Terza ondata a fine gennaio: ecco perché sarebbe impossibile fermarla.

Articolo del 15 Dicembre 2020

Le misure di contenimento hanno dato risultati parziali: ai valori assoluti attuali, troppo elevati, si uniscono i rischi legati al picco influenzale, alla stagione fredda e alla ripresa della mobilità legata alle scuole.

Nuovi casi ancora troppo alti; ospedali sopra le soglie di allerta; effetti parziali delle misure di mitigazione; picco dell’influenza; i farmaci su cui contavamo messi fuori gioco dalle ultime verifiche; il vaccino che richiederà molti mesi prima di regalare l’immunità di gregge. Una terza ondata dell’epidemia sarebbe ingestibile e metterebbe definitivamente in ginocchio il nostro sistema sanitario, oltre all’economia. Lasciarla correre, o essere costretti a farlo dall’impossibilità di agire, implicherebbe il pagamento di un prezzo altissimo in termini di vite umane.

Per questo motivo deve essere assolutamente evitata. Al momento non disponiamo delle armi necessarie per stroncarla definitivamente: possiamo solo combatterla con le misure di mitigazione che stiamo (a singhiozzo) adottando da mesi. Perfino i farmaci sui quali erano state riposte molte speranze, a partire dall’idrossiclorochina e dall’antivirale Remdesivir, sono stati “sconsigliati” dall’Oms o bloccati, in tutto o in parte, dalle agenzie regolatorie: togliendo certezze, invece di aggiungerne.

Insomma, per qualche mese ancora dovremo fare di necessità virtù e combattere la Covid-19 con quello che abbiamo: mascherine, igiene delle mani, distanziamento interpersonale. Dovremo abbattere il più possibile il numero dei contagiati, sapendo che esiste (come vedremo in dettaglio) una stretta correlazione tra nuovi casi, ricoveri e decessi. Dovremo salvaguardare gli ospedali, per evitare che un futuro sovraccarico si sommi a una grave emergenza che, nonostante il calo degli ultimi giorni, è ancora una pesante realtà tutt’altro che superata.

Procederemo all’analisi dei principali fattori che stanno influenzando e influenzeranno i prossimi mesi utilizzando, come di consueto, i numeri e le evidenze scientifiche. Per arrivare alla conclusione che abbiamo in qualche modo già anticipato: una terza ondata sarebbe ingestibile. In particolare a fine gennaio.

Prima di procedere dobbiamo però segnalare due elementi importanti:

1) La settimana epidemiologica in corso: numeri non significativi

Quella che stiamo attraversando (5-11 dicembre) è una settimana epidemiologica molto particolare: oltre al weeekend che comporta, come ormai sappiamo, una forte riduzione nel numero dei test eseguiti ed elaborati al sabato e alla domenica, e poi comunicati nei giorni di domenica e lunedì, dovremo infatti conteggiare un’analoga riduzione legata ad altre due festività: lunedì 7 dicembre, Sant’Ambrogio, che impatta soprattutto sulla Lombardia (ma essendo anche la Regione che più contribuisce ai dati nazionali i riflessi saranno comunque evidenti); e martedì 8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione.

I dati raccolti in questi due giorni verranno comunicati tra martedì e mercoledì. Sarà quindi una settimana caratterizzata da numeri più ridotti di quanto dovrebbero essere: non per effetto di una reale contrazione dell’epidemia, ma di un minore sforzo diagnostico.

2) La riduzione dei tamponi eseguiti

Al di là della discontinuità appena segnalata, prosegue il trend al ribasso nel numero dei test eseguiti. Una discesa molto evidente sia considerando tutta Italia, sia la sola Lombardia: Regione che teniamo sempre monitorata in quanto esprime valori assoluti che influenzano in modo evidente il dato nazionale.

Partiamo dall’Italia: da 1.503.520 test totali (diagnostici e per conferma positività o avvenuta guarigione) eseguiti nella settimana epidemiologica 7-13 novembre siamo passati a 1.355.429 in quella 28 novembre – 4 dicembre (ultima completa) con un calo del 9,84%. In Lombardia da 303.883 test totali (7-13 novembre) a 232.142 (28 novembre – 4 dicembre) con un calo del 23,60%.

