Funghi marini, i nuovi alleati contro le microplastiche

Articolo del 24 Settembre 2025
Quando pensiamo ai funghi, ci vengono in mente boschi umidi, tronchi in decomposizione o cibi fermentati. Eppure, esiste un intero mondo di funghi che vive sott’acqua, nei mari e negli oceani, spesso invisibile e poco studiato. Negli ultimi anni, alcuni di questi organismi hanno attirato l’attenzione degli scienziati per una caratteristica sorprendente: la capacità di degradare plastiche e microplastiche.
Le microplastiche sono ormai ovunque: in superficie, nei fondali, persino all’interno degli animali marini. Si tratta di frammenti resistenti, difficili da eliminare, che possono restare in mare per decenni. La natura però possiede strumenti incredibili: oltre ai batteri e alle alghe, anche i funghi marini hanno dimostrato di saper “aggredire” questi materiali, grazie alla loro abilità di produrre enzimi capaci di rompere molecole complesse.
In pratica, i funghi si attaccano alla plastica, la colonizzano formando un biofilm e, poco alla volta, la consumano. Alcuni riescono persino a penetrare con le loro ife, scavando minuscoli fori e riducendo il materiale in frammenti più piccoli, che vengono poi trasformati chimicamente.
Chi sono questi funghi mangiaplastica?
Uno dei più noti è Zalerion maritimum, un fungo marino che in laboratorio ha dimostrato di poter ridurre la massa di polietilene, il materiale di cui sono fatti molti sacchetti e imballaggi. Altri, come Parengyodontium album, hanno bisogno di un piccolo “aiuto” dalla natura: prima che la plastica venga colonizzata, deve essere esposta ai raggi UV del sole, che ne indeboliscono la superficie.
Anche specie più comuni, come Alternaria alternata, hanno sorpreso i ricercatori: coltivate su film di polietilene, dopo qualche settimana hanno lasciato segni visibili, buchi e una notevole riduzione del peso molecolare del materiale.
E non è finita qui. Recenti spedizioni sulle coste asiatiche hanno trovato decine di ceppi fungini capaci di attaccare non solo il polietilene, ma anche il PET e il poliuretano, due plastiche molto diffuse.
Un potenziale enorme, ma con tanti limiti
L’idea che i funghi possano diventare “spazzini marini” è affascinante, ma la realtà è più complicata. Prima di tutto, la velocità di degradazione è molto bassa: parliamo di frazioni di punto percentuale al giorno, il che significa che occorrono mesi o anni per ottenere un effetto tangibile. Inoltre, non tutte le plastiche sono uguali: alcune si degradano più facilmente, altre restano praticamente intatte.
Un altro ostacolo è l’ambiente stesso. Molti di questi funghi funzionano bene solo in condizioni specifiche – luce solare, ossigeno, temperatura costante – che non sempre si trovano in mare aperto o in profondità. E poi resta la domanda più importante: cosa succede ai frammenti e ai sottoprodotti generati? Sono davvero innocui o rischiano di diventare ancora più pericolosi per la vita marina?
La strada della ricerca
Gli scienziati sono convinti che la strada giusta sia studiare meglio questi funghi e capire quali enzimi producono. Una volta isolati, questi enzimi potrebbero essere potenziati o riprodotti in laboratorio, per creare sistemi di “biorisanamento” mirati: bioreattori nelle coste, trattamenti degli scarichi, o magari interventi diretti sulle spiagge più contaminate.
Un’altra possibilità è quella di “allenare” i funghi stessi: alcuni studi mostrano che, se coltivati ripetutamente su plastica, i ceppi diventano più veloci ed efficienti nel degradarla.
Uno sguardo al futuro
Siamo ancora lontani dal poter liberare gli oceani affidandoci ai funghi, ma le scoperte degli ultimi anni aprono scenari impensabili. Forse un giorno potremo immaginare flotte di bioreattori marini che sfruttano questi organismi per ridurre la quantità di plastica in acqua, o cocktail enzimatici capaci di trasformare i rifiuti in composti innocui.
Per ora, i funghi marini restano piccoli alleati, testimoni di come la natura trovi sempre nuove strategie per adattarsi anche agli inquinanti più persistenti. E chissà: forse proprio dalle profondità oceaniche arriverà un aiuto inaspettato nella lotta contro una delle emergenze ambientali più urgenti del nostro tempo.
Per approfondimenti: GALILEONET
