La lezione di COVID-19 che non vogliamo imparare

Articolo del 29 Agosto 2021

I ricercatori avvertono: i piani elaborati per fare fronte alla prossima epidemia globale non tengono nel debito conto errori e limiti che hanno contribuito ai ritardi e alle difficoltà attuali. Uno scenario in cui politiche sanitarie, comunicazione della scienza e diplomazia internazionale si intrecciano.

Mentre i paesi del mondo faticano ancora a mettere sotto controllo la pandemia di COVID-19, gli scienziati avvertono che, inevitabilmente, altri virus letali torneranno a emergere in nuovi focolai epidemici. La storia parla chiaro: in poco più di un secolo siamo stati colpiti da sei distinte pandemie o epidemie di influenza; i virus della malattia di Ebola sono passati dagli animali agli esseri umani circa 25 volte nel corso degli ultimi cinque decenni; e non meno di sette coronavirus, fra cui SARS-CoV-2, hanno seminato malattia e morte.

Aspettarsi di poter evitare nuovi passaggi dagli animali all’essere umano è realistico più o meno quanto pensare di impedire ai fulmini di innescare incendi nei boschi. “Prevenire le pandemie potrebbe essere impossibile, quindi la chiave è farsi trovare preparati”, dice Youngmee Jee, a capo dell’Institut Pasteur in Corea del Sud.

Epidemiologi e ricercatori specializzati in biosicurezza e pubblica sanità lavorano da almeno vent’anni a delineare piani per prepararsi a queste emergenze. Le attività essenziali che ne fanno parte consistono a grandi linee in: sorveglianza per individuare i patogeni; raccolta di dati e modellistica per vedere come si diffondono; miglioramento della capacità di direzione e comunicazione nella pubblica sanità; e sviluppo di terapie e vaccini.

Governi e finanziatori privati hanno devoluto milioni di dollari alla costruzione di queste capacità; i ricercatori hanno pazientemente messo alla prova e valutato i relativi piani per identificarne e colmarne le lacune. Eppure, COVID-19 ha dimostrato che il mondo era assai meno preparato di quanto immaginato dai più. E quello che innervosisce alcuni scienziati è che le discussioni in corso su come difendersi dalla prossima pandemia sono ancora inchiodate alle stesse strategie già adottate finora.

“Non possiamo limitarci a riprendere ricette che non hanno avuto successo”, dice David Fidler, ricercatore che lavora sulle politiche sanitarie globali al Council on Foreign Relations, un “pensatoio” (thinktank) di Washington DC. “Si continua a parlare di rifare le stesse cose, invece di domandarsi: perché tutto questo è andato all’aria?”.

Mentre stanno prendendo forma nuovi piani per affrontare le emergenze in molte parti del mondo, “Nature” ha chiesto a più di una dozzina di ricercatori quali siano le difficoltà che ostacolano la realizzazione di un sistema migliore per identificare e controllare i nuovi focolai epidemici, e che cosa deve cambiare.

Perché non disponiamo di sistemi di allerta migliori?
“Tutto parte da una sorveglianza sanitaria più accorta. Chi non guarda non vede. E chi non vede, risponde sempre troppo tardi”, scrive Jeremy Farrar, ricercatore nel campo delle malattie infettive e direttore dell’ente filantropico britannico Wellcome Trust, nel suo nuovo libro Spike: The Virus vs the People – the Inside Story. Troppo tardi, purtroppo, è la norma. La più vasta epidemia di Ebola mai avvenuta si è diffusa per più di un mese prima che qualcuno diagnosticasse la malattia. Analogamente, secondo l’opinione concorde degli scienziati, in Cina per parecchie settimane sono state infettate da SARS-CoV-2 molte persone prima che i responsabili riferissero di una misteriosa polmonite a Wuhan.