Passiamo ai casi testati, che possiamo grossomodo definire test diagnostici: ovvero quelli che vengono eseguiti per la prima volta su soggetti sospetti. Il numero dei test diagnostici non coincide con precisione con quello dei casi testati, perché non include i secondi, terzi o più tamponi eseguiti su soggetti sottoposti periodicamente al test (per esempio il personale sanitario): ma con buona approssimazione ci indica “quanto” il virus venga ricercato attivamente sul territorio. Se il numero si contrae eccessivamente, nella migliore delle ipotesi stiamo riducendo l’attività di contact tracing e testando soprattutto soggetti sintomatici.

In Italia, negli stessi periodi indicati in precedenza, il totale dei casi testati è sceso da 880.173 a 619.017 (-29,67%); in Lombardia da 154.938 a 78.255 (-49,49%). Sottolineiamo come questa riduzione sia molto più marcata rispetto a quella dei test totali, e che un trend analogo si riscontra in molte Regioni.

Alla luce dei due punti sopra illustrati possiamo iniziare a trarre tre considerazioni preliminari:
1) Per capire l’evoluzione del contagio, al di là delle oscillazioni giornaliere, dovremo attendere la prossima settimana epidemiologica. Che sarà, almeno per quanto riguarda i giorni lavorativi, una settimana “normale”.

2) La costante diminuzione dei casi testati, proprio mentre stiamo procedendo a progressivi allentamenti delle restrizioni, non va nella direzione che le buone regole dell’epidemiologia indicherebbero. Occorrerebbe infatti aumentare questo numero, ricercando e tracciando sul territorio il maggior numero possibile di contatti: solo in questo modo si riesce a limitare il numero dei soggetti che, spesso inconsapevolmente in quanto asintomatici, possono fare da moltiplicatore del contagio anche in tempi rapidi. Invece a restare più alti sono i tamponi che verificano la permanenza della positività in soggetti già noti.

3) La riduzione dei nuovi casi testati, come abbiamo visto con percentuali tutt’altro che trascurabili, comporta un inevitabile calo dei nuovi casi individuati. Al tempo stesso l’esecuzione di più test su soggetti già noti come positivi permette di dichiararli guariti (o dimetterli) con maggiore tempestività, aumentando il numero che viene comunicato ogni giorno. Se così fosse (ma in assenza di prove è solo un cattivo pensiero) si otterrebbe una fotografia “addomesticata” dell’epidemia: non completamente falsata, ma un po’ più generosa della realtà nel rappresentare la ritirata della Covid-19. Con l’ulteriore coincidenza che questo trend ribassista sulla gestione dei tamponi si sia manifestato proprio dopo l’introduzione delle fasce di rischio caratterizzate da colori, e in corrispondenza con la forte spinta su base locale a ottenere un declassamento con il relativo allentamento delle misure di mitigazione.

Quanto funzionano le misure messe in campo

Al di là dei dubbi e delle considerazioni evidenziate in precedenza dobbiamo ammettere che l’effetto delle restrizioni introdotte da inizio novembre, e giudicate eccessive da molte Regioni, è stato tutt’altro che straordinario. Molto lontano non solo da quanto ottenuto con il lockdown della scorsa primavera (come ampiamente previsto dagli stessi membri del Cts) ma anche dalle riduzioni dei nuovi casi che hanno interessato altri Paesi europei.

Prenderemo in esame Francia, Belgio e Germania: ovvero i Paesi che quasi in contemporanea con l’Italia hanno mostrato la dinamica più preoccupante scalando le prime posizioni nella classifica settimanale dell’Oms. Proviamo ad analizzare i dati usando come sempre i valori per settimana epidemiologica, che permettono di assorbire le discontinuità legate a singoli dati giornalieri. Metteremo a confronto il totale dei casi registrati nella settimana immediatamente precedente alle restrizioni con quello raggiunto dopo 4 settimane di permanenza delle restrizioni stesse, verificando la variazione percentuale che permette di assorbire le differenze in valori assoluti legati alla diversa popolazione residente.

