitaria usando campioni di sangue prelevati da volontari prima e dopo la vaccinazione BCG.
La studentessa aggiunse ad alcuni campioni l’agente della tubercolosi, Mycobacterium tuberculosis. Quelli prelevati dalle persone vaccinate reagirono positivamente, come previsto. Come controllo negativo, la studentessa aggiunse inoltre ad alcuni campioni il lievito Candida albicans, un patogeno irrilevante che non avrebbe dovuto provocare reazioni. Ma non fu così. I campioni dei primi cinque volontari reagirono sia al bacillo della tubercolosi che a Candida. Quando vide la risposta indiscriminata dei primi cinque campioni, Netea disse alla studentessa: “Forse è un errore. Vai semplicemente avanti con i prossimi cinque e fai molta attenzione a non metterci il bacillo della tubercolosi tutte e due le volte”.
Ma successe la stessa cosa: i campioni reagirono a tutti e due i patogeni. “È pazzesco”, ricorda di aver detto Netea. “C’è qualcosa che non va.” Sconcertato, si mise a setacciare la letteratura scientifica e trovò con sorpresa un buon numero di lavori in cui era descritta questa sorta di protezione immunitaria incrociata. Lungo tutta la storia delle vaccinazioni, già fin dall’introduzione del vaccino antivaioloso all’inizio dell’Ottocento, qualche scienziato aveva osservato che le vaccinazioni sembravano proteggere non solo dalla malattia a cui erano destinate ma anche da altre.
Per esempio, negli anni venti del secolo scorso, in Svezia era relativamente frequente che i bambini morissero entro qualche anno dalla nascita. Ma tra quelli che avevano ricevuto il vaccino BCG appena nati il tasso di mortalità era due terzi inferiore, il che era strano, dato che in genere la tubercolosi colpisce in età più avanzata. Il medico Carl Näslund, direttore dello studio, in un articolo del 1932 azzardò un’ipotesi: “Si è tentati di spiegare questa mortalità assai bassa tra i bambini vaccinati con l’idea che il vaccino BCG provochi un’immunità aspecifica”, scriveva.
Il sospetto trovò conferma decenni più tardi. A partire dagli anni settanta, e fino agli inizi di questo secolo, gli studi epidemiologici condotti dai ricercatori danesi Peter Aaby e Christine Stabell Benn trovarono che in Guinea-Bissau e altri paesi in via di sviluppo la mortalità dei bambini vaccinati contro il morbillo era più bassa di circa il 70 per cento di quella dei bambini non vaccinati, anche se il morbillo di per sé provocava non più del 10-15 per cento delle morti. I dati raccolti in Africa occidentale e altrove negli anni novanta hanno rafforzato anche la tesi che la vaccinazione BCG protegga, oltre che dalla tubercolosi, anche da un’ampia serie di altre infezioni.
Un nuovo ruolo per i macrofagi
Alla fine degli anni ottanta, il gruppo di ricerca guidato da Antonio Cassone all’Università di Perugia aveva ormai cominciato a capire quali erano le cellule responsabili di queste forme di protezione incrociata. L’infezione dei topi con ceppi attenuati di lievito non solo li proteggeva da lieviti più fortemente patogeni, ma li aiutava anche a combattere un batterio, Staphylococcus aureus, che con il lievito non ha alcun rapporto. In seguito, usando farmaci che disabilitano selettivamente l’uno o l’altro dei diversi tipi di cellule immunitarie, fu possibile attribuire l’effetto protettivo a un gruppo specifico di globuli bianchi del sangue, i macrofagi. E questa conclusione pose gli immunologi di fronte a un vero e proprio enigma.
Contrariamente ai linfociti B e T, che richiedono settimane per dispiegare le armi di alta precisione dell’immunità adattativa, i macrofagi sono una sorta di truppa d’assalto che si precipita sul campo di battaglia per colpire ogni tipo di avversari. I linfociti hanno recettori che rispondono a sottili dettagli molecolari di particolari agenti patogeni, ma i macrofagi, i linfociti natural killer (NK), i neutrofili e altre cellule del sistema immunitario innato hanno un approccio più grossolano e generico. Sono dotati infatti di gruppi di “recettori di riconoscimento di profili”, che riconoscono caratteristiche molecolari comuni a molti agenti patogeni o alle cellule danneggiate.
Date queste differenze, le cellule dell’immunità innata possono attaccare rapidamente intrusi e tessuti malati; e questo può far guadagnare tempo in attesa che i linfociti B e T del sistema immunitario adattativo si moltiplichino a formare un esercito che può lanciare, se necessario, un attacco più preciso e devastante. In seguito, qualcuna di queste ultime cellule resta in circolo nel sangue e nella linfa, pronta a tornare alla carica se il patogeno si ripresenta dopo mesi o anni. “Questa memoria assai forte è ciò che sta alla base dei nostri vaccini”, spiega Netea.
