La cultura di massa attraverso internet ha portato al dilagare di due poli opposti: da un lato i fautori del metodo omeopatico che lo conoscono e/o lo hanno provato su loro stessi e dall’altro i detrattori che spesso nella piena ignoranza (nel senso letterale della parola) esprimono un’avversione, abilmente pilotata da media e gruppi di potere economico/scientifico, che a volte diviene rabbiosa con toni volgari ed ingiuriosi. Molto spesso, nella completa ignoranza anche di certa stampa, gli omeopati sono stati messi sullo stesso piano di maghi, sciamani, e confusi con i movimenti novax, allo scopo di fare di tutta un’erba un fascio e quindi di screditare un’intera categoria di professionisti laureati in medicina e chirurgia.

Ma cosa si intende per omeopatia?

L’equivoco di fondo è che per molte persone l’omeopatia, la fitoterapia, gli integratori, l’omotossicologia, la medicina antroposofica, la medicina ayurvedica, i fiori di Bach e gli oligoelementi sono la stessa cosa. Occorre quindi fare chiarezza. 

La grande confusione deriva anche dal fatto che spesso molti medici mescolano queste diverse forme diagnostiche e terapeutiche basandosi su un loro comune denominatore: considerare il corpo come una unità biologica indivisibile, concetto che si è venuto a legare nel tempo al termine greco olos (intero), da cui Medicine Olistiche.

L’Omeopatia utilizza i prodotti derivanti dai tre regni della natura: vegetale, animale e minerale, in dose ponderale assai bassa, infinitesimale, ottenuta con diluizioni progressive, fino ad arrivare, in certi casi, all’assenza completa di molecole chimiche, ma dove sembra restare un segnale elettromagnetico.

La medicina omeopatica fin dai suoi albori ha trovato acerrimi nemici, soprattutto per il concetto innovatore di medicina centrata sull’individuo.

In Germania e in Austria, così come in Italia, si contestava l’individualità della cura ed il nuovo rapporto medico-paziente. Ben prima quindi dell’anno 1859 in cui Cannizzaro, ventiquattro mesi dopo la morte di Avogadro, avrebbe portato alla ribalta del mondo scientifico quello che noi chiamiamo appunto principio di Avogadro, che afferma che dopo la dodicesima diluizione omeopatica non ci siano più molecole di sostanza.

Era stato proprio il principio di medicina come scienza dell’individuo così concentrato sulla persona umana in contrapposizione alle visioni di una medicina materialistica e spersonalizzata ad avvicinare l’omeopatia al papato ed al clero (tanto che nacquero nello Stato Pontificio diverse condotte omeopatiche). Questo determinò anche il suo declino dopo la caduta del papato nel 1870, in quanto ritenuta medicina clericale e borbonica (l’omeopatia era entrata in Italia attraverso le truppe di occupazione borboniche).

Contrariamente a questi dati storici nel 2000 i media sono stati capaci di far credere che il Vaticano fosse contrario all’omeopatia con articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 21 ottobre 2000 dal titolo “La Cei condanna l’omeopatia”. La Adnkronos Salute del 18 novembre 2000 ricostruisce l’accaduto scusandosi per il fraintendimento e pubblicando una lettera inviata al professor Antonio Negro, allora direttore e fondatore della Scuola Italiana di Medicina Omeopatica Hahnemanniana, dal Cardinal Ruini, in cui si precisava che:

“riguardo alla medicina omeopatica non esiste un documento dei vescovi e tantomeno una preclusione da parte della Chiesa italiana”.

Nel 1821 l’omeopatia venne portata in America esattamente a New York da medici tedeschi ed olandesi. Contro di loro si schierarono i medici locali che costituirono l’American Medical Association (AMA) tutt’ora esistente. L’avversione era tanto forte che durante la guerra di secessione venne convinto Lincoln a escludere i medici omeopatici dalla guerra. Unica eccezione per il nipote di Benjamin Franklin, medico chirurgo omeopata. A New York c’era un numeroso gruppo tedesco di omeopati: quindi circolavano testi solo in latino e tedesco.

