L’enorme numero di nuove specie di virus identificate di recente non solo sta imponendo una modifica del loro sistema di classificazione, ma indica anche che la loro comparsa è avvenuta in tempi e con modalità differenti.

Microfotografie elettroniche in falsi colori. Da sinistra a destra e dall’alto al basso: il virus del vaiolo, il batteriofago P1, il papillomavirus, il virus del mosaico del tabacco, il virus respiratorio sinciziale e il virus di Ebola. Le immagini non sono in scala (© Science Photo Library/AGF)

 

Mya Breitbart è andata a caccia di nuovi virus nei termitai in Africa, tra le foche antartiche e nell’acqua del Mar Rosso. Eppure, per trovarne le è bastato cercare nel giardino di casa in Florida. Intorno alla sua piscina si trovano ragni della specie Gasteracantha cancriformis dall’aspetto curioso: un corpo bianco tondeggiante, macchie nere e sei spine scarlatte che li rendono simili a un’arma medievale. Ma quello che nascondevano all’interno è stato ancora più sorprendente per Breitbart, esperta di ecologia virale all’University of South Florida a St Petersburg. Con i suoi colleghi ha prelevato e macinato alcuni ragni, scoprendo due virus prima sconosciuti alla scienza.

Anche se dall’inizio del 2020 noi esseri umani ci siamo dedicati soprattutto a un virus particolarmente cattivo, ce ne sono innumerevoli altri ancora da scoprire. Secondo le stime degli scienziati, solo negli oceani in un qualsiasi momento si trovano circa 1031 singole particelle virali: dieci miliardi di volte il numero stimato delle stelle nell’universo conosciuto.

È sempre più evidente l’importanza dei virus per gli ecosistemi e gli organismi. Minuscoli ma potenti, da milioni di anni stimolano l’evoluzione trasportando geni da un ospite all’altro. Negli oceani aprono le membrane dei microrganismi, riversandone il contenuto nell’acqua e riempiendo di sostanze nutritive la rete alimentare. “Senza i virus non esisteremmo”, spiega Curtis Suttle, virologo dell’Università della British Columbia a Vancouver, in Canada.

Sono solo 9110 le specie con un nome, registrate dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV), ma naturalmente si tratta di una parte irrisoria rispetto al totale. Un motivo è che in passato la classificazione ufficiale di un virus richiedeva agli scienziati di metterlo in coltura nell’ospite o nelle sue cellule: un processo molto dispendioso in termini di tempo, o addirittura impossibile. Un altro motivo è che la ricerca ha dato la priorità ai virus che provocano malattie negli esseri umani o negli organismi importanti per noi, come gli animali da allevamento e le piante coltivate. Come ci ha ricordato la pandemia di COVID-19, però, è importante conoscere i virus che potrebbero saltare da un ospite all’altro, minacciando noi e i nostri animali o piante.

Nell’ultimo decennio il numero dei virus conosciuti e classificati è esploso, grazie ai progressi della tecnologia per scoprirli e a un recente cambiamento delle norme sull’identificazione di nuove specie, che permettono di dare un nome a un virus senza doverlo far crescere insieme con il suo ospite. Una delle tecniche più importanti è la metagenomica, che permette ai ricercatori di campionare i genomi di un ambiente senza dover far crescere ciascun virus singolarmente. Nuove tecnologie, come il sequenziamento dei singoli virus, ne stanno aggiungendo all’elenco altri ancora, alcuni dei quali, pur essendo rimasti nascosti fino a oggi, sono incredibilmente diffusi. Secondo Breitbart, è il periodo ideale per fare ricerche di questo tipo: “Credo che, da molti punti di vista, sia arrivato il momento del viroma”.

Nel solo 2020 l’ICTV ha aggiunto alla propria lista ufficiale 1044 specie, e altre migliaia aspettano di essere descritte e nominate. Questa proliferazione dei genomi ha stimolato i virologi a riconsiderare il modo di classificare i virus e ha contribuito a chiarirne l’evoluzione. Ci sono prove convincenti che i virus siano comparsi più volte, che cioè non abbiano una sola origine.

In ogni caso, la dimensione del mondo dei virus è ancora in gran parte sconosciuta. Jens Kuhn, virologo alla sede dell’US National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Fort Detrick, in Maryland, commenta: “Non abbiamo assolutamente idea di che cosa ci sia in giro”.