I dati sono quelli delle Regioni, Province autonome, Ministero della Salute e Iss per l’Italia; quelli dei singoli governi, raccolti e comunicati dall’Oms, per Francia, Belgio e Germania.

1) Italia: -27,64%. Da 208.301 casi (settimana 30 ottobre – 5 novembre) a 150.722 (settimana 29 novembre – 4 dicembre).
2) Francia: -72,56%. Da 283.726 (23-29 ottobre) a 77.828 (24-30 novembre).
3) Belgio: -84,40%. Da 99.051 (26 ottobre – 1 novembre) a 15.447 (22-28 novembre).

La Germania in controtendenza

Trattiamo brevemente a parte il caso Germania perché il lockdown leggero, nello stesso periodo di tempo considerato per gli altri tre Paesi, ha avuto un effetto contrario: i nuovi casi sono infatti aumentati. Da 103.749 (26 ottobre – 1 novembre) a 124.431 (22-28 novembre): +19,93%. Il dato non è facilmente spiegabile, anche perché le misure adottate in Germania sono molto simili a quelle degli altri Paesi: Italia e Belgio, in particolare, differiscono solo per la scelta di chiudere parzialmente le scuole (15 giorni in Belgio, in base all’età in Italia).Sono stati chiusi bar, ristoranti e birrerie (possibile solo l’asporto); alberghi, locali pubblici e discoteche, teatri, cinema e sale concerti, piscine e palestre.

Le attività sportive sono proseguite senza spettatori; i negozi sono rimasti aperti solo a condizione di poter garantire uno spazio di almeno 25 metri quadri per ogni cliente. Sono state vietate le riunioni con più di 10 persone, o per più di due nuclei famigliari o di persone conviventi. La scelta della limitazione alle riunioni fissata a un massimo 10 persone risponde peraltro, come abbiamo visto nelle scorse settimane, a una precisa evidenza scientifica.

L’unica ipotesi possibile è che l’effetto delle misure di mitigazione sia stato in qualche modo limitato da un’applicazione disomogenea nei diversi Lander, che per molti provvedimenti avevano la possibilità di modificare le decisioni prese dal governo centrale. Per trovare conferma occorrerebbe tuttavia un’analisi approfondita relativa alla progressione dell’epidemia nelle singole aree territoriali, che non possiamo effettuare in questa sede.

Perché le misure in Italia hanno funzionato meno che in Francia e Belgio

Anomalia tedesca a parte, resta il divario tra gli effetti delle misure in Italia, in Francia e in Belgio. Anche in questo caso le regole adottate sono state molto simili. Il Belgio ha scelto criteri più restrittivi per quanto riguarda le attività produttive, con la chiusura di tutte quelle considerate non essenziali, replicando in questo il modello del lockdown della scorsa primavera: e ottenendo, come era lecito attendersi, il risultato più evidente in termine di riduzione dei nuovi casi. Ma per il resto le misure messe in campo in Italia, Francia e Belgio ricalcano un copione ormai consolidato: chiusura di bar e ristoranti; limitazione degli spostamenti; stop a cinema, teatri e musei; chiusura dei negozi non essenziali (in Belgio inclusi parrucchieri e centri estetici); stop agli eventi pubblici e alle feste private. Misure che tuttavia, per quanto riguarda l’Italia, assomigliano moltissimo a quelle delle nostre zone rosse, molto a quelle delle zone arancioni, poco a quelle assai più blande delle zone gialle.

A limitare la riduzione dei nuovi casi rispetto a quanto accaduto oltre confine è stata con buona probabilità proprio la differenziazione su base territoriale. Forse frutto dell’esigenza di far digerire le misure alle Regioni, spesso riottose nell’adottarle e molto più attente alle istanze di riaperture che di contenimento? Oppure del tentativo di bilanciare le esigenze sanitarie con quelle dell’economia?