Poiché i linfociti B e T esistono solo nei vertebrati, gli scienziati credevano che anche la memoria immunitaria esistesse unicamente in quegli animali. Gli invertebrati sembravano cavarsela con le sole risposte immunitarie innate, visto che in genere non vivono a lungo e possono riprodursi abbastanza rapidamente da compensare le perdite dovute alle malattie.
E qui stava il mistero: se i macrofagi erano cellule incapaci di fare distinzioni, e facevano poco più che ingoiare i materiali estranei, come potevano essere responsabili di un effetto protettivo ampio e duraturo come quello che i ricercatori italiani avevano visto nei loro esperimenti? Sembrava assurdo, tanto più che i macrofagi vivono solo per qualche giorno o poche settimane.
Netea si rese conto che l’enigma di questa memoria immunitaria, che sfidava le percezione generale, era stato segnalato nella letteratura scientifica, ma non aveva trovato risposta. “Quando non comprendiamo una cosa. tendiamo a dimenticarla”, dice. “È per questo che alcuni di questi studi erano stati dimenticati. Ma erano importanti.”
Altri dati dagli invertebrati
Netea trovò anche prove che forme non ortodosse di memoria immunologica potevano presentarsi in situazioni ancor più inattese. In letteratura c’erano resoconti di fenomeni analoghi in piante e invertebrati, cioè in organismi privi di cellule immunitarie adattative.
Fra questi studi c’era un lavoro che ha segnato una pietra miliare, pubblicato su “Nature” nel 2003 dal biologo evoluzionistico Joachim Kurtz, allora al Max-Planck-Institut di limnologia, in Germania, e condotto con una studentessa di master, Karoline Franz. Kurtz e Franz avevano trovato che dei minuscoli crostacei chiamati copepodi combattevano le larve parassite di tenia con maggiore efficacia dopo ripetute esposizioni a esse. I risultati erano incostanti e poco coerenti, ma i ricercatori capirono una variabile importante era l’origine dei parassiti.
Era possibile, si chiese Kurtz, che i copepodi diventassero più resistenti alle tenie della stessa famiglia? All’epoca l’opinione prevalente era che i sistemi immunitari degli invertebrati fossero incapaci di simili distinzioni. E invece, in un nuovo ciclo di esperimenti, i copepodi resistevano chiaramente meglio a tenie sorelle fra loro che a tenie meno strettamente imparentate. “Andava contro il dogma”, dice Kurtz, ora a capo di un gruppo di ricerca all’Università di Münster.
Il lavoro del 2003, intitolato “Evidence for Memory in Invertebrate Immunity”, irritò qualche immunologo. “Dicevano che la ‘memoria immunitaria’ esiste solo quando c’è un sistema immunitario adattativo, nel senso che ci sono linfociti e anticorpi”, ricorda Kurtz. “Noi abbiamo risposto che in realtà il termine ‘memoria’ può anche avere un senso più ampio.”
Uno che può capire i suoi sentimenti è senz’altro Lewis Lanier, immunologo all’Università della California a San Francisco. Il suo laboratorio fece parlare di sé nel 2009, mostrando che nei topi le cellule NK possono apprendere dalle esperienze passate. Come il lavoro di Kurtz, l’articolo fu notato perché attribuiva proprietà analoghe alla memoria a delle semplici cellule immunitarie, prive dei recettori diversificati delle cellule B e T.
Alcuni ricercatori “hanno messo in discussione l’uso della parola ‘memoria’, ma tutti erano convinti che la cellula NK ricordasse il passato e funzionasse meglio quando incontrava il virus una seconda o una terza volta”, dice Lanier. “Su questo non avevano niente da ridire.”
Come funziona l’immunità addestrata
L’apparente eresia degli articoli sulle forme di memoria riscontrate nel sistema immunitario di animali invertebrati e nelle cellule NK di topo aprì la strada alla proposta formulata da Netea nel 2011 su “Cell Host & Microbe”, secondo cui il sistema immunitario innato esibisce una sorta di memoria delle infezioni passate, l’immunità addestrata. Un suo lavoro pubblicato l’anno dopo nei “Proceedings of the National Academy of Science USA” andava ancora più in là, mostrando che l’addestramento avviene in seguito a cambiamenti epigenetici.
Quando i macrofagi e altre cellule del sistema immunitario innato rispondono ai patogeni, il loro DNA subisce modificazioni epigenetiche che facilitano l’attivazione dei geni che istruiscono le cellule a sintetizzare recettori che riconoscono profili e proteine che combattono le malattie. Le alterazioni del DNA sono una specie di segnalibri che aiutano le cellule a ritrovare rapidamente quelle istruzioni genomiche per poi eseguirle, “non solo per l’infezione incontrata la prima volta ma per ogni infezione”, disse Netea.
