La dichiarazione “burocratica” di una pandemia è il fischio di inizio di una partita dalla durata indefinita. Ci dobbiamo quindi aspettare una chiusura in cui non è tanto la scomparsa dei casi a portarci fuori dalla pandemia, quanto la fine della percezione di emergenza nelle popolazioni e nelle istituzioni. E a seconda della scala a cui guardiamo, questa fine arriverà in momenti diversi.

“Non ci siamo ancora, ma la fine della pandemia è in vista”, ha dichiarato il direttore della World Health Organization il 14 settembre 2022, dopo oltre 30 mesi di emergenza internazionale relativa a COVID-19. Alla vigilia di una nuova stagione invernale, con molte restrizioni che si sono allentate, la “fine” sembra un po’ più lontana. D’altra parte, nessuno ha ben chiaro quando potrebbe essere dichiarata la fine della pandemia, e come ha scritto nel 1989 Charles Rosenberg in uno dei più citati articoli sull’argomento, “le epidemie normalmente finiscono con una lamento, non con un botto”.

Certamente non possiamo aspettare di raggiungere gli zero casi di infezione nel mondo: l’abbiamo fatto solo con una malattia umana, il vaiolo (dichiarato estinto nel 1980), e con una veterinaria, la peste bovina (ufficialmente eradicata nel 2012). Nel caso di COVID-19, siamo ancora molto lontani da questo obiettivo numerico: i vaccini che abbiamo sono estremamente utili ed efficaci nell’abbattere i sintomi, ma non forniscono la cosiddetta immunità sterilizzante, che evita il contagio. Ci dobbiamo quindi aspettare una chiusura meno spettacolare, in cui non è tanto la scomparsa dei casi a portarci fuori dalla pandemia, quanto la fine della percezione di emergenza nelle popolazioni e nelle istituzioni.

A seconda della scala a cui guardiamo, questa fine arriverà in momenti diversi. Mentre nei singoli paesi – in particolare quelli dove i sistemi sanitari sono sufficientemente resistenti e i vaccini sono stati somministrati su una vasta percentuale della popolazione – l’obiettivo di uscire dalla fase emergenziale può essere considerato vicino, su scala globale ci vorrà invece ancora più tempo.

Va tuttavia considerata la variabile evolutiva: come ormai sappiamo, nuove varianti potrebbero diventare dominanti e far ripartire il contagio in maniera preoccupante. Si tratta quindi di tenere insieme gli aspetti sociali con la bio-ecologia del microrganismo. Da questo punto di vista, la storia ci fornisce esempi a cui guardare. La peste, presentatasi almeno in tre grandi ondate pandemiche, tra cui la seconda iniziata in Europa nel 1348 e nota come Peste Nera, è dovuta a un batterio che infetta una pulce che può parassitare alcuni animali (principalmente i roditori, compresi i ratti). Non è del tutto scomparsa – è ancora endemica in popolazioni di animali selvatici in America settentrionale e in Asia – ma tuttavia una serie di cambiamenti nelle nostre condizioni di vita hanno reso molto più difficile il contagio, e la disponibilità di farmaci efficaci e controlli sanitari rende di fatto estremamente improbabile il ripresentarsi di una pandemia.

La seconda pandemia è durata quattro secoli: anche quando non era presente in un’area, era una minaccia continua, un ospite atteso, che si muoveva lungo strade note. La sua fine – molto studiata dagli storici – è stata un progressivo allontanamento dalle zone più abitate, fino a essere eliminata dall’Europa occidentale. Sono stati diversi i fattori che hanno impedito il ripetersi di apocalissi epidemiche come quelle descritte dalle cronache trecentesche che raccontano, nelle parole del fiorentino Matteo Villani, “lo sterminio della generazione umana”. Si è ipotizzato per esempio che la progressiva sostituzione del ratto nero (Rattus rattus) con il ratto marrone delle fogne (Rattus norvegicus) più resistente all’infezione, abbia consentito il controllo della pandemia. Sicuramente, le misure di controllo (le quarantene e il miglioramento delle pratiche igieniche) introdotte anche prima di conoscere il microrganismo patogeno e i suoi vettori sono state in grado di limitare la diffusione della malattia.

Anche in questo caso è importante mettere le cose in prospettiva globale: la terza pandemia di peste, iniziata a metà Ottocento ha sostanzialmente risparmiato l’Europa grazie a una severissima sorveglianza sanitaria, ma ha causato oltre dieci milioni di decessi, soprattutto in Asia. È stata dichiarata finita solo nel 1960, quando si sono verificati meno di 200 casi. In Europa occidentale, la peste non era più comune da circa due secoli. Occasionali focolai importati erano stati prontamente limitati, ma ancora nel 1945 ci fu una piccola epidemia a Taranto, che portò a 15 decessi. L’infezione da Yersinia pestis non era più uno spauracchio incombente sulla popolazione, ma continuava a esserlo a livello istituzionale: la sorveglianza sanitaria marittima, che a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento era regolata da convenzioni internazionali, era infatti orientata soprattutto a fermare colera, peste e febbre gialla.

Nelle popolazioni, la percezione della fine di un’epidemia non coincide con la scomparsa completa della malattia, quanto con la sua normalizzazione. Le storiche Erica Charters e Kristin Heitman hanno evidenziato che il ritorno alla normalità era stato identificato già nel XIX secolo con l’azzeramento della mortalità in eccesso, una misura introdotta dal medico inglese John Graunt per studiare l’andamento della peste.