Il costo (calcolabile) della minore riduzione

Lasciamo agli economisti, e alle loro stime future, il compito di individuare le ricadute delle misure delle ultime settimane sul prodotto interno lordo. Tra qualche mese sapremo se procedere per aree geografiche ha contenuto le perdite o se invece sarebbe stato più efficace un periodo limitato nel tempo con misure più drastiche e su base nazionale (non dimentichiamo che in questa seconda ondata la Covid-19 si è diffusa su tutto il territorio).Quello che invece possiamo calcolare già oggi è il prezzo pagato in termini di vite umane.

Di questo argomento, e della stretta correlazione tra impatti economici e numero dei decessi attesi, abbiamo parlato a più riprese anche nella prima fase dell’epidemia: a inizio aprile attraverso uno studio di Carlo Favero (Università Bocconi), a proposito dell’elevata letalità riscontrata in Lombardia; e a luglio con un’analisi approfondita dello stesso Favero, insieme ad Andrea Ichino (European University Institute) e Andrea Rustichini (University of Minnesota) sulle possibili strategie di Fase 3 per bilanciare le necessità dell’economia con quelle della salute pubblica.

La profondità di quelle analisi aveva portato a stime sui decessi che hanno in larga parte trovato (o stanno trovando) conferma; e la solidità del dato relativo alla letalità, dopo quasi un anno di pandemia caratterizzata da due fasi distinte, permette di calcolare gli effetti del “minore successo” delle misure italiane a confronto con quelle di Francia e Belgio.In particolare, come prima cosa, possiamo verificare quale sviluppo dei nuovi casi avremmo avuto, in Italia, se le nostre misure avessero avuto un’efficacia pari a quella dei due Paesi considerati: una riduzione dei nuovi dei nuovi casi del 72,56%, come in Francia, ci avrebbe portato ad avere dopo 4 settimane dall’introduzione delle misure una settimana epidemiologica con 57.157 positivi (invece di 150.722); con un calo dell’84,40%, come in Belgio, il dato si sarebbe ulteriormente ridotto a 32.494 (ricordiamo che il nostro punto di partenza era di 208.301 nuovi casi). Considerando il solo dato della quarta settimana, avremmo avuto 93.565 positivi in meno con un’efficacia delle nostre misure pari a quelle francesi, 118.228 replicando il calo del Belgio.

Utilizziamo a questo punto i dati ufficiali dell’Iss aggiornati alla sera dell’8 dicembre: il tasso di letalità in Italia negli ultimi 30 giorni (periodo che corrisponde alle 4 settimane epidemiologiche oggetto del nostro confronto) è 2,1%. Un valore stabilizzato nel tempo e riferito a un numero importante di casi perché riflette il periodo di maggior crescita del contagio. Applicando il dato della letalità ai soli numeri della quarta settimana epidemiologica vediamo come misure di pari efficacia a quelle francesi avrebbero evitato 1.964 decessi; 2.482 se avessimo replicato il caso del Belgio. La correlazione tra casi e decessi è diretta: non sono ammesse scorciatoie. Da inizio epidemia, se esaminiamo le curve relative a casi, ricoverati, terapie intensive e decessi, si nota come si muovano in modo perfettamente sincronizzato, viaggiando tra loro quasi in parallelo.

La curva che guida tutte le altre, ovviamente, è quella dei nuovi casi: ad ogni incremento corrisponde un incremento delle altre, e così accade nelle fasi di calo. È proprio questa correlazione che ci permette di calcolare quanti decessi avremo nelle prossime settimane come pura ricaduta dei positivi riscontrati fino alla sera di ieri, 8 dicembre: applicando il tasso di letalità (2,1%) ai 737.525 “attualmente positivi” segnalati nel Report serale (dati Regioni, Province autonome, Ministero della Salute e Iss) arriviamo a 15.488 morti ormai inevitabili. Un dato che non si discosta da quelli di altre fonti scientifiche, come la Fondazione Gimbe.

Più che inseguire il numero quotidiano, che può essere più basso o più elevato in conseguenza di registrazioni tardive dei decessi o del recupero di decessi non registrati nei giorni precedenti, dobbiamo guardare alla dinamica nel lungo periodo. E, purtroppo, i risultati già acquisiti sono questi: le nuove positività dei prossimi giorni, settimane e mesi non faranno altro che aumentare ulteriormente il dato complessivo.