Per contrastare l’omeopatia e dimostrarne l’inutilità i medici americani chiamarono dalla Germania il Dottor Costantin Hering che però si appassionò così tanto al metodo omeopatico da divenire uno dei più grandi diffusori dell’omeopatia negli USA contribuendo alla nascita di diversi ospedali omeopatici.

Lo scontro con la medicina accademica o meglio con certi impiegati della scienza, etichettabili come scientisti, si è fatto sempre più duro con l’affermarsi della medicina basata sull’evidenza.

Stiamo parlando della Evidence-Based Medicine (EBM), l’illusione utopica nata nella seconda metà del ‘900 di avere in medicina delle conoscenze e prove granitiche ed introvertibili di efficacia dei farmaci.

In questa visione che sta producendo sempre più falle e punti deboli viene tralasciata la complessità dell’essere umano ed il concetto che conoscere la malattia non è la stessa cosa che conoscere il malato: siamo davanti a gradi di complessità differente.

Varie sono state le critiche, in questi ultimi anni, dall’interno della stessa scienza ufficiale al metodo EBM come abbiamo visto in un altro precedente articolo.

“Molti farmaci chimici che si pensano essere efficaci sono probabilmente poco migliori dei placebo, ma non c’è modo di saperlo in quanto i risultati negativi sono nascosti…. Poiché i risultati favorevoli sono pubblicati e quelli sfavorevoli sono omessi….il pubblico ed i professionisti del settore medico credono nell’efficacia di questi farmaci…. I clinical trials sono influenzati anche dal progetto dello studio, che è scelto per evidenziare i risultati positivi per gli sponsor (le BigFarma)”, come affermato dalla dott.ssa Marcia Angell ex direttrice della prestigiosa rivista medica New England.

Quindi se il problema è già nella purezza del metodo EBM in seno alla stessa medicina allopatica, figuriamoci quando si voglia comparare l’efficacia di un farmaco rispetto ad un rimedio, cosa che è stata fatta, a mio avviso in mala fede perché chi conosce l’omeopatia ben sa l’impossibilità di una simile sperimentazione. Nei confronti per esempio di una cefalea, la sperimentazione EBM pone in competizione di risultato un farmaco chimico con un rimedio omeopatico, ma mentre il primo è genericamente indirizzato verso la patologia, il secondo è scelto in base alla complessità dell’individuo ed alla sua reattività al sintomo cefalalgico. Confrontando un unico rimedio omeopatico con un allopatico il risultato sarà necessariamente a favore del farmaco chimico.

Una stessa patologia in base all’individualità di terreno viene affrontata con rimedi omeopatici diversi da caso a caso, e quindi come può confrontarsi con un farmaco chimico specifico per una patologia? Nella medicina basata sull’evidenza al centro è il farmaco, nella medicina basata sull’individuo al centro è la reattività del soggetto che andrà ad identificarsi in un rimedio omeopatico specifico e peculiare per lui in quel momento. Per questa ragione nel mio libro 40 anni di acqua fresca ho proposto il concetto di individual based medicine (IBM) in contrapposizione all’ Evidence-Based Medicine (EBM).

È evidente che il confronto tra la farmacologia moderna avviata da Pasteur, basata sulla lotta ai batteri ed ai virus non può reggere il confronto con una medicina basata, non sulla noxa patogena, ma sul terreno individuale.

Si tratta di due sistemi culturali diversi per cui il raffronto tra il farmaco ed il rimedio non è fattibile e se dei cultori della scienza tradizionale fanno questo paragone o ignorano i principi della clinica omeopatica o attuano un bluff intellettuale. La gente comune non può comprendere questa cosa, ma un medico tradizionale è in grado di comprenderla: si tratta di un bluff che si mette in gioco per far vincere la propria idea, in questo caso clinica scientifica, rispetto ad un’altra. Mentre un farmaco nella medicina tradizionale cura un sintomo o una patologia, un rimedio va a curare una patogenesi, cioè un terreno biologico individuale alterato.

