Covid, i farmaci in arrivo e quelli già usati. A che punto è la ricerca: dagli antivirali ai cortisonici. Il professor Cosentino: “Ognuno di questi va impiegato in maniera appropriata”

Articolo del 23 Agosto 2021

Ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. Altri sono composti già approvati per altre patologie.

La ricerca farmacologica contro il Covid per trovare una cura o una terapia efficace e sicura continua su più fronti. Ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. Alcuni studi sono arrivati al traguardo pochi giorni fa, come il nuovo anticorpo monoclonale sotrovimab, prodotto dalla Gsk, approvato da Aifa il 6 agosto scorso. Dovrebbe coprire da tutte le attuali varianti e sarà impiegato per chiunque – da 12 anni in su – sia ad alto rischio di progressione severa. Altri risultati vedranno la luce invece nel 2022, come il farmaco orale della Pfizer, molto atteso. In questo momento ci sono farmaci già in commercio che hanno dato – e stanno dando – risultati importanti. Per fare il punto Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Marco Cosentino, medico, professore ordinario di Farmacologia e direttore del Centro di Ricerca di Farmacologia Medica dell’Università dell’Insubria di Varese.

Direttore, quali sono le probabilità di avere un nuovo farmaco antivirale, oppure un trattamento (a fianco ai vaccini), per l’autunno?
Nel trattamento di Covid 19 sono stati utilizzati con scarso successo vari farmaci antivirali diretti, ad esempio lopinavir/ritonavir e remdesivir. Quest’ultimo ha ricevuto anche un’autorizzazione ma la sua efficacia è molto limitata. Sono stati impiegati anche vari anticorpi monoclonali, a oggi tuttavia i dati disponibili non sono straordinari.

L’Unione europea aveva annunciato l’individuazione di cinque trattamenti?
L’Unione Europea ha annunciato per l’autunno l’autorizzazione di quattro anticorpi monoclonali e di un antivirale con azione diretta. C’è qualche dubbio che l’eventuale arrivo di questi farmaci modificherà significativamente la situazione. In questo campo, pare più interessante il farmaco di AstraZeneca (AZD7442), una combinazione di due monoclonali, tixagevimab e cilgavimab, derivati dai linfociti di persone guarite dal Covid e ingegnerizzati in modo da persistere nell’organismo per molti mesi. Si può stimare un’efficacia relativa del 77%. AstraZeneca ha già dichiarato che intende chiedere l’autorizzazione in emergenza del farmaco, che costituirebbe così una forma di profilassi alternativa ai vaccini.

Un farmaco che ha raccolto molto interesse in Israele è il CD24, con oltre il 90% di efficacia su pazienti in stato avanzato. Che farmaco è? E quando potrebbe essere utilizzato negli ospedali?
EXO-CD24 è un farmaco sperimentale di concezione originale, per quanto dal punto di vista clinico ancora ne sappiamo ancora molto poco. CD24 è una glicoproteina espressa da molte cellule del nostro sistema immunitario, il cui ruolo fisiologico consiste nel ridurre la risposta infiammatoria. La sua attività è ridotta in stati infiammatori gravi come ad esempio le sepsi. Da qui l’idea di impiegarla per prevenire o curare il quadro più grave di Covid 19, la cosiddetta “tempesta citochinica” che altro non è che una condizione di iperattivazione incontrollata del sistema immunitario deleteria per l’organismo. A oggi sono stati condotti studi iniziali, di fase I e fase II, il primo su 30 persone e il secondo su 90, tutte con Covid. I benefici clinici sono tuttavia stati notevolissimi se è vero che, stando a quanto riportano le agenzie, prima 29 pazienti su 30 e poi 84 su 90 sarebbero guariti in massimo cinque giorni. Bisogna attendere la conclusione degli studi. Se davvero tutto andasse per il meglio, il farmaco potrebbe essere reso disponibile già nel corso del 2022.

Direttore, l’Istituto Mario Negri ha in corso la sperimentazione ‘Cover2’, fa seguito agli ottimi risultati avuti con ‘Cover1’ (pubblicato su The Lancet) in cui i ricercatori hanno dimostrato una riduzione del 90% di ospedalizzazioni con l’uso di farmaci da bancone. Se si confermassero i dati, cosa cambierebbe?
Che l’aspirina e i FANS (anti-infiammatori non steroidei, come nimesulide e celecoxib) siano farmaci di scelta da preferire al paracetamolo è un dato consolidato su basi sia farmacologiche che cliniche. Lo studio del Mario Negri ha avuto tuttavia l’indubbio merito di “costringere” a recepire i FANS anche nella seconda versione, tuttora in vigore, delle linee guida ministeriali. Lo studio aveva un disegno osservazionale retrospettivo ed è stato svolto su un certo numero di pazienti con Covid 19 lieve. Questo non ha impedito di documentare un indubbio beneficio dei FANS, farmaci facilmente gestibili dal medico di medicina generale e che non devono mai mancare nel trattamento fin dai primi sintomi, ancora prima della conferma con eventuali test diagnostici. L’importanza dello studio del Mario Negri sta anche e forse soprattutto nell’aver dimostrato che anche una raccolta di dati realizzata in maniera retrospettiva e osservazionale produce evidenze solide e di grande ricaduta clinica.

