Le erbacce possono diventare risorsa

Articolo del 08 Marzo 2021

Le piante bio-indicatrici possono essere alleate preziose per conoscere il suolo e capire come lavorarlo. In pochi minuti, grazie alle piante spontanee, è possibile conoscere la storia e lo stato di un terreno. Per esempio se c’è molto ferro, poca acqua, se il suolo è sterile, se hanno utilizzato glifosato, se c’è abbondanza di azoto o se è passata una mandria di buoi. E così si può anche capire come gestirlo al meglio.

Sotto i nostri piedi c’è un universo meraviglioso che quotidianamente comunica con noi in tantissimi modi e luoghi. Microbi, batteri, funghi, piante spontanee, insetti, radici… Il suolo pullula di vita (o almeno dovrebbe) e questa vita non vede l’ora di farci sapere come sta e che cosa fa. Proprio così. Imparare a conoscere il linguaggio della terra è fondamentale per far sì che tutti gli esseri che la popolano diventino nostri preziosi alleati, e non solo in ambito agricolo. Erbacce in primis.

Sì, proprio loro. Quelle che con disprezzo strappiamo dai nostri orti e che guardiamo con sdegno sui cigli delle strade. In realtà si tratta di sentinelle valorose, indicatrici attente della salute dei suoli e delle condizioni dell’ambiente che ci ospita. Ne abbiamo parlato con Emile Jacquet, contadino e consulente agricolo, esperto in agricoltura naturale.

Le specie vegetali spontanee

“A differenza di ciò che viene interrato dall’uomo, molte specie vegetali sorgono però spontaneamente nei terreni. Il loro successo e la loro propagazione dipende dalle condizioni fisiche e chimiche del suolo – spiega Jacquet – Per esempio: se un suolo argilloso è compattato nasceranno alcuni tipi di erbe, se invece è sabbioso altre. In caso di eccesso di materia organica di origine animale germoglieranno alcuni semi, se viceversa la materia organica è di origine vegetale saranno altri. Lo stesso discorso vale per gli elementi nutritivi presenti (azoto, potassio, ferro etc.), la loro carenza o il loro eccesso. E ancora: il PH, il tipo di roccia e la salinazione dei terreni. Ma non solo. Anche i trattamenti chimici fatti in un luogo influiscono sulla crescita o meno di determinate specie. Alcune di loro, ad esempio, sono diventate resistenti a determinati pesticidi e la loro è quindi indice di inquinamento artificiale del suolo”.

Imparare a analizzare tutti questi fattori e a riconoscere quali sono le condizioni che consentono o meno a una determinata tipologia di pianta spontanea di nascere e crescere, ci permetterà di fare una diagnosi del terreno in questione. “Proprio così. Addio a laboratori e campioni inviati per analisi (mai davvero precise e esaustive), benvenute piante bio-indicatrici! Grazie a loro sarà molto più facile capire come ripristinare la fertilità del suolo e migliorare la sua produttività”.

Partiamo dall’ABC

Ma andiamo con ordine e partiamo dall’ABC. Ovvero dalla prima domanda da porci davanti a un terreno: assomigli di più a un bosco o a un deserto? Questi, per Jacquet, sono i due estremi del mondo vegetale: l’abbondanza di vita e l’assenza di vita. In mezzo un ventaglio di sfumature che stabilirà con che suolo abbiamo a che fare.

“I nostri campi arati sono praticamente dei deserti – afferma Jacquet – e così li dobbiamo trattare. Dopo più arature il terreno è esposto al sole, al vento, alla pioggia, i funghi spariscono e la sua struttura viene denaturata. Proprio come una steppa questo suolo comincia ad erodersi immediatamente. Ça va sans dire, queste non sono le condizioni ideali per far crescere un albero”.