Nella cultura in cui al centro non è la persona, ma il farmaco, a quella patologia si abbina esattamente quel farmaco. Quindi l’unico raffronto scientifico tra le due metodiche è sulla guarigione o miglioramento del paziente.

Che in un sistema scientifico questo avvenga attraverso uno, due o tre farmaci e in un altro sistema attraverso svariati rimedi, con il cambiamento degli stessi attraverso il tempo in base all’evoluzione della malattia, a un medico culturalmente retto non dovrebbe interessare, perché chi fa questo mestiere deve concentrarsi solo sulla guarigione ed il miglioramento del paziente.

Ecco perché le modalità di attacco all’omeopatia sono viziate: non c’è un interesse scientifico laico su quale sia il miglior modo di curare gli individui.

Nelle lotte contro l’omeopatia dobbiamo anche includere le scelte editoriali di alcune riviste come The Lancet (rivista di notevole livello nel campo accademico) che già nel 1997 in una meta-analisi raggruppava 186 studi realizzati contro placebo (di cui però solo 89 avevano dati estrapolabili per l’analisi) concludeva:

“I risultati della nostra meta-analisi sono incompatibili con l’ipotesi secondo la quale gli effetti dell’omeopatia sarebbero dovuti esclusivamente all’effetto placebo. Ciononostante questi studi non ci hanno fornito abbastanza elementi per provare che l’omeopatia è davvero efficace in tutti i casi”.

Questa conclusione che avrebbe aperto la strada ad ulteriori approfondimenti veniva accompagnata da un commento che lascia senza parole:

“Questo studio potrebbe ragionevolmente permetterci di sollecitare nuovi studi clinici controllati. Tuttavia, lo scienziato deve chiedersi se dedicare risorse importanti a questi studi sia giustificato, in assenza di basi razionali che giustifichino la scelta dell’omeopatia o di qualsiasi altra modalità particolare dell’omeopatia”.

Da qui si evince un pregiudizio ed un disinteresse ad approfondire lo studio dell’omeopatia in quanto fuori da schemi razionali.

Sempre The Lancet nel 2005 in un’altra meta-analisi: “ventuno studi sull’omeopatia e nove studi sulla medicina convenzionale sono stati di qualità superiore. La maggior parte degli odds ratio (un indicatore statistico che misura il grado di dipendenza tra variabili aleatorie) ha messo in luce un’azione benefica del trattamento. L’eterogeneità dei risultati è stata meno marcata per l’omeopatia che per la medicina convenzionale. È poco probabile che questa differenza possa essere attribuita al caso”. Ciò nonostante gli editorialisti concludono che i risultati di questa meta-analisi sono assolutamente negativi, tanto da titolare: “The End of Homeopathy”.

È evidente che questo comportamento da parte di una rivista che dovrebbe ritenersi scientifica non è stata assolutamente super partes. Tuttavia il rilievo mediatico che questo commento provocò si diffuse a macchia d’olio. Il Corriere della sera titolò: “È provato: l’omeopatia è inutile”.

Si è scoperto poi che gli autori avevano preso in considerazione solo otto studi dimenticando tre lavori che soddisfavano perfettamente i criteri di selezione e che avrebbero prodotto un risultato a netto vantaggio per l’omeopatia. Una critica sul modo in cui la selezione influì sul risultato della meta-analisi fu pubblicata sul Journal of Clinical Epidemiology da un medico olandese il Dr Rutten.

Recentemente si è più volte ripetuta una eco mediatica per uno studio australiano che sanciva la definitiva inattendibilità dell’omeopatia. Tutto iniziò nell’aprile 2014: alcuni giornali di tutto il mondo, riportarono la notizia che un “maxistudio australiano” bocciava l’omeopatia. La notizia fu ripresa a marzo 2015, quando il National Health and Medical Research Council (NHMRC) australiano pubblicò sul proprio sito le conclusioni di questo rapporto secondo cui vi sarebbero prove definitive che confermano l’inefficacia dei rimedi omeopatici in tutte le patologie possibili e immaginabili.