La saturazione degli ospedali

Arrivare a una possibile terza ondata con un elevato numero giornaliero di nuovi casi ha ricadute calcolabili anche sulla saturazione del sistema ospedaliero. Già oggi largamente sottoposto a una pressione che eccede le soglie di allerta fissate dal Ministero della Salute: 30% per l’occupazione delle terapie intensive e 40% per i posti letto in area medica. L’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) alla sera dell’8 dicembre certificava a livello nazionale una saturazione del 38% per le terapie intensive (26,6% oltre soglia) e del 45% per i posti letto in area medica (12,5% oltre soglia).

La lunga permanenza dei pazienti nelle strutture ospedaliere, dalle 3 alle 4 settimane in questa fase dell’epidemia, comporta un ritardo nel calo della pressione sugli ospedali rispetto alla riduzione dei nuovi casi: in altri termini, anche con una riduzione del contagio gli ospedali impiegheranno molto tempo per “smaltire” i ricoveri pregressi. Possiamo semplificare ulteriormente dicendo che i ricoverati di oggi saranno i dimessi di inizio gennaio, e che i ricoverati dei primi giorni di gennaio saranno ancora in ospedale alla fine del mese. Come vedremo più avanti, la data non è casuale.

Proviamo a questo punto a capire cosa potrebbe accadere nelle prossime settimane. Applichiamo il dato di riduzione dell’epidemia in Italia (-27,64%) alle prossime 4 settimane epidemiologiche, per arrivare a inizio gennaio 2021. Dai 150.722 nuovi casi dell’ultima settimana epidemiologica potremmo arrivare a 109.062, con una media giornaliera di 15.580 positivi.Il dato potrebbe essere ottimistico, perché stiamo entrando in una fase di progressivo allentamento delle misure di mitigazione.

Per contro la settimana epidemiologica in corso, caratterizzata da festività infrasettimanali, potrebbe portare a un ribasso più sensibile: legato però alla minore esecuzione ed elaborazione di test, come già accade nel weekend, piuttosto che a una reale minore circolazione del virus. Come già detto altre volte, potremmo smettere di cercare il Sars-CoV-2 evitando di fare tamponi: otterremmo uno zero alla casella dei nuovi casi. Ma il virus continuerebbe a diffondersi e a causare ricoveri e decessi.

Torniamo al dato di 15.580 nuovi casi al giorno ipotizzabili per inizio gennaio: sappiamo che, in caso di ripresa dell’epidemia, il tempo di raddoppio dei casi nelle prime due settimane di crescita esponenziale è di circa 7 giorni. In 14 giorni, arrivando alla data chiave di fine gennaio, passeremmo quindi a 62.320 nuovi casi giornalieri: un numero ingestibile e mai raggiunto in precedenza. Si tratta ovviamente di una pura ipotesi, ma come vedremo ci sono una serie di coincidenze temporali che puntano l’attenzione proprio sulla fine del primo mese del 2021.

Se anche la riduzione della pressione sul sistema ospedaliero seguisse la stessa dinamica, ma abbiamo visto come in realtà sia più rallentata per effetto dei lunghi tempi di ricovero, gli ospedali si troverebbero a fronteggiare una terza ondata in gennaio partendo da una condizione molto difficile: il 27,4% di occupazione delle terapie intensive e il 32,5% dei posti letto in area medica. Superare le soglie di allerta, a fronte di un’impennata come quella ipotizzata, sarebbe una questione di pochi giorni. E nel volgere di 2-3 settimane si arriverebbe a una saturazione totale dell’intero sistema.Senza dimenticare che il dato nazionale ci offre una visione “media” della situazione, ma che molte Regioni (a partire da quelle più popolose come Lombardia e Piemonte) hanno valori molto superiori.

Cerchiamo a questo punto di capire per quale motivo proprio il mese di gennaio potrebbe essere decisivo per lo sviluppo dell’epidemia, e comportare il maggior rischio in caso di una possibile terza ondata.