All’inizio avremo quindi erbe spontanee, per lo più annuali. I loro semi sono naturalmente presenti in quantità in tutti i terreni e le loro basse pretese di acqua e di nutrimenti le rendono perfette per conquistare un campo nudo e ben poco ospitale. “Le chiamano infestanti ma noi preferiamo pioniere – continua – Testarde e coraggiose, generano semi in grandi quantità. Una volta che questi sono distribuiti dal vento, le loro foglie e radici si decompongono arricchendo il suolo di materia organica che migliorerà la vita dei semi futuri. Un filo tira l’altro e, a meno che l’agricoltore non decida di spargere nuovamente una bella dose di erbicida, in poco tempo ci troveremo a passeggiare su un bel prato all’inglese. Luogo ideale per una bella pascolata”.

Animali erbivori e piante perenni

Questi terreni infatti sono spazi invitanti per gli erbivori che, in cambio di un buon pasto, ci lasceranno del ricco letame, ideale per velocizzare la creazione di humus, cambiare le condizioni del terreno e permettere a nuovi tipi di erbe di crescere.

Dopo vari anni, se le piogge non sono mai troppo distanti l’una dall’altra, si creano così le condizioni giuste per la nascita di erbe spontanee perenni “quelle cioè che vivono più di 12 mesi o che hanno la capacità di rinascere ogni anno dalle stesse radici – prosegue Jacquet – Più resistenti rispetto alle erbe annuali, le erbe perenni sopportano meglio i periodi di siccità. Le loro radici permettono alle piogge di penetrare più profondamente nel terreno e di colonizzarlo, soppiantando di fatto le antenate”.

E gli arbusti

Le specie di erbe perenni sono più complesse e più fibrose, perciò quando le loro foglie muoiono apportano al suolo una fertilità leggermente più completa, in particolar modo una più grande quantità di carbonio. Non ancora abbastanza per un albero, ma sufficiente per un arbusto.

“Ecco quindi spuntare rovi, rose canine, ginepri e tanti altri amanti del sole. Arbusti probabilmente spinosi per difendersi dagli erbivori, ma invitanti per i primi uccelli – racconta Emile – Alcuni di questi arbusti perdono tutte le foglie in certi periodi dell’anno ma la massa dei loro rami fa da cappello al terreno sottostante impedendo al sole di asciugarlo. Intanto le radici affondano nella terra per cercare acqua e nutrimenti. Un lavoro di squadra che permette al suolo di restare sempre umido e ricco di humus. Qui il ratio carbonio/azoto si equilibra nel suolo e grazie a questo anche il ratio batterie/funghi.

Il ciclo di rigenerazione dei suoli accelera e l’ambiente si fa pronto per l’arrivo dei primi alberi. Anche questi pionieri. Precursori di quello che un giorno sarà un folto bosco”.

L’importanza delle radici

Per ora però resta un gruppetto di valorosi che, probabilmente, non supererà il secolo di vita. Il loro ruolo è comunque fondamentale: sono infatti le loro radici a limitare i rischi di frane e di erosione dovute all’acqua, la loro chioma a costringere gli arbusti a spostarsi e a colonizzare nuovi spazi di terreno e i loro rami a pompare il carbonio presente nell’aria, così da conservarlo nelle cellule e trasformarlo poi in humus, dimora ideale dei primi funghi commestibili per l’uomo.

“All’interno di questa prima foresta cominceranno quindi a crescere altri tipi di alberi, molto più complessi, alti longevi e resistenti. Ma dobbiamo attendere ancora circa 250 anni di creazione di humus per veder apparire le prime specie di piante che comporranno la foresta perenne. Composta da specie vegetali che possono arrivare a 1000 e più anni. Riparo per tanti esseri viventi, dall’erbivoro più grande al fungo il più microscopico, partecipano attivamente al grande ciclo dell’ossigeno e delle piogge – conclude Jacquet – Maestose forme di vita, espressione finale del nostro Pianeta”.

Ma appunto, per poterle ammirare, si deve pazientare. Almeno 700 anni. Senza disturbare. E visto che tra di noi in pochi arriveranno a certe venerande età, meglio preservare l’esistente.

 

Fonte: TerraNuova.it

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