Se il patogeno ritorna, così, la cellula è già pronta a rispondere più in fretta. Inoltre, quando le cellule del sistema immunitario innato si dividono, passano alla progenie questi segnalibri epigenetici sul DNA. È così che la memoria addestrata può permanere anche se si basa su cellule che sembrano vivere troppo poco: il ricordo della lotta contro il patogeno viene passato da una generazione di cellule all’altra.
Vari tipi di memoria immunitaria, alcuni dei quali presentano meccanismi simili a quelli dell’immunità addestrata, hanno probabilmente aiutato a sopravvivere anche gli invertebrati. E senza i primi studi sugli invertebrati “probabilmente nessuno si sarebbe messo a cercare effetti di memoria di questo genere nel sistema immunitario innato”, dice Kurtz. Ma i ricercatori che studiavano gli invertebrati “non conoscevano i meccanismi. Gli immunologi che lavorano sui vertebrati, una volta capito che questo fenomeno esiste, hanno tutti gli strumenti per studiarne i meccanismi assai più in dettaglio di quanto potremmo mai fare noi”.
Anche se in origine l’immunità addestrata è stata proposta per descrivere il fatto che le cellule del sistema immunitario ricordano i precedenti incontri con gli agenti patogeni, il fenomeno si sta presentando anche in cellule tradizionalmente considerate estranee al sistema immunitario. In uno studio sui topi del 2017, per esempio, si è visto che le ferite guarivano più rapidamente negli animali che in precedenza erano stati esposti ad agenti pro-infiammatori. A conferire la protezione erano le cellule staminali epiteliali.
Controlli e rischi
Sta inoltre emergendo la possibilità che l’immunità addestrata non si limiti a dare una protezione generica. Lo scorso giugno, su “Science”, Martin Oberbarnscheidt e Fadi Lakkis dell’Università di Pittsburgh, insieme a Xian Li dello Houston Methodist Research Institute e colleghi, hanno riferito che i macrofagi e alcuni altri globuli bianchi del sangue possono sviluppare forme di memoria per infezioni specificamente legate alle proteine del maggior complesso di istocompatibilità, che il sistema immunitario adattativo usa per riconoscere le cellule che fanno parte del corpo. È stato proposto che l’immunità addestrata possa essere un fattore fin qui trascurato nel rigetto dei trapianti di tessuto.
Questo e altri risultati segnalano un possibile lato negativo dell’immunità addestrata: alcuni scienziati ritengono che questa maggiore sensibilità del sistema immunitario innato possa accrescere la suscettibilità dell’organismo ad affezioni autoimmuni o iperproliferative, come il cancro. (Netea, d’altra parte, pensa che il vaccino BCG potrebbe offrire una certa protezione contro il cancro, quindi la questione resta incerta.)
Altri ricercatori suggeriscono che l’immunità addestrata potrebbe anche contribuire all’infiammazione cronica associata alla degenerazione neurale legata all’età, nonché alla malattia epatica cronica, al diabete di tipo 2 e ad altre malattie collegate alle abitudini dietetiche occidentali.
Al centro dell’attenzione, però, in questo momento c’è soprattutto il rapporto tra immunità addestrata e possibile protezione dal COVID-19 con il vaccino BCG. In agosto, Netea e un gruppo di ricercatori in Germania, Danimarca, Australia e Paesi Bassi hanno pubblicato i risultati delle loro ricerca su come il vaccino BCG induce l’immunità addestrata. Hanno visto che la vaccinazione provoca cambiamenti epigenetici non solo nei globuli bianchi del sangue ma anche nei loro progenitori, le cellule staminali ematopoietiche del midollo osseo che producono i relativi rimpiazzi.
Resta incerto se sia possibile arruolare l’immunità addestrata da BCG (o da altri vaccini) per rallentare la pandemia di COVID-19. Come hanno osservato Netea e Alberto Mantovani della Humanitas University in un commento apparso ai primi di settembre su “The New England Journal of Medicine”, l’uso del vaccino BCG per prevenire o trattare COVID-19 continua a non essere raccomandato se non nell’ambito delle sperimentazioni cliniche.
Sperimentazioni che sono in corso: migliaia di operatori sanitari negli Stati Uniti, nei Paesi Bassi, in Australia e altrove, si stanno facendo iniettare il vaccino per vedere se li renderà in qualche modo meno suscettibili al contagio. Il completamento dello studio, secondo i programmi, richiederà circa un anno e mezzo. A quel punto, forse saranno disponibili vaccini specifici contro il coronavirus; ma ogni protezione in più potrebbe comunque essere utile. Buono a sapersi, comunque, per le pandemie future.
Fonte: Le Scienze