Ma l’avvento delle istituzioni globali, come l’Organizzazione mondiale della Sanità, ha aggiunto nuove dimensioni alle epidemie, dove “locale” e “globale” interagiscono per definire i livelli di allarme. Un focolaio epidemico può essere preoccupante per un solo paese, o al contrario richiedere misure di controllo internazionale, attivando sforzi di sorveglianza ben diversi: limitare il contagio può segnare la fine “normativa” della pandemia, ma ciò non impedisce che vi sia ancora trasmissione e mortalità dovuta alla patologia.

Di volta in volta, le epidemie di Ebola sono state dichiarate “Public Health Emergency of International Concern” quando esisteva il pericolo di contagio fuori controllo attraverso le frontiere. Una risposta tempestiva, con un sistema sanitario capace di trattare adeguatamente gli individui infetti e tracciare i contatti nella popolazione, è quindi oggi un fattore fondamentale per la fine di una pandemia, dopo che la dichiarazione “burocratica” di una pandemia è il fischio di inizio di una partita la cui durata è indefinita.

Altre pandemie si sono mosse – anche in tempi relativamente recenti – con dinamiche indipendenti dall’azione umana. Una malattia solitamente “normale” come l’influenza ha avuto fiammate improvvise e potenti. La terribile influenza spagnola, per esempio, è esplosa nel 1918 causando decine di milioni di decessi, e ripresentandosi di nuovo alla fine dell’inverno del 1919 e poi nel 1920. Non è scomparsa grazie alle misure sanitarie, ma dopo la strage del 1918 l’immunità raggiunta da gran parte della popolazione mondiale contro quello specifico ceppo virale lo ha reso meno patogenico, con numeri sempre meno preoccupanti, finché non è stato sostituito da ceppi influenzali diversi.

Come raccontano diversi studi che intrecciano storie locali e globali, già nel 1920 il morbo era più forte dove i due anni precedenti erano stati meno devastanti. Come scrive Francesco Cutolo ne L’Influenza Spagnola del 1918-1919 (I.S.R.Pt Editore, 2020), in Toscana “i casi mortali si verificarono soprattutto nei centri meno colpiti dall’ondata dell’autunno 1918” (p.264), e in pochissime settimane furono eliminate tutte le misure adottate – le stesse del 1918. Il virus H1N1, responsabile della carneficina, non è però scomparso, riemergendo nel 1977 (la cosiddetta “influenza russa”) e poi nel 2009-2010 con la “suina”. Rispetto all’antenato del 1918, questi virus hanno fatto molti meno danni, in virtù di conoscenze mediche sempre più efficaci nel limitarne gli effetti, soprattutto grazie ai vaccini disponibili e preparati annualmente grazie ai sistemi di sorveglianza internazionali.

Alla fine delle pandemie, tuttavia, non tutto torna come prima: se “le miserie da sopravegnente letizia sono terminate” come scriveva Boccaccio, le conseguenze mediche del contagio possono permanere a lungo. Prima dell’avvento dei vaccini Salk e Sabin, la diffusione della poliomielite nel Novecento in dimensioni precedentemente sconosciute ha lasciato in eredità un gran numero di persone con disabilità.

Ciò ha costretto la medicina e i sistemi sanitari a farsi carico di questi individui, con la messa a punto di trattamenti, tecnologie e prospettive etiche sul valore della vita umana. Lo sviluppo di costosi reparti di terapia intensiva, delle macchine per aiutare la respirazione (fino ai “polmoni d’acciaio”), nonché della medicina della riabilitazione sono anche le conseguenze dell’epidemia di polio nei paesi occidentali. Secondo Agnese Collino – nel suo libro La malattia da dieci centesimi (Codice Edizioni, 2021) – fa parte dell’eredità della polio anche la visibilità e la consapevolezza collettiva della disabilità fisica, incorporata per esempio nelle norme di accessibilità degli edifici e nei sistemi di welfare che consentono di prendersi cura dei disabili (come la ben nota legge 104 del 1992).

Traccia delle pandemie terminate, si trovano quindi ovunque. Possiamo guardare al corpo delle persone e trovare l’impronta della selezione operata dalle malattie epidemiche, o le menomazioni fisiche lasciate dall’infezione: nel caso della pandemia odierna, ci vorrà ancora un po’ di tempo per capire per esempio gli effetti e la rilevanza del “long COVID”. Se invece portiamo lo sguardo sulle istituzioni locali e globali, vediamo lo sviluppo di sistemi di sorveglianza sempre più sofisticati (dalle quarantene e patenti sanitarie della prima età moderna fino ai passaporti vaccinali odierni), frutto di negoziati internazionali e di politiche interne dei diversi governi, che però mostrano la loro fragilità proprio nei momenti emergenziali. Gli interessi di parte possono in qualunque momento minare gli sforzi collettivi – per esempio impedendo la circolazione di farmaci e tecnologie mediche – indebolendo la collaborazione che impedisce a minacce locali di diventare globali.

Di mezzo troviamo la medicina, che cerca di fornire all’individuo strumenti di prevenzione e trattamenti, e dovrebbe orientare – con i numeri dell’epidemiologia e della sanità pubblica – le decisioni politiche rilevanti. Nel mondo di oggi e del prossimo futuro, iperconnesso e basato sulla conoscenza, è il feedback virtuoso tra questi tre livelli che può portarci fuori da una pandemia e limitare l’impatto della successiva, qualunque forma essa prenderà.

 

Fonte: Le Scienze

LEGGI TUTTE LE ALTRE NEWS