L’insufficienza dei sistemi di rilevazione preoccupa i ricercatori perché i focolai diventano esponenzialmente più difficili da contenere una volta che si siano allargati al di là di un’area ristretta. Per i virus influenzali il mondo ha riconosciuto questo pericolo già da decenni. Nel 1952, una delle prime mosse dell’allora nascente Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) fu la realizzazione del Global Influenza Surveillance and Response System, che da allora è servito da sistema d’allarme precoce per i rischi posti dai virus influenzali, come H5N1 (l’influenza aviaria) e ha avvisato i ricercatori dell’aumento della resistenza a certi farmaci antivirali.

I patogeni ignoti o inattesi sono più difficili da sorvegliare, ma il progresso delle tecniche di sequenziamento genico ha reso possibile indagini ad ampio spettro. A Ede, in Nigeria, per esempio, gli scienziati dell’African Center of Excellence for Genomics of Infectious Diseases cercano DNA e RNA estranei nei campioni di sangue di pazienti con febbre alta ma negativi ai test per le malattie infettive più comuni nella regione. In questo modo nel 2017 hanno scoperto un focolaio non riconosciuto di febbre gialla. “È un ottimo metodo per trovare cose ignote”, spiega Judith Oguzie, infettivologa e ricercatrice del centro.

A Ede, in Nigeria, due biologi analizzano campioni di coronavirus come parte di una più ampia sorveglianza sui patogeni

Secondo alcuni ricercatori, questo tipo di sorveglianza andrebbe estesa a chi lavora nelle foreste, a contatto con animali domestici e nei laboratori di virologia; dovunque, insomma, la gente possa venire a stretto contatto con i patogeni. Olyver Pybus, codirettore del programma di genomica delle pandemie dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, aggiunge che le nuove tecnologie genomiche possono permettere ai ricercatori di rilevare i virus nelle acque reflue o nell’aria. E, una volta scoppiato un focolaio, questi stessi strumenti possono aiutarli a determinare quanto il virus si sia già diffuso in modo inosservato.

Il tracciamento ad alta tecnologia può fornire molti dati ma secondo Mosoka Fallah, presidente di Refuge Place International, a Monrovia, in Liberia, prima di tutto si deve migliorare la sorveglianza di base. Spesso il sostegno dei donatori si concretizza in singoli progetti, invece che in un processo continuativo, e questo risulta controproducente per le stesse finalità del progetto. Un esempio: la Liberia ha ricevuto più di 19 milioni di dollari da vari donatori – fra cui il governo statunitense e la Banca mondiale – per rafforzare il suo sistema sanitario e di sorveglianza dopo l’epidemia di Ebola del 2014-2016; ma molti dei fondi sono ormai esauriti. Nel 2019, si è avuta una forte carenza di materiale sanitario in tutto il paese, e molti ricercatori e operatori sanitari non hanno ricevuto lo stipendio.

In un grande ospedale della Bong County, in Liberia, il responsabile distrettuale della sorveglianza sanitaria, J. Henry Capehart, ha spiegato che il suo gruppo non ha potuto monitorare malattie infettive endemiche come morbillo e febbre di Lassa perché mancavano le provette per raccogliere i campioni di sangue. Jefferson K. Sibley, direttore medico dell’ospedale, ha detto che recentemente un tecnico di laboratorio è morto di febbre di Lassa perché l’ospedale non aveva il farmaco antivirale con cui curarlo. “È terribile”, ha detto Sibley. Ci sono persone che hanno smesso di chiedere di essere curate perché la struttura non è in grado di aiutarle, e questo vuol dire anche che le loro malattie non sono state rilevate.

L’Istituto per lo studio e il controllo della febbre di Lassa a Irrua, in Nigeria 

Secondo il Global Health Security Index del 2019, la Liberia era fra gli oltre 70 paesi con gravi carenze nella capacità di individuare le epidemie emergenti, e fra i 130 circa i cui sistemi sarebbero stati inadeguati nel caso in cui ne scoppiasse una. In questi luoghi, dice Fallah, i donatori che investono in sorveglianza dovrebbero rafforzare anche tutto il sistema sanitario, altrimenti gli sforzi continueranno a essere vani.