La concomitanza con il picco influenzale

Il primo fattore da considerare è quello dell’influenza stagionale: per ora non se ne parla, ma la rilevazione dei nuovi casi sul territorio è già iniziata grazie alla consueta rete InfluNet. Potrebbe sorprendere sapere che i casi di influenza, nel nostro Paese, sono già stati quasi un milione (per l’esattezza la stima di InfluNet è di 928.400 cumulati tra la 42esima e 48esima settimana del 2020).Con la sola eccezione di Piemonte e Valle d’Aosta l’incidenza delle sindromi influenzali e simil-influenzali si è finora mantenuto sotto la soglia basale. Ma, si legge nell’ultimo Report settimanale, a causa dell’emergenza Covid-19 alcune Regioni sono ancora in fase organizzativa e non tutti i medici della rete di sorveglianza hanno reso disponibili i dati raccolti.

Confrontando le curve delle epidemie influenzali degli ultimi anni si vede come il picco si collochi quasi sempre a fine gennaio: l’andamento attuale della curva 2021 non permette ancora una previsione, anche perché la dinamica è sicuramente influenzata dal ritardo nella comunicazione dei dati sottolineata dagli estensori del bollettino settimanale.Così come, al momento, non sappiamo quanto le misure adottate per contrastare la Covid-19 avranno effetto sul virus dell’influenza: ma anche ipotizzando una stagione più leggera di quelle passate (vogliamo essere ottimisti) non ci sono al momento ragioni che possano far pensare a un picco influenzale in tempi diversi dal recente passato.

Quindi i nostri ospedali si preparano ad accogliere un numero importante di pazienti colpiti dalle forme più gravi di influenza, che andranno a sommarsi a quelli già ricoverati per Covid-19. Una sovrapposizione che accelererà, anche in assenza di una terza ondata, l’occupazione dei posti letto disponibili. Ma che, in presenza di una terza ondata proprio a fine gennaio, creerebbe una situazione insostenibile. Per vedere l’effetto dell’influenza stagionale sui ricoveri, legati soprattutto alle polmoniti che insorgono come complicanza dell’infezione, rimandiamo a un grafico pubblicato dall’Agenas.

Perché l’attenzione si concentra su fine gennaio

Molti elementi concomitanti portano a identificare la fine del mese di gennaio come uno snodo centrale per il contenimento dell’epidemia, o per una sua possibile esplosione a quel punto quasi impossibile da controllare.

1) Il picco dell’influenza stagionale, per i motivi che abbiamo appena elencato.

2) L’allentamento delle misure di mitigazione, con gran parte delle Regioni in fascia di rischio gialla, porterà a una inevitabile interruzione del trend decrescente appena intrapreso. Anche in questo caso possiamo prendere esempio dalla Francia, dove la fine del lockdown leggero ha generato una risalita dei casi giornalieri. Gli effetti dell’allentamento in Italia, che ci auguriamo possano essere molto contenuti, dovrebbero essere chiaramente visibili a inizio 2021.

3) Le festività di fine anno, nonostante le limitazioni introdotte dal governo, comporteranno lo spostamento di un numero ingente di persone prima e dopo le restrizioni stesse. Ne sono testimonianza le prenotazioni effettuate per treni e aerei nei giorni antecedenti il divieto: molte persone, non potendo spostarsi a Natale e Capodanno, lo faranno prima. Come se il nemico da combattere non fosse il virus, ma la regola che cerca di limitarne la diffusione. In questo caso per avere evidenza degli effetti arriveremo alla seconda metà gennaio.

4) La riapertura delle scuole, programmata per il 7 gennaio. Su questo tema, nonostante la profonda convinzione dell’importanza delle scuole e le continue rassicurazioni ufficiali sulla sicurezza delle scuole stesse, ci siamo espressi più volte in passato. Esiste una correlazione diretta tra la riapertura delle scuole e l’inizio della cosiddetta seconda ondata in Italia: non perché le scuole non siano sicure, ma perché non siamo stati in grado di gestire tutto quello che le circonda (si veda in proposito la parte finale dell’analisi della scorsa settimana, con il relativo grafico).

