Il neurologo Paolo M. Rossini spiega come funziona l’anticorpo monoclonale appena approvato dall’Fda e perché è un’ottima notizia.

“È un’ottima notizia per i pazienti, per le loro famiglie e anche per la scienza”. Esordisce così il professor Paolo M. Rossini, direttore della neurologia presso l’Ircss San Raffaele di Roma, alla richiesta di commentare l’approvazione da parte della Food and drug administration americana del primo farmaco contro l’Alzheimer, l’Aducanumab, nome commerciale Aduhelm.

Una approvazione attorno a cui girano dubbi e polemiche visto anche il parere contrario del Comitato indipendente dell’agenzia americana, secondo cui non ci sono evidenze sufficienti che il farmaco possa davvero aiutare i pazienti. Ma – polemiche a parte – che cos’è questo nuovo farmaco, come agisce e soprattutto per quali pazienti è indicato? Ce lo spiega il professor Rossini.

Primo farmaco che contrasta la malattia

La decisione della Fda fa notizia soprattutto perché sono circa 20 anni che non si approvano nuovi farmaci per l’Alzheimer. “Risale al 2003 l’approvazione dell’ultimo farmaco per i pazienti con Alzheimer, ma si trattava comunque di un prodotto destinato ad agire sui sintomi e non sull’evoluzione della malattia”, spiega Rossini. E, infatti, l’altra questione che rende così importante la decisione dell’agenzia americana è che questo è il primo farmaco approvato in modo specifico per contrastare il processo degenerativo della malattia e non i suoi sintomi.

Che cos’è aducanumab

Dunque, qualcosa di completamente nuovo rispetto a quanto già esistente. Aducanumab, infatti, è un anticorpo monoclonale messo a punto da Biogen che si è dimostrato efficace nella rimozione dell’accumulo di beta amiloide, causa della patologia, nei soggetti che si trovano in una fase molto iniziale della malattia.

“Si tratta di un anticorpo monoclonale che spara dei ‘missili intelligenti’ che in teoria vanno a colpire solo un bersaglio specifico e certamente sciolgono la beta-amiloide”, spiega Rossini che aggiunge: “I dati mostrano che c’è un rallentamento significativo e addirittura in alcuni casi il blocco della progressione della malattia. Certo va chiarito perché in alcuni soggetti è molto efficace e in altri meno, ma lo faremo man mano e potremo raffinare sempre di più la terapia. L’esperienza che abbiamo fatto con i vaccini anti-Covid ci ha insegnato ad essere più veloci e che la scienza è sempre in progress”.

Per chi è indicato

Insomma, pur con tutta la prudenza necessaria a non creare false o eccessive aspettative nei pazienti e soprattutto nei familiari che si prendono dolorosamente cura di chi soffre di Alzheimer, non c’è dubbio che questa notizia ti apre il cuore e fa sperare di aver trovato qualcosa che forse funziona. Ma chi potrà beneficiare di questa terapia? “In realtà – chiarisce il neurologo – è destinato a pochi pazienti perché i dati si riferiscono a soggetti con una forma iniziale di malattia che presentano beta-amiloide nel cervello perché questo farmaco va a colpire proprio questo peptide”.

La beta-amiloide fu identificata da Alois Alzheimer nel 1906 ed è una cartina di tornasole per la diagnosi di questa forma di demenza. “Ma sappiamo che il 30% dei pazienti che hanno questa malattia non presentano la beta-amiloide nel cervello. Quindi, su circa 700mila persone affette da Alzheimer il nuovo farmaco potrà essere indicato per circa il 10%, ma si tratta comunque di numeri importanti perché parliamo di circa 100mila pazienti”.

Perché è una buona notizia

Ma allora perché tanti dubbi? Secondo alcuni ricercatori, l’Aducanumab non ha dimostrato di rallentare la malattia e anche per questo, nell’ottobre 2020, Biogen aveva deciso di interrompere i test. Un nuovo studio ha poi dimostrato che con una somministrazione di dosi più elevate, l’efficacia aumentava. Ma alcuni ancora non sono convinti e, infatti, la Fda ha richiesto al produttore di condurre una nuova analisi per confermare i benefici del farmaco e se i risultati non saranno soddisfacenti, lo stesso farmaco potrebbe essere ritirato dal mercato.

“Voglio stare alla larga dalle polemiche scientifiche – commenta Rossini. Sono dalla parte dei malati e per me l’arrivo del primo farmaco in grado di modificare l’andamento naturale della malattia non può che essere una buona notizia. So bene che non rappresenta la soluzione definitiva e riguarderà un numero limitato di pazienti ma nella scienza la parte più difficile è salire il primo gradino, quelli successivi poi arriveranno e sarà più facile andare avanti. Certo, alcuni dati possono essere poco incoraggianti, ma il dato di fatto è che il farmaco è stato approvato dall’Fda che è la massima autorità in questo campo ed inoltre ci sarà la fase 4 con il monitoraggio dei pazienti”.

“È un’ottima notizia per i pazienti, per le loro famiglie e anche per la scienza”. Esordisce così il professor Paolo M. Rossini, direttore della neurologia presso l’Ircss San Raffaele di Roma, alla richiesta di commentare l’approvazione da parte della Food and drug administration americana del primo farmaco contro l’Alzheimer, l’Aducanumab, nome commerciale Aduhelm.

Il problema dei costi

E veniamo ad un’altra nota dolente. Come tutte le innovazioni, anche questa ha un costo molto elevato.  Secondo alcune indiscrezioni il prezzo di questa terapia potrebbe arrivare a 50mila dollari l’anno. Costi legati anche al fatto che il farmaco si somministra con una flebo in vena una volta al mese.

“I costi sono molto elevati perché bisogna tener conto anche degli esami clinici necessari per quantificare la beta-amiloide prima di iniziare la terapia e poi delle risonanze magnetiche per monitorare l’impatto del farmaco perché in circa il 10-15% dei casi può provocare edema cerebrale o micro emorragie”, dice il neurologo che conclude: “Se Aifa approverà questo farmaco sarà necessaria una riorganizzazione dei percorsi di cura per l’Alzheimer”.

I numeri della malattia

Nel mondo la malattia di Alzheimer colpisce circa 40 milioni di persone e solo in Italia ci sono circa un milione di casi, per la maggior parte over 60. Oltre gli 80 anni, la patologia colpisce 1 anziano su 4. Questi numeri sono destinati a crescere drammaticamente a causa del progressivo aumento della aspettativa di vita, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo: si stima un raddoppio dei casi ogni 20 anni.

 

Fonte: La Repubblica

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