Valutazione di fine anno pandemico: bocciati in governance

Articolo del 31 Dicembre 2020

Fine anno, un pessimo anno, è tempo di riflessioni e tra le tante dovrebbe trovare spazio la governance, che è qualcosa di più di governo, e che per l’appunto tiene conto della complessità – e quindi dell’incertezza – scientifica, sociale e politica di tutto quello che riguarda la gestione della pandemia.

Penso che nella vicenda della pandemia quello della governance sia stata e sia uno dei maggiori punti di debolezza, forse quello chiave. Nell’ultimo decennio il termine governance ha conosciuto crescente popolarità e oggi, su una scala nazionale, governance descrive le strutture e le azioni per il processo decisionale collettivo coinvolgendo attori governativi e non governativi (Neye e Donahue, 2000). Anche nel complesso caso della pandemia le scelte di governo dovrebbero essere un’interazione tra attori governativi e non governativi, istituzioni, forze economiche e sociali, incluse le ONG. Esiste anche una governance a livello globale, incarnata da strutture orizzontali, statali e non statali, che, come l’OMS e l’ONU, predispongono linee di indirizzo o anche decisioni vincolanti senza autorità superiore (Wolf 2002). Anche queste hanno mostrato limiti nella gestione della pandemia.

Sia a livello nazionale che sovranazionale i soggetti non statali svolgono un ruolo di importanza crescente nella governance del sistema, in quanto direttamente investiti dalle decisioni. Di fronte a rischi, di accadimenti causati sia da eventi naturali sia da attività antropiche, e alle decisioni da prendere per governarli la sostanza e i principi fondamentali di governance si traducono nella «governance del rischio» (Renn 2008). Non fa eccezione il caso della pandemia, tutt’altro. Secondo l’International Risk Governance Council (IRGC, 2005) la governance del rischio comprende la totalità degli attori, le regole, le convenzioni, i processi e i meccanismi che riguardano il grado di rilevanza del rischio, come le informazioni vengono raccolte, analizzate e comunicate e come sono prese le decisioni gestionali.

Le tre componenti fondamentali della governance del rischio sono la valutazione, la gestione e la comunicazione del rischio. È abbastanza evidente come il caso della pandemia da SARS-CoV-2 si presenti di difficoltà estrema per l’effettuazione delle tre attività, con una conseguente debolezza se non assenza di una vera e propria governance.

La valutazione quantitativa del rischio (risk assessment) è particolarmente ostica a causa delle scarse conoscenze del virus, della storia naturale della malattia correlata e dei tanti fattori associati, ambientali, sociali, psicologici, che rendono Covid-19, patologia infettiva con meccanismo deterministico, esposta alle perturbazioni probabilistiche delle tante interazioni.

La gestione del rischio è altrettanto complicata perché a pandemia in corso, su una situazione che andrebbe affrontata in modo sistemico (che non riguarda solo la sanità pubblica) e che è da considerarsi intollerabile, si può agire solo sulla leva della riduzione della vulnerabilità e sulla limitazione dell’esposizione facendo ricorso a misure sociali e individuali pesanti come quelle sperimentate fino ad oggi.

La comunicazione del rischio è attività bidirezionale che dovrebbe consentire agli stakeholder e alla società civile di comprendere la razionalità del processo e i risultati della valutazione dei rischi e dei benefici. È la chiave per scelte informate – non solo per i cittadini, ma anche per i decisori, obbligati a tenere conto di «soft issues», come le speranze e le preoccupazioni dell’opinione pubblica. Anche una valutazione a volo d’uccello permette di intravedere le carenze di comunicazione, spesso monodirezionale e quindi informazione, esposta alle volubilità di corpi della società che hanno propri interessi e propri fini, per perseguire i quali usano gli strumenti del loro mestiere.

E qui veniamo al nodo che almeno a me pare cruciale anche nella fase attuale: i percorsi su richiamati hanno bisogno della partecipazione dei diversi attori sociali, se questa non c’è non viene a mancare il regalo di un invitato ma un pezzo della dote. Infatti, è stato scritto e mostrato empiricamente che la governance del rischio per essere efficace richiede adeguate competenze e una diffusa consapevolezza e pertanto la partecipazione di cittadini è diventata un requisito per le politiche ambientali e sanitarie (Rosa, 2014).

Questo è tanto più vero quanto le informazioni circolanti sono molteplici, la situazione è critica e incerta, ci sono valori (non solo posizioni) in conflitto. In queste situazioni, come quella della attuale pandemia, assume rilevanza la capacità di valutare la qualità dei contenuti e delle fonti, di discutere e di comprendere le esigenze dei diversi soggetti interessati e definire ruoli e responsabilità.  In questo contesto si capisce anche l’importanza della capacità di «scrutare» la percezione del rischio, perché le credenze, le conoscenze e gli atteggiamenti influenzano non solo le decisioni ma anche i comportamenti e, in modo diretto, l’esposizione delle persone ai rischi (Cori et al. 2020).

