Che il sistema pensionistico italiano sia in precario equilibrio è cosa tristemente nota. La popolazione invecchia, si fanno meno figli e senza una ripresa sostenuta dell’occupazione il rapporto tra pensionati e lavoratori attivi è destinato inesorabilmente a peggiorare. Un problema che esploderà nella sua interezza nel giro di un decennio, hanno ribadito in più occasione gli esperti, quando anche gli ultimi baby boomer saranno andati in pensione: la spesa pubblica nel 2025, secondo le ultime stime, supererà i 335 miliardi (si veda articolo nella pagina a fianco). Ma c’è già un nuovo segnale di allarme che suona in questi giorni e che Milano Finanza è in grado di anticipare: a diffonderlo è una fonte decisamente autorevole, cioè l’Inps, che quest’anno prevede un rosso vicino ai 10 miliardi.

Rosso da inflazione. Nel suo bilancio preventivo 2023 l’Istituto Nazionale di Previdenza ha stimato infatti un risultato economico di esercizio negativo per oltre 9,7 miliardi di euro, in netto peggioramento rispetto al dato positivo di 1,8 miliardi del bilancio assestato 2022. E questa volta il rosso non è dovuto alla situazione emergenziale che ha caratterizzato il periodo della pandemia nel 2020, quando il rendiconto aveva registrato un disequilibrio pari addirittura a 25,5 miliardi a causa delle misure straordinarie messe in atto dal governo per sostenere lavoratori e imprese passando per l’Inps, a partire dalla cassa integrazione per il Covid. Lo squilibrio atteso è dovuto piuttosto all’inflazione, che farà salire la spesa pensionistica con lo scattare del meccanismo della perequazione automatica, ovvero dell’aumento periodico dell’assegno collegato all’inflazione che, si stima, pesa per circa 20 miliardi di euro, cui si aggiunge la contrazione dell’occupazione che riguarda diversi settori lavorativi fino ad arrivare al risultato negativo complessivo di circa 10 miliardi.

Alert gestioni pubbliche. Nel caso dei fondi pensione dei lavoratori dipendenti, è attesa per esempio una frenata del risultato 2023 a 4,7 miliardi, meno della metà rispetto ai 10,1 miliardi del 2022. Ma ci sono già gestioni in rosso che quest’anno potrebbero peggiorare. Il disavanzo più pesante è delle gestioni pubbliche, che hanno chiuso il 2022 in rosso per 14,9 miliardi e, se le previsioni saranno rispettate, