Il dolore e gli altri sintomi che fanno pensare all’infarto. La corsa in ospedale, per arrivare prima possibile al trattamento, ricordando sempre che “il tempo è cuore” e che quanto prima si affronta la situazione tanto maggiori sono le possibilità di limitare i danni dell’ischemia. E poi…. Poi, in alcuni casi purtroppo, nonostante i trattamenti che vanno sempre seguiti per prevenire nuove lesioni, si può andare incontro ad un nuovo episodio ischemico. Ora, per limitare questo rischio, arriva una nuova tecnica studiata in una ricerca svedese coordinata da David Erlinge, dell’Università di Lund, pubblicata su The Lancet.

La strategia punta diritto su quelle lesioni aterosclerotiche che non vengono individuate dalle normali angiografie e, proprio perchè ricche di cellule adipose che le rendono particolarmente friabili, potrebbero frammentarsi creando nuovi coaguli in grado di ostruire nuovamente i vasi ed indurre l’ischemia. Il metodo si basa sull’azione combinata di due tecniche, la Nirs (Near-Infrared Spectroscopy), che sfrutta l’azione di “detective” dei raggi infrarossi e la Ivus, basata invece sull’analisi con gli ultrasuoni fatta dall’interno del vaso. In pratica, mentre una normale angiografia con mezzo di contrasto rivela solamente quanto avviene sulla parte più interna dei vasi sanguigni, queste due tecniche associate permettono di valutare anche l’intera struttura arteriosa e quindi di scoprire se ci sono anche nella parete del vaso lesioni potenzialmente a rischio perché ricche di grassi. Queste diventano “colorate” con un particolare tono cromatico di giallo, che le rende quindi visibili. Il test per scoprire queste alterazioni, secondo quanto riportato nello studio, è invasivo. Si fa risalire con un particolare sondino fino al cuore il “rilevatore”, associato ad una comune angiografia, per poi ottenere lo “spaccato” delle lesioni maggiormente vulnerabili e a rischio di rottura.

La ricerca pubblicata su The Lancet ha preso in esame quasi 900 persone che avevano subito un infarto e trattate con la classica angioplastica seguita da posizionamento dello stent (reticella che mantiene allargata l’arteria) reclutate in 16 centri di Svezia, Norvegia e Danimarca. Questi soggetti sono poi stati seguiti nel tempo e nel 14,4% dei casi, nei quattro anni successivi al primo infarto, hanno manifestato nuove difficoltà circolatorie. In otto pazienti su cento, la causa delle ischemie che sono comparse era legata ad una placca non visualizzata, e quindi non trattata. Addirittura, stando ai dati, in ogni persone sarebbero mediamente quattro le placche non trattate. Riconoscerle sarebbe invece fondamentale, in chiave di prevenzione di nuovi episodi. L’obiettivo del doppio test con luce ed ultrasuoni sarebbe proprio questo: identificare le placche ricche di grassi e quindi a rischio, che ancora sfuggono alle analisi convenzionali. Manca purtroppo, al momento, la possibilità di trattare specificamente le lesioni che sono state individuate ma già si sono realizzati studi pilota con questo fine. In attesa di conferme sulle strategie d’approccio alle lesioni su numeri significativi, intanto, la ricerca va avanti.

 

Fonte: La Repubblica

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