La Pfizer ha iniziato la sua fase 2/3, il 13 luglio e che finirà a febbraio, del suo antivirale. Anche qui le chiedo quali aspettative ci sono?
PF-07321332 è un farmaco che agisce inibendo un enzima fondamentale per la replicazione dei coronavirus, che si chiama proteasi “3C-like”, ci si aspetta quindi che la sua azione possa consistere nel blocco della replicazione di Sars Cov 2. Un altro farmaco con attività analoga, PF-07304814 è stato per il momento abbandonato poiché non è ben assorbito per via orale, a differenza di PF-07321332. A oggi, sul sito ClinicalTrials.gov, che include la maggior parte degli studi clinici in corso nel mondo e di regola tutto gli studi per la registrazione di nuovi medicinali in corso in Usa e in Europa, risultano inclusi sei diversi studi con PF-07321332, di cui tuttavia solo uno in pazienti Covid 19, in fase 2/3 ma non è partito il reclutamento – che doveva iniziare dal 13 luglio – di 2260 pazienti, e con conclusione studio prevista per il 15 febbraio 2022. La strategia dichiarata di Pfizer alla base dello sviluppo di questo farmaco è che i suoi ricercatori per primi si attendono per il futuro, indipendentemente da qualsiasi altro fattore, continui focolai di Covid che richiederanno quindi un trattamento possibilmente non soltanto ospedaliero (da cui anche la scelta di abbandonare il farmaco analogo ma utilizzabile solo per iniezione endovenosa). Si tratta in verità di una visione del tutto condivisibile, tanto da rendere incomprensibile la ragione per fino a ora non siano stati inclusi nelle strategie di lotta al Covid 19 i tanti farmaci già ora disponibili con un eccellente rapporto tra benefici e rischi, i quali rappresentano da tempo opzioni concrete e immediatamente utilizzabili.

La Food and drug administration ha approvato la fase 3 del trial sulle ‘staminali mesenchimali’, dopo una anno di blocchi burocratici. Fu lo studio che diede in assoluto i migliori risultati clinici, quasi il 100% di guariti, in pazienti molto gravi, senza alternative. Che ne pensa?
Le cellule staminali mesenchimali sono studiate da anni nella medicina rigenerativa e per il loro grande potenziale antiinfiammatorio e di modulazione della risposta immunitaria. A oggi le evidenze disponibili derivano dal trattamento di singoli casi o di piccoli gruppi di pazienti di solito con disegno non controllato. Lo studio di Miami, pur condotto su 24 pazienti, 12 trattati con staminali da cordone ombelicale e 12 con placebo, è stato invece realizzato con randomizzazione in cieco secondo i migliori standard e ha fornito risultati particolarmente incoraggianti: 91% di sopravvissuti a 30 giorni con le staminali e 42% con placebo. Ci sono dunque ottime probabilità che i futuri studi confermino e consolidino i benefici almeno di certi tipi di staminali (non sono tutte uguali) fino a renderle un’opzione per il Covid grave. È importante essere consapevoli che un trattamento tempestivo è l’approccio migliore per ridurre il rischio di progressione della malattia.

Il professor Zeno Bisoffi, con l’approvazione di Aifa, ha condotto il trial sull’ivermectina, per studiare la carica virale dopo l’uso del farmaco. Va detto che uno studio randomizzato in doppio cieco condotto in Israele, ha dato risultati molto positivi. Anche lo studio Aifa ha lo stesso end-point: la carica virale. Cosa ci dobbiamo aspettare dalla studio italiano (che uscirà a giorni)?
L’ivermectina è un farmaco antielmintico impiegato ormai da 50 anni e incluso nella lista dei farmaci essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, lista che seleziona i farmaci più importanti sulla base della loro efficacia e del loro profilo di sicurezza. Una recentissima revisione della letteratura scientifica, comparsa sull’American Journal of Therapeutics (Lippincott Williams & Wilkins) conclude sulla base di numerose evidenze, compresi studi clinici controllati e randomizzati in cieco, che l’ivermectina è grandemente efficace sia per la cura del Covid (in termini di riduzione della durata della malattia, delle ospedalizzazioni, della carica virale e della mortalità) che per la profilassi (in termini di riduzione della trasmissione), e tutto questo a prezzo di effetti avversi in genere limitati, prevedibili e gestibili. Mi pare la migliore premessa per un esito favorevole di qualsiasi altro studio ben progettato, e tuttavia non sembra esistere alcun serio motivo per non considerare fin da subito l’ivermectina come una concreta e conveniente opzione come del resto tanti medici fanno da tempo.