Fatta la prima basilare distinzione, che non bisogna mai stancarsi di ribadire, che informare non significa comunicare o in altri termini che oltre «la somministrazione» di messaggi occorre valorizzare ascolto e feedback, pare utile aggiungere che la comunicazione non può essere ridotta semplicisticamente a un esercizio di relazioni pubbliche o lasciata alla fase finale della gestione dei rischi (Dora, 2006), e vada piuttosto considerata come un elemento costitutivo della governance dei rischi, che deve accompagnare tutte le fasi con strumenti opportuni. D’altra parte, è piuttosto intuitivo che il distacco della comunicazione dal processo decisionale porti ad una comunicazione del rischio fine a sé stessa o comunque inefficace in termini di gestione delle relazioni e dei conflitti e che questo abbia molte responsabilità nell’inefficacia di molte scelte.

Mi pare che tutto questo sia oggi facilmente osservabile sul campo della pandemia, in cui non c’è traccia di una vera centrale di ascolto e di coinvolgimento degli attori principali che si muovono nella società, il ché ha forti connessioni con la debolezza della governance dei rischi collegati alla pandemia ma anche ai rischi e ai benefici della campagna vaccinale ormai in corso, dunque alla governance complessiva del sistema. Una campagna che avrebbe bisogno di coinvolgimento attivo dei principali attori per «lavorare» adeguatamente sulle incertezze esistenti oltre che sui benefici ottenibili, ma soprattutto per condividere azioni pubbliche di mantenimento di procedure di salvaguardia per un lungo periodo per evitare il perdurare o addirittura l’effetto paradosso di un peggioramento della curva epidemica nella prima lunga fase vaccinale.

È questa una situazione simile a quella del piano pandemico, che ha attratto l’attenzione mediatica soprattutto per il suo mancato aggiornamento dopo la versione del 2006, piuttosto che sulla effettiva capacità di governance. Da diversi osservatori è stato appropriatamente rilevato come un piano sia costituito da quanto scritto sulla carta e dalle capacità provate, e riprovate, di metterlo in pratica attraverso esercitazioni, verifiche di materiali, metodi e strumenti, capacità di comunicazione adeguata.

Molto di questo era stato oggetto di un progetto europeo i cui risultati erano stati presentati a Venezia nel 2014. Al di là dei giusti rilievi sui mancati aggiornamenti lungo oltre un decennio, credo non sia retorico chiedersi se un piano pandemico più aggiornato avrebbe avuto diverse conseguenze rispetto alla giacenza in cassetti più o meno recondito, o se il problema è appunto di governance a partire dagli strumenti che abbiamo e che essendo teorico-empirici crescono a mano a mano che si usano.

Ragionamento simile è applicabile anche in altri ambiti, anche apparentemente distanti, come ad esempio la modalità di stesura del documento Next Generation Italia, e di futura gestione del recovery fund. L’assenza di una vera cabina di ascolto e rielaborazione di quanto di buono veniva «dal basso» mi pare incontestabile. A fronte di centinaia di documenti elaborati da associazioni, società scientifiche e non, istituzioni pubbliche e private, sarebbe stata necessaria una camera di compensazione (Clearinghouse) per disegnare un futuro diverso da quello che ha prodotto la pandemia.

Concludo con la convinzione, che spero possa essere largamente condivisa, che una “buona” comunicazione di rischio o di crisi può fare molto poco di fronte a carenze di governance di massa, dove la soppressione delle controversie sulle incertezze non è possibile ma è possibile la gestione delle incertezze (aleatorie e epistemiche), le controversie e i conflitti che sorgono all’interno di istituzioni di prima linea sono inevitabili e inevitabilmente visibili anche all’esterno.
La gestione delle crisi sta diventando sempre più una questione di governance del rischio (Renn 2008) piuttosto che una questione di tecnica della comunicazione e la partecipazione attiva, anche nella progettazione, è elemento centrale e non accessorio. Una smart governance è necessaria oggi anche per affrontare in modo corretto e utile le obiezioni e i dubbi posti da tanti, anche operatori della sanità, con i corollari pericolosi e delicati per la stessa democrazia, come quello della libertà personali non solo di vaccinarsi ma anche di esprimere le proprie posizioni e le opzioni sulla obbligatorietà. L’insieme ordinato della valutazione quantitativa e qualitativa del rischio, della sua gestione sistemica, e di una comunicazione attiva evoluta (oltre le necessarie FAQ sui vaccini) costituiscono i presupposti per una governance complessiva della pandemia nella prospettiva di un futuro post-pandemico sostenibile.

 

Fonte:  Scienza in Rete

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