In che modo far sì che dati migliori portino a decisioni più valide?
Gli epidemiologi si accorgono delle malattie emergenti facendo un gran numero di calcoli ed elaborazioni, e la qualità dei loro risultati dipende dall’accesso ai dati grezzi. Il giorno immediatamente successivo alla sua entrata in carica, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è impegnato a modernizzare il sistema di raccolta ed elaborazione dati della pubblica sanità del paese, creando un National Center for Epidemic Forecasting and Outbreak Analytics. La proposta, sostenuta dai 500 milioni di dollari stanziati attraverso l’America Rescue Plan Act del 2021, è in linea con i precedenti suggerimenti di epidemiologi come Caitlin Rivers del Johns Hopkins Center for Health Security di Baltimora, in Maryland, che dice che a gennaio e febbraio 2020 il mondo ha perso tempo prezioso, quando lei e i suoi colleghi si arrovellavano a ricavare un senso dai brandelli di dati su COVID-19 che riuscivano a cogliere da rapporti ufficiali, articoli di giornali e post sui social media.

Dati più validi avrebbero aiutato gli epidemiologi, per esempio, a determinare più in fretta e con maggior sicurezza che SARS-CoV-2 si trasmette attraverso l’aria e può essere trasmesso da persone asintomatiche, dice Rivers. Questo avrebbe spinto gli scienziati a proporre e sostenere con maggiore tempestività misure come test di massa e mascherine. Anche le previsioni ottenute con modelli matematici avrebbero potuto essere più precise, aggiunge Jennifer Nuzzo, epidemiologa al Johns Hopkins Center for Health Security. “Facevamo eleganti elaborazioni matematiche partendo da dati che facevano schifo”, spiega.

Il centro previsionale voluto da Biden partirà concentrandosi sugli Stati Uniti, in cui la raccolta dei dati è stata disomogenea e approssimativa per tutto il 2020. Uno dei problemi derivava dal fatto che le regole che riguardano la privacy dei pazienti impedivano a ospedali e dipartimenti di sanità di condividere i dati con i ricercatori che volevano analizzarli. Rivers si attende che il centro stabilisca norme standard sulla condivisione responsabile dei dati. Il governo del Regno Unito, intanto, in partenariato con OMS e Wellcome, ha lanciato a maggio la rete di sorveglianza Global Pandemic Radar per seguire gli episodi epidemici in tutto il mondo, compresa la diffusione delle varianti di SARS-CoV-2. La Rockefeller Foundation, a New York, sta anch’essa sviluppando una piattaforma per i dati pandemici. Rick Bright, già a capo della Biological Advanced Research and Development Agency del governo statunitense, che è alla testa del progetto della Rockefeller Foundation, dice che l’essere al di fuori del governo è un punto di forza. “Un ente non governativo e non politico può essere in grado di sigillare e proteggere i dati assicurando allo stesso tempo che tutto il mondo abbia accesso alle stesse informazioni”, sostiene Bright.

Queste iniziative dovrebbero migliorare la situazione, ma comunque non possono far nascere dati dal nulla in posti dove le strutture di laboratorio per i test diagnostici sono insufficienti; ed è comunque possibile che non riescano a ottenere informazioni da fonti che non intendono condividerle. I paesi con un regime autoritario hanno alle spalle una storia di soppressione delle notizie su focolai epidemici che vanno dall’influenza H1N1 al colera.

Molti hanno criticato la Cina per essere stata assai poco aperta all’inizio della pandemia, ma non è stata la sola. Per esempio, molte contee degli Stati Uniti hanno rifiutato di condividere con i Centers for Disease Control and Prevention i dettagli sui focolai nelle aziende e nelle prigioni. In India, i giornalisti hanno denunciato il fatto che i funzionari non stavano condividendo tempestivamente i numeri dei casi. “La tecnologia può essere di grande beneficio, ma bisogna stare attenti a non avere l’ingenuità di pensare che possa risolvere i problemi dove non abbondano strutture e competenze di base, e dove non c’è apertura”, dice Arvind Subramanian, economista alla Brown University a Providence, a Rhode Island, e uno degli autori di un’indagine in cui si stima che l’India abbia mancato di rendere noti almeno tre milioni di decessi dall’inizio della pandemia a giugno 2021.