Gli spostamenti spingono il contagio, e con le scuole aperte si spostano ogni giorno 9 milioni di italiani, ai quali aggiungere diverse centinaia di migliaia di accompagnatori. Sul reale coinvolgimento delle scuole nella diffusione del contagio si stanno peraltro moltiplicando gli studi a livello internazionale: segnaliamo in particolare quello pubblicato su Lancet, e oggetto dell’analisi settimanale dello scorso 5 novembre. Sempre sulle interazioni scuola-trasporti, e sulle ricadute sui numeri del contagio, rimandiamo all’analisi del 29 ottobre, che si concentrava anche sul ruolo chiave dei superdiffusori nella trasmissione della Covid-19. Ruolo più facile da esercitare, come è intuitivo, in luoghi affollati e con permanenza di persone per lungo tempo. Una riapertura delle scuole senza aver prima risolto tutti i problemi che ruotano intorno al sistema scolastico, e di cui il sistema scolastico non è responsabile, implicherebbe un’impennata dei contagi a distanza di 2-3 settimane. E di nuovo ci ritroviamo a gennaio, questa volta nella parte finale del mese.

In conclusione: la tempesta perfetta

Proviamo a sintetizzare quanto finora esposto:
1) Abbiamo un numero di casi giornalieri ancora troppo elevato: e, applicando alle prossime settimane il tasso di riduzione dei nuovi casi ottenuto con le misure in corso (27,64%) avremmo a inizio gennaio una media di 15.000 nuovi casi giornalieri. Molto oltre l’obiettivo di 6.000 che permetterebbe la ripresa di una efficace attività di contact tracing: una quota tutto sommato generosa, se pensiamo che la Francia con il 10% di abitanti in più dell’Italia l’ha fissata a 5.000.

2) L’allentamento delle misure di mitigazione avrà un inevitabile impatto sull’epidemia: con un po’ di ottimismo, forse troppo, ipotizziamo non un’inversione di tendenza (come indicano le esperienze di altri Paesi) ma un rallentamento del calo rispetto ai valori attuali.

3) Il periodo delle festività di fine anno, per effetto dell’aggiramento delle limitazioni agli spostamenti, comporterà comunque un rimescolamento della popolazione.

4) Il picco dell’influenza stagionale, che ci auguriamo sia comunque limitato come entità dalle misure adottate per combattere la Covid-19, si dovrebbe manifestare tra fine gennaio e inizio febbraio con un conseguente aumento delle ospedalizzazioni proprio in quel periodo.

5) Gli ospedali partono da un tasso di saturazione molto elevato e, a causa dei lunghi tempi di ospedalizzazione, non riusciranno a dimettere un numero di pazienti sufficiente prima dell’arrivo del picco influenzale.

6) La riapertura delle scuole, se non abbinata a una vera gestione dell’impatto legato allo spostamento di milioni di persone, avrà un effetto importante sulla ripresa del contagio (anche in questo caso, oltre al nostro recente passato, la Francia di inizio settembre offre un’ulteriore conferma empirica agli studi che abbiamo citato). Tutto insieme, e tutto concentrato a fine gennaio, darebbe vita alla tempesta perfetta: saturazione degli ospedali, crollo del sistema sanitario, impatto devastante sull’economia (come già detto per il calcolo dell’entità di quest’ultima voce rimandiamo alle valutazioni degli economisti).

E non possiamo dimenticare, come troppo spesso accade al di là dei sussulti quotidiani, che una situazione di questo tipo porterebbe a un’impennata del tasso di letalità, oltre che della mortalità generale causata dalla mancata cura dei pazienti non Covid. Tutto insieme sarebbe imparabile: ma conoscendo il nostro nemico possiamo evitare che qualcuna delle ipotesi sopra descritte, e purtroppo supportate da evidenze, si verifichi. Migliorare qualcuno dei parametri indicati, così come limitare o evitare del tutto l’impatto di una o più delle voci elencate, ci permetterebbe di gestire con maggiore tranquillità un periodo che si presenta comunque difficilissimo. In fondo le previsioni più fosche servono proprio a questo: a evitare che si verifichino. Aspettando il vaccino e l’arrivo, lontano ancora molti mesi, dall’agognata immunità di gregge.

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