Direttore, un farmaco comune che – stando alla pubblicazione di Oxford – ha dato ottimi risultati è il budesonide, un antiasmatico. Ci sono molte controversie sull’impiego dei cortisonici. Cosa ci può dire a riguardo?
Un recente studio pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine ha documentato la capacità del corticosteroide budesonide, somministrato per via inalatoria (che ne riduce gli effetti avversi sistemici massimizzando quelli locali) entro sette giorni dall’inizio di sintomi anche lievi, di ridurre l’aggravamento e quindi il ricovero dell’85-90%, senza alcun effetto avverso di rilievo. I glucocorticosteroidi sono potenti antinfiammatori e soppressori della risposta immunitaria di grande efficacia in un numero enorme di condizioni cliniche, ma vanno usati con criterio. Questi farmaci si prestano non soltanto a una somministrazione per via orale o iniettiva, ma anche – appunto – per “inalazione”. Le attuali linee guida ministeriali li raccomandano solo quando la compromissione polmonare è tale da richiedere anche supplementazione di ossigeno, tuttavia c’è più di qualche ragione per ritenere che possa essere tardi. Molti medici con esperienza sul campo sostengono che i glucocorticosteroidi possono essere un’importante opzione ai primi segnai di interessamento polmonare, proprio in quanto i danni infiammatori possono ancora essere prevenuti. Ogni singolo farmaco va impiegato in maniera appropriata tenendo anche conto delle condizioni del paziente.

Che altri farmaci interessanti ci sono in sperimentazione, sempre in vista dell’autunno?
In questo momento, secondo le agenzie specializzate, ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. I numeri sono cresciuti rapidamente fino all’estate del 2020, per poi progressivamente assestarsi, e a inizio 2021 i prodotti in sviluppo erano già oltre 700, a suggerire che le aziende potrebbero aver realizzato il loro massimo sforzo innovativo e che ora puntino più che altro alla verifica della reale efficacia dei principi attivi progettati.

Novità sui vaccini?
È interessante notare, a proposito dei vaccini, che mentre noi ci confrontiamo solo con prodotti a Rna e a Dna/vettore basati su biotecnologie con pochissimi precedenti, su scala globale questi approcci rappresentano una minoranza, di fatto una cinquantina di prodotti a fronte di una stragrande maggioranza di vaccini contenenti il virus inattivato o la proteina spike preformata.

Cosa pensa del ‘movimento cure domiciliari’? Il gruppo è stato fondato da primari di Ematologia come Luigi Cavanna, primari di Malattie Infettive, direttori di Cardiologia, docenti di farmacologia e tanti medici di Medicina Generale. Quali sono le sue considerazioni?
Moltissimi medici malgrado le difficoltà fin dall’inizio di questa crisi curano i loro pazienti Covid assistendoli spesso direttamente al domicilio, prestandosi a seguirli a distanza, con enorme disponibilità e senza curarsi di orari di lavoro, giornate festive o altro. Nell’era della connessione globale è stato naturale iniziare a riunirsi in gruppi su piattaforme web, spesso anche semplici chat di whatsapp, fino ad arrivare a organizzazioni strutturate come il Movimento Ippocrate o il Comitato Cura Domiciliare Covid, per citare le due maggiori iniziative sul suolo nazionale. L’esperienza di ognuno di questi medici si fonda sulla cura diretta di decine e spesso centinaia di persone con Covid e insegna che iniziare alcuni trattamenti ai primi sintomi, spesso senza nemmeno attendere l’esito del test diagnostico (come l’approccio del Mario Negri sostiene da dicembre 2020), si rivela di regola cruciale per evitare il rischio che la malattia progredisca. Il lavoro di questi medici, per quanto abbia fin qui ricevuto scarsa visibilità mediatica, è di importanza fondamentale per ristabilire la salute e in non pochi casi salvare la vita di tante persone in difficoltà anche a causa della riorganizzazione emergenziale della sanità, che ancora oggi rende per molti difficile accedere ai servizi territoriali. Questo si riflette ovviamente anche in una minore pressione sulle strutture di ricovero. Per tutti questi motivi sarebbe sensato valorizzare queste esperienze recependole integralmente in una strategia aggiornata di gestione del Covid che metta al primo posto le cure appropriate e tempestive.

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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