Qua, là e dappertutto

Tutti i virus hanno in comune due cose: ognuno racchiude il proprio genoma in un capside (un involucro proteico) e per riprodursi si affida a un ospite, come una persona, un ragno o una pianta. A parte queste regole generali, però, le variazioni sono infinite.

Esistono circovirus minuscoli, con solo due o tre geni, e mimivirus enormi, che hanno centinaia di geni e sono più grandi di alcuni batteri. Ci sono i fagi, che somigliano a lander lunari e infettano i batteri, e naturalmente le sfere appuntite letali che il mondo ormai conosce fin troppo bene. Ci sono virus con materiale genetico sotto forma di DNA, mentre altri si basano sull’RNA, e c’è addirittura un fago che adotta un alfabeto genetico alternativo, in cui la base chimica A del tipico sistema ACGT (adenina, citosina, guanina e timina) è sostituita da una molecola diversa, detta Z [diaminopurina].

Gli studi sui ragni del genere Gasteracantha hanno scoperto due virus prima sconosciuti alla scienza (© Science Photo Library/AGF)

I virus sono così onnipresenti che possono comparire perfino quando gli scienziati non li cercano. Quando Frederik Schulz stava esaminando le sequenze genomiche nell’acqua di scarico non aveva intenzione di studiare i virus: era il 2015 e questo dottorando dell’Università di Vienna era a caccia di batteri con la metagenomica. La tecnica consiste nell’isolare il DNA di un intero gruppo di organismi, spezzettandolo in frammenti e sequenziandoli tutti. Successivamente un programma ricompone i frammenti formando genomi individuali; è come costruire centinaia di puzzle partendo da pezzi mischiati tra loro.

In mezzo ai genomi dei batteri, Schulz non ha potuto fare a meno di notare un genoma virale gigantesco – che saltava all’occhio perché conteneva i geni per un capside virale – con addirittura 1,57 milioni di coppie di basi. Si è scoperto che era un virus gigante, appartenente a un gruppo i cui membri sono grandi in termini sia di genoma sia di dimensioni assolute (in genere almeno 200 nanometri – miliardesimi di metro – di larghezza). Questi virus infettano amebe, alghe e altri protisti, e perciò sono in grado di influenzare sia gli ecosistemi acquatici sia quelli terrestri.

Schulz, oggi microbiologo allo US Department of Energy Joint Genome Institute a Berkeley, in California, ha deciso di cercare i virus correlati negli insiemi di dati metagenomici. Nel 2020, in un solo articolo, ha descritto con i suoi colleghi oltre 2000 genomi del gruppo che contiene i virus giganti; in precedenza, nelle banche dati pubbliche erano stati depositati solo 205 genomi di questo tipo.

Per scoprire nuove specie i virologi hanno dato uno sguardo anche a noi stessi. L’esperto di bioinformatica virale Luis Camarillo-Guerrero ha collaborato con alcuni colleghi del Wellcome Sanger Institute a Hinxton, nel Regno Unito, per analizzare metagenomi provenienti dall’intestino umano, creando una banca dati che contiene più di 140.000 tipi di fago. Oltre la metà di essi era sconosciuta alla scienza. Il loro studio, pubblicato a febbraio, ha confermato quanto già scoperto da altri: uno tra i virus più comuni che infettano i batteri nel nostro intestino è un gruppo detto crAssphage (che prende il nome dal programma per assemblaggio incrociato, o crossassembly, che l’ha rilevato nel 2014). Nonostante la sua abbondanza non si sa molto sul suo contributo al nostro microbioma, spiega Camarillo-Guerrero, che oggi lavora all’Illumina di Cambridge, nel Regno Unito, un’azienda che sequenzia il DNA.

La metagenomica ha rivelato molti virus, ma ne ignora molti altri. I virus a RNA non sono sequenziati nei metagenomi abituali, quindi il microbiologo Colin Hill dell’University College di Cork, in Irlanda, li ha cercati con i suoi colleghi nei database degli RNA, detti metatrascrittomi. Di solito gli scienziati usano questi dati per capire i geni di una popolazione che si stanno trasformando attivamente in RNA messaggero per formare proteine, ma possono comparire anche i genomi di virus a RNA. Usando tecniche computazionali per estrarre sequenze dai dati, il gruppo ha scoperto 1015 genomi virali nei metatrascrittomi provenienti da campioni di fanghi e acqua. Ancora una volta, con un solo articolo avevano aumentato enormemente il numero dei virus conosciuti.

 

Il tupanvirus, che si trova nelle amebe, è un virus gigante: lungo oltre 1000 nanometri, tra tutti i virus conosciuti ha il più grande set di geni che codificano per proteine (© J. Abrahão e altri/”Nature Commun.”)

Anche se è possibile che queste tecniche assemblino per caso genomi inesistenti, i ricercatori hanno sistemi di controllo della qualità per evitare questo rischio. Ci sono però altri aspetti oscuri. Per esempio è estremamente difficile trovare le specie virali con membri molto diversificati, perché i programmi dei computer fanno fatica ad abbinare i pezzi delle sequenze variegate.

L’alternativa è sequenziare i genomi virali uno alla volta, come fa il microbiologo Manuel Martinez-Garcia all’Università di Alicante, in Spagna, che ha deciso di provare a far gocciolare acqua marina attraverso una macchina selezionatrice per isolare i singoli virus, ne ha amplificato il DNA e si è messo a sequenziarli.

Al primo tentativo ha trovato 44 genomi. Si è scoperto che uno di essi rappresenta uno dei virus più diffusi nell’oceano. Questo virus è così variegato – i pezzi del suo puzzle sono così diversi da una particella virale all’altra – che il suo genoma non era mai comparso negli studi di metagenomica. Il gruppo lo chiama 37-F6 per la sua posizione nella capsula da laboratorio originale, ma Martinez-Garcia scherzando dice che, vista la sua capacità di nascondersi sotto gli occhi di tutti, bisognerebbe chiamarlo 007 come il personaggio della superspia James Bond.

Gli alberi genealogici dei virus

Il James Bond dei virus oceanici non ha un nome di specie ufficiale in latino, e lo stesso vale per gran parte delle migliaia di genomi virali scoperti con la metagenomica nell’ultimo decennio. Quelle sequenze hanno posto l’ICTV di fronte a un dilemma: basta un genoma per dare il nome a un virus? Fino al 2016, per proporre all’ICTV un nuovo virus o gruppo tassonomico gli scienziati dovevano mettere in coltura il virus e il suo ospite, a parte qualche rara eccezione. Quell’anno, però, dopo un dibattito vivace ma cordiale, i virologi hanno concordato che un genoma fosse sufficiente.

Sono arrivate in abbondanza proposte di nuovi virus e gruppi. Spesso però i rapporti evolutivi tra questi virus non erano chiari. Di solito i virologi classificano i virus in base alla loro forma (per esempio lungo e sottile, oppure una testa con una coda) o al loro genoma (DNA o RNA, elica singola o doppia), ma questo stranamente non dice molto sulla loro discendenza comune. Per esempio, sembra che i virus con genoma a DNA con doppia elica siano comparsi in almeno quattro occasioni diverse.

La classificazione originale dei virus dell’ICTV, completamente distinta dall’albero delle forme di vita cellulari, comprendeva solo i piani bassi della gerarchia evolutiva, da specie e genere in su fermandosi all’ordine, il livello per esempio dei primati o delle conifere nella classificazione della vita pluricellulare. Non esistevano livelli più alti. E molte famiglie virali fluttuavano da sole, senza collegamenti a virus di altro tipo. Così nel 2018 l’ICTV ha aggiunto livelli di rango superiore: classi, phyla e regni (kingdom).

In cima ha inventato i “reami” (realm), che fanno da controparte ai domini della vita cellulare: batteri, archea ed eucarioti. (Qualche anno fa alcuni scienziati hanno ipotizzato che alcuni virus potessero trovare posto nell’albero evolutivo degli organismi cellulari, ma quell’idea non è stata accolta con molto favore.)

Contrariamente alle forme di vita cellulari, i virus non hanno un unico antenato comune e perciò non è possibile crearne un albero filogenetico. L’International Committee on Taxonomy of Viruses riconosce invece sei reami (il numero è aggiornato al 2021), definiti dalle somiglianze tra i geni e le proteine dei rispettivi membri, derivanti ciascuno da un diverso antenato comune. (Fonte: ICTV)

L’ICTV ha delineato i rami dell’albero e ha raggruppato i virus a RNA in un reame detto Riboviria. Ne fanno parte SARS-CoV-2 e altri coronavirus, che hanno un genoma con RNA a elica singola. Ma in seguito è stata l’intera comunità dei virologi a proporre ulteriori raggruppamenti tassonomici. In effetti Eugene Koonin, biologo evolutivo al National Center for Biotechnology Information a Bethesda, in Maryland, aveva formato un gruppo per analizzare tutti i genomi virali, oltre alle ricerche più recenti sulle proteine virali, per creare una prima bozza di tassonomia.

Hanno riorganizzato i Riboviria e proposto altri tre reami. A parte qualche battibecco sui dettagli, racconta Koonin, nel 2020 la tassonomia è stata ratificata dai membri dell’ICTV senza molti problemi. Nel 2021 hanno avuto il via libera altri due reami, ma secondo Koonin i quattro originali probabilmente resteranno i più grandi. E ipotizza che alla fine si possa arrivare anche a 25 reami.

Il reame di SARS-CoV-2 e dei suoi parenti. Il suffisso evidenziato in corsivo nella colonna di destra è caratteristico dello specifico livello tassonomico (Fonte: CTV Coronaviridae Study Group. “Nature Microbiol.” 5, 536–544, 2020)

Quel numero rafforza il sospetto di molti scienziati che i virus non abbiano un antenato comune. “Non esiste una sola origine per tutti i virus”, commenta Koonin. “Non c’è proprio.” Significa che probabilmente i virus sono comparsi più volte durante la storia della vita sulla Terra, e non c’è motivo per credere che non possa succedere ancora. “La nascita da zero di nuovi virus è ancora in corso”, spiega Mart Krupovic, virologo all’Institut Pasteur di Parigi, coinvolto sia nelle decisioni dell’ICTV sia nel gruppo tassonomico di Koonin.

I virologi hanno varie ipotesi su come siano comparsi i reami. Forse ebbero origine da elementi genetici indipendenti, agli albori della vita sulla Terra, addirittura prima che prendessero forma le cellule. Forse sfuggirono a cellule intere o risultarono dalla loro “degenerazione”, abbandonando gran parte delle attrezzature cellulari per uno stile di vita minimalista. Koonin e Krupovic propendono per un’ipotesi ibrida, secondo cui quegli elementi genetici primordiali avrebbero rubato dei geni agli esseri viventi cellulari per formare le proprie particelle virali. Inoltre, poiché i virus comparvero più volte è possibile che abbiano avuto origine in modi diversi, commenta Kuhn, che a sua volta ha fatto parte del comitato dell’ICTV e ha lavorato alla proposta della nuova tassonomia.

Così, anche se l’albero genealogico dei virus e quello degli esseri cellulari sono distinti, i loro rami si toccano e tra i due c’è un passaggio di geni. Il fatto di considerarli “vivi” oppure no dipende da come ciascuno definisce la vita. Molti ricercatori non li ritengono esseri viventi, ma altri non sono d’accordo. “Tendo a credere che siano vivi”, sostiene il bioinformatico Hiroyuki Ogata, che lavora con i virus all’Università di Kyoto, in Giappone. “Si stanno evolvendo, hanno un materiale genetico composto da DNA e RNA, oltre a un ruolo di primo piano nell’evoluzione di tutta la vita.”

Molti riconoscono che la classificazione attuale è solo il primo tentativo e anzi, secondo alcuni virologi è piuttosto caotica. Numerose famiglie sono ancora prive di collegamenti con qualsiasi dominio. “Il lato positivo è che stiamo cercando di mettere un po’ in ordine quel caos”, commenta Martinez-Garcia.

Influenza sul mondo

La massa totale dei virus sulla Terra corrisponde a quella di 75 milioni di balenottere azzurre, e gli scienziati sono sicuri che siano determinanti per le reti alimentari, gli ecosistemi e perfino l’atmosfera del pianeta. La scoperta sempre più rapida di nuovi virus “ha rivelato numerosi nuovi modi in cui influiscono direttamente sugli ecosistemi”, spiega Matthew Sullivan, virologo ambientale dell’Ohio State University a Columbus. Gli scienziati però stentano ancora a quantificare il loro impatto.

“Per ora la situazione non ci è molto chiara”, commenta Ogata. Nell’oceano i virus possonouscire dagli ospiti microbici rilasciando carbonio, destinato a essere riciclato da altri che si nutrono dell’interno dell’ospite e poi producono anidride carbonica. In tempi più recenti, però, gli scienziati sono anche arrivati a capire che spesso le cellule scoppiate si raggruppano e finiscono sul fondo dell’oceano, togliendo carbonio dall’atmosfera.

Sulla terraferma il permafrost scongelato è un’importante fonte di carbonio, spiega Sullivan, e sembra che in quell’ambiente i virus siano essenziali per il suo rilascio da parte dei microbi. Nel 2018, insieme con i suoi colleghi, Sullivan ha descritto 1907 genomi e frammenti virali, prelevati dal permafrost scongelato in Svezia, tra cui geni di proteine che potrebbero influire sul modo in cui i composti del carbonio si decompongono e, potenzialmente, diventano gas serra.

I virus inoltre possono influenzare gli altri organismi rimescolandone il genoma. Per esempio, quando trasferiscono da un batterio all’altro i geni della resistenza agli antibiotici, possono dare origine a ceppi di batteri farmacoresistenti. Col tempo, spiega Camarillo-Guerrero, questo tipo di trasferimento può creare forti cambiamenti evolutivi in una popolazione. E non solo nei batteri: si stima che l’otto per cento del DNA umano abbia origine virale. I nostri antenati mammiferi, per esempio, acquisirono da un virus un gene essenziale per lo sviluppo della placenta.

Per rispondere a molte domande sullo stile di vita dei virus gli scienziati non potranno accontentarsi dei genomi: dovranno trovare i loro ospiti. Alcuni indizi si potrebbero nascondere nel virus stesso: per esempio, potrebbe contenere nel proprio genoma un frammento riconoscibile del materiale genetico dell’ospite.

Martinez-Garcia e i suoi colleghi hanno adottato il sequenziamento di singole cellule per identificare i microbi che contenevano il virus 37-F6 appena scoperto. Anche l’ospite è uno tra gli organismi marini più diffusi e variegati: è un batterio noto col nome di Pelagibacter. In alcune acque il Pelagibacter costituisce la metà delle cellule presenti. Se dovesse scomparire all’improvviso solo questo virus, spiega Martinez-Garcia, la vita negli oceani subirebbe un forte squilibrio.

 

Pelagibacter (© NOAA: Ocean Exploration and Research)

Per comprendere appieno l’impatto di un virus, gli scienziati devono capire come cambia l’ospite, spiega Alexandra Worden, ecologa evolutiva al GEOMAR Helmholtz-Zentrum für Ozeanforschung a Kiel, in Germania. Sta studiando alcuni virus giganti, portatori dei geni per le rodopsine, proteine che raccolgono la luce. In teoria questi geni potrebbero essere utili agli ospiti – per finalità come trasferire energia o emettere segnali – ma le sequenze non ne danno conferma. Per scoprire che cosa succede con questi geni delle rodopsine, Worden prevede di mettere in coltura insieme l’ospite e il virus, per esaminare come funziona la coppia in questo stato misto di “virocellula”. “La biologia cellulare – spiega Worden – è l’unico modo per sapere davvero che ruolo hanno, come influenzano il ciclo del carbonio.”

Al ritorno in Florida, Breitbart non ha messo in coltura i suoi virus dei ragni, ma ha imparato qualcos’altro su di essi. Ritiene stupefacente la categoria a cui appartengono quei due virus, a causa dei loro genomi minuscoli e circolari, che codificano solo un gene per il rivestimento proteico e uno per la proteina di replicazione. Uno dei virus non si trova nelle zampe del ragno, ma solo nel resto del corpo, quindi secondo lei in realtà infetta qualche creatura di cui il ragno si nutre. L’altro si trova in tutto il corpo, così come nelle uova e nei piccoli, così Breitbart ritiene che si trasmetta dal genitore alla prole. Per quanto è in grado di dire Breitbart, sembra che non provochi loro alcun danno.

E aggiunge che con i virus “in realtà trovarli è la parte più facile”. Molto più impegnativo è capire come influenzino i cicli di vita degli ospiti e l’ecologia. Ma per prima cosa, conclude Breitbart, i virologi devono rispondere a una tra le domande più difficili di tutte: “Come si sceglie quello da studiare?”

 

Fonte: Le Scienze

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