A Mumbai, in India, un furgone mobile è stato schierato per lo screening del coronavirus. Il personale sanitario rileva la temperatura corporea ed effettua il tampone

Nuzzo dice che per ottenere dati grezzi di migliore qualità, ricercatori e responsabili politici dovrebbero pensare a ricorrere a incentivi. Per esempio, la maggior parte dei governi del mondo comunica le condizioni atmosferiche perché i mercati agricoli e il commercio si affidano alle previsioni meteorologiche. E negli Stati Uniti i leader delle comunità locali spingono lle persone a compilare i moduli del censimento perché da questo può dipendere l’assegnazione delle risorse, spiega.

Un incentivo potrebbe essere assicurare che i gruppi che condividono i dati abbiano poi accesso alle tecnologie risultanti, dice Suerie Moon, ricercatrice nel campo della sanità globale al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra, in Svizzera. Che ricorda come l’Indonesia non abbia consegnato i suoi campioni influenzali nel 2006, dopo che al paese era stato negato l’accesso ai vaccini sviluppati a partire dai campioni prelevati nel paese. L’importanza della questione è cresciuta fino alla stipula dell’accordo quadro internazionale del 2011 per la condivisione dei campioni influenzali.

Non ci sono accordi del genere per SARS-CoV-2, e sono emersi segnali di scontento. Parecchi ricercatori in Africa e in Sud America hanno protestato contro la richiesta di concedere ai paesi ricchi un accesso senza restrizioni ai loro dati sulle varianti emergenti, mentre i loro paesi hanno ben poco accesso, quando l’hanno, ai vaccini contro COVID-19.

Moon dice che la condivisione dei dati epidemiologici e genomici degli episodi epidemici è una questione politica che va negoziata ad alto livello, analogamente a quanto è stato fatto per l’accordo quadro sull’influenza del 2011 e ad altri trattati multilaterali. Le discussioni sono in corso, dice Moon, ma non si è ancora cominciato ad affrontare le questioni chiave, come quella di ciò che l’OMS è autorizzato a fare nel caso in cui un paese sia sospettato di negare informazioni.

Dove va a infrangersi la comunicazione?
I responsabili sanitari di Taiwan e della Corea del Sud si sono preoccupati per COVID-19 fin dall’inizio. Ricordando l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) del 2003, i funzionari hanno raccomandato l’uso delle mascherine e ne hanno accelerato la produzione già quando sono emersi i dettagli dei primi casi, dice Chien-Jen Cheng, ricercatore biomedico e vicepresidente di Taiwan dal 2016 al 2020. In entrambi i paesi, le agenzie governative si sono riunite quasi quotidianamente per trovare un accordo su come aggiornare il pubblico in modo coerente.

Chen ha costruito i messaggi con attenzione, sottolineando che le raccomandazioni intese a ostacolare il virus avevano il fine di mantenere aperte scuole e aziende. “Abbiamo continuato a dire: Facciamo questo perché non vogliamo chiudere tutto”, spiega Chen. E anche il tempo ha dato loro una mano. “La gente ci ha dato sempre più fiducia via via che ha visto quanto se la cavavano male altri paesi.” Quanto alle cattive informazioni, Chen dice che c’era un’apposita squadra incaricata di andare a caccia di voci e di sfatarle, settimanalmente, su un sito web dedicato.

Sono esperienze in netto contrasto con altri paesi in cui COVID-19 – e tanti messaggi fra loro contrastanti – si sono diffusi in modo incontrollato. Negli Stati Uniti, i responsabili sanitari non hanno raccomandato l’uso delle mascherine fino ad aprile 2020, ma poi l’allora presidente Donald Trump ha minato quella raccomandazione rifiutandosi di indossarla egli stesso. In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro ha contraddetto gli scienziati del suo paese banalizzando COVID-19 e definendolo “piccola influenza”. E ha anche cacciato due ministri della sanità che proponevano misure di controllo come il distanziamento sociale.