Questa ricerca, in realtà, non costituiva in nessun modo un nuovo studio clinico. Si trattava di una revisione di studi sull’omeopatia già effettuati, anche molto vecchi, che non era stata pubblicata su alcuna rivista scientifica, né indicizzata nelle banche dati biomediche, cosa che invero attesta la scientificità di un lavoro.

Il titolo del quotidiano britannico The Guardian fu categorico: “Non ci sono evidenze scientifiche in omeopatia. Il dibattito è concluso”. Per lo studio furono presi in esame 57 systematic reviews (ovvero studi che riassumono la letteratura scientifica su un determinato argomento), 343 articoli presentati da associazioni a favore dell’omeopatia e 48 articoli segnalati da privati cittadini, per un totale di 1.800 ricerche. Tra queste, se ne selezionarono 225 afferenti a una settantina di diverse patologie. Le ricerche furono prese in esame solo se presentavano un gruppo di controllo, ossia un gruppo di persone a cui veniva somministrato un rimedio placebo per verificare l’effettiva efficacia del rimedio omeopatico. Quella del NHMRC fu in pratica una revisione che valutò l’attendibilità di questi studi, concludendo che la stessa fosse inesistente.

Secondo il principale autore della ricerca, Paul Glasziou, chi sceglie di curarsi con l’omeopatia lo fa a proprio rischio e pericolo, perché decide di rimandare altri tipi di cure più utili.

Il documento australiano è stato oggetto di un’inchiesta per presunte irregolarità nella modalità con cui è stato svolto. Inoltre il professor Peter Brooks, presidente del comitato del NHMRC, ha omesso di dichiarare che era membro del gruppo di pressione anti-omeopatia Friends of Science in Medicine.

Assai poco si parla di omeopatia neo-natale o veterinaria, dove ben difficile è chiamare in causa la suggestione. Altrettanto non si conoscono le sperimentazioni sui vegetali dove si è constatato il cambiamento dell’espressione genica con dosi infinitesimali di rimedio omeopatico.

In India il gruppo del professor Jayesh Bellare porta avanti da anni ricerche pubbliche sulle nano particelle nelle diluizioni omeopatiche.

Per quel che riguarda le diluizioni omeopatiche occorre ricordare che il volume ottimale con cui le cellule si scambiano informazioni nel nostro corpo è dell’ordine di picogrammi e fentogrammi: gli stessi ordini di grandezza delle diluizioni omeopatiche comunemente usate.

Poco si parla anche delle ricerche sulle nano particelle nelle diluizioni omeopatiche condotte dal gruppo del professor Jayesh Bellare in India e le ricerche del fisico Giuseppe Vitiello sulla teoria fisica quantistica dei campi (acqua informata).

Quello che è viziato nel modo di attaccare l’omeopatia è che si nega l’evidenza di questo tipo di medicina semplicemente perché la modalità di cura non rientra nelle nostre categorie di pensiero razionale, ma questo è un pregiudizio che la medicina non si può permettere perché in ballo c’è la salute delle persone. Se c’è una guarigione e se ne nega l’evidenza soltanto perché non si capisce, ciò è deontologicamente inaccettabile. Se poi vogliamo valutare che è molto più difficoltoso curarsi con l’omeopatia nel mondo occidentale basato sull’efficienza ci spostiamo su un altro livello, antropologico-cultural-sociale.

“Lo scienziato è in perenne ricerca. La ricerca non si esaurisce mai ed è urgente un nuovo slancio di creatività e di innovazione da parte degli scienziati e dei medici di tutte le specialità. I problemi della salute pubblica di oggi e di domani sono immensi e, per farvi fronte, dobbiamo aprire la nostra cooperazione ad altre discipline, ad altre scuole di pensiero. In verità, si può addirittura parlare, in alcuni ambiti, di castrazione intellettuale o quantomeno di conformismo. Ciò rende necessario sin d’ora un dibattito, uno spirito di apertura che consenta di lasciare spazio a idee più rivoluzionarie. Non c’è, a mio avviso, una medicina detta “ufficiale” ed una medicina di secondo grado detta “alternativa” o “integrativa”, ma una sola medicina, quella che guarisce!”

 

 

Fonte: REWRITERS

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