Nel maggio 2020, l’OMS ha approvato una risoluzione che impegnava i paesi membri a combattere, al proprio interno, le informazioni fasulle. Un comitato di esperti ha poi elencato alcuni approcci chiave con cui perseguire questo fine nel giugno dello scorso anno, fra cui lavorare con esperti in gestione e presentazione dei dati e con le aziende dei social media per amplificare la capacità dei messaggi credibili di arrivare al pubblico. Facebook ha rimosso dalla sua piattaforma una parte delle disinformazioni, e la rinnovata attenzione in materia ha spinto le aziende a fare qualche passo in più, aggiungendo ai post che trattano di COVID-19 delle avvertenze e dei link che portano a informazioni fornite dagli organi sanitari.

Ma dare alle persone un link serve a poco quando già da prima nutriva pregiudizi contro l’establishment scientifico, le autorità sanitarie o il governo, dice Nahid Bhadelia, fondatrice e direttrice del Center for Emerging Infectious Diseases Policy and Research dell’Università di Boston, aperto nel maggio scorso. Nel centro, i ricercatori elaboreranno linee guida basate sulle prove scientifiche, e le comunicheranno in audizioni al Congresso e ricorrendo ad alleanze in via di costruzione con varie organizzazioni di base.

Bhadelia dice che il centro finanzierà ricerche su come aiutare le persone a smantellare la disinformazione on line, fra cui gli articoli e i video che si presentano come scienza ma contengono affermazioni false ed errori evidenti. “La rivendicazione di credenziali pseudo-accademiche per le teorie complottistiche sta appena cominciando a nascere; ma non potrà che peggiorare nella prossima pandemia”, dice.

Ma Peter Hotez, attivo nella comunicazione a supporto della vaccinazione e scienziato al Baylor College of Medicine di Houston, avverte che gli scienziati, da soli, non hanno gli strumenti per contrastare i sentimenti alimentati da militanti, politici e mezzi di comunicazione di estrema destra. “Io partecipo a una marea di chiamate su Zoom con altri scienziati per affinare i nostri messaggi, ma restano un messaggio in bottiglia lanciato nell’Oceano Atlantico”, dice. “Fino a che nelle agenzie governative non ci sarà un forte impegno per abbattere l’impero dell’anti-scienza – e dire chiaramente che mette in pericolo la gente – il messaggio non verrà ascoltato.”

Come dare più forza alle misure di pubblica sanità?
In tutto il corso della pandemia, gli esperti in sanità pubblica e gli infettivologi hanno insistito con i leader politici affinché imponessero misure adatte a ostacolare COVID-19, spesso invano. Bhadelia dice che una soluzione al problema sarebbe dare maggior potere ai dipartimenti di sanità durante le crisi sanitarie, oltre che maggiori e più stabili finanziamenti. In molti posti, però, sta accadendo l’opposto.

Stando a un rapporto della National Association of County and City Health Officials degli Stati Uniti di Washington, uscito a maggio, almeno 15 Stati degli Stati Uniti hanno approvato o stanno prendendo in considerazione leggi che limitino l’autorità legale delle agenzie di sanità pubblica.

Un altro aspetto importante è che le persone non possono seguire raccomandazioni di sanità pubblica che compromettano le loro possibilità di assicurare cibo e rifugio a se stesse e alle proprie famiglie. Nella pandemia, le forti diseguaglianze hanno portato a disparità nel modo in cui la malattia ha colpito la popolazione generale e le persone che percepiscono salari bassi, lavora o vivono in ambienti affollati e sono prive di adeguate garanzie sul posto di lavoro. Uno studio, per esempio, ha trovato un’associazione tra disuguaglianze di reddito da un lato e casi di COVID-19 e decessi dall’altro nelle varie contee degli Stati Uniti.

Affrontare le disuaglianza – o almeno incorporare forti misure per correggere la mancanza di equità nel corso delle emergenze sanitarie – dovrebbe essere un elemento cruciale dei piani di preparazione alle pandemie, ma è raro che in essi siano inserite soluzioni del genere, dice Nuzzo. “Tutti riconoscono l’importanza di questo aspetto, ma lo vedono come troppo difficile da risolvere”, aggiunge. “Non possiamo uscire da COVID-19 e astenerci dal porre la questione dell’equità come primaria e centrale.”

Come far arrivare vaccini e farmaci a chi ne ha bisogno?
Le aziende farmaceutiche hanno sviluppato vari vaccini a tempo di record nel corso della pandemia di COVID-19, e i ricercatori dicono che avrebbero potuto farlo anche più rapidamente se le prime fasi del lavoro avessero ricevuto maggiori finanziamenti. In prima fila c’è la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), che sta raccogliendo il denaro per una strategia quinquennale dell’importo di 3,5 miliardi di dollari, in cui è incluso lo sviluppo nel giro di 100 giorni di vaccini per le nuove malattie. Un’altra proposta, di Anthony Fauci, direttore del National Insititute of Allergy and Infectious Diseases degli Stati Uniti a Bethesda, è realizzare vari “prototipi” di vaccino contro una ventina di famiglie di virus, con lo scopo di accelerarne lo sviluppo in caso di emergenza.

Quando si affronta l’esigenza di assicurare che nuovi farmaci e vaccini siano distribuiti rapidamente in tutto il mondo, tuttavia, si nota che i governi hanno compiuto ben pochi progressi. Un fatto che oggi appare evidente: nei paesi a basso reddito sono state fin qui vaccinate – sette mesi dopo la concessione delle autorizzazioni per i primi vaccini – meno del due per cento delle persone.

Priti Krishtel, avvocata specializzata in giustizia sanitaria e cofondatrice di I-MAK, un organismo senza fini di lucro con sede a New York, dice che meccanismi che migliorino la situazione potrebbero far da modello per le pandemie future. I governi potrebbero accordarsi per sospendere temporaneamente i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini durante le pandemie, in modo che altri produttori possano contribuire ad accrescere le forniture, oppure si potrebbero stabilire norme che assicurino che i vaccini sviluppati in larga misura con fondi pubblici possano essere ampiamente concessi in licenza durante un’emergenza.

Questo tipo di accordi, tuttavia, richiede l’adesione di molti paesi. Lo stesso vale per sorveglianza, la condivisione dei dati e altri piani di preparazione alle emergenze. Si tratta di un vero ostacolo, dice Stephen Morrison, uno dei vicepresidenti del Center for Strategic and International Studies di Washington, secondo il quale è essenziale riflettere su come i nazionalismi, la tensione tra Stati Uniti e Cina e un attacco frontale contro l’OMS abbiano paralizzato i tentativi di risposta globale a COVID-19 nel 2020. “Abbiamo vissuto la massima catastrofe globale dai tempi dalla seconda guerra mondiale, eppure non c’è stata un’attività diplomatica ad alto livello”, dice.

Per fare passi avanti, sostiene, i leader devono ripristinare un certo livello di cooperazione tra Stati Uniti e Cina sul tema della preparazione contro le epidemie, in modo che i piani possano ottenere ampio sostegno. Fidler è d’accordo e aggiunge che una più solida alleanza tra paesi a basso e medio reddito darebbe loro un maggior potere contrattuale sulla scena internazionale. La realtà politica è preoccupante, dice. “Credo che un sacco di gente, nel campo della sanità globale, sia rimasta al passato, e non voglia riconoscere il fatto che oggi ci troviamo in un sistema internazionale assai diverso, più difficile e più pericoloso”, aggiunge Fidler. “La sanità globale deve operare in questa situazione, senza far finta che non esista.”

Malgrado la complessità, lui e altri mantengono le speranze. Molti dei leader mondiali riconoscono oggi le devastazioni causate dalle crisi sanitarie e sono motivati a far qualcosa in merito. Per esempio, un rapporto del giugno scorso stilato da un comitato del G20 chiede un finanziamento internazionale di 75 miliardi di dollari per prevenire le pandemie e prepararsi a esse: il doppio di quanto si spende adesso. “C’è stato un cambiamento a livello delle coscienze”, dice Morrison. “Le persone hanno davanti questo spettacolo di orrore, e si rendono conto che qualcosa deve cambiare.”

 

Fonte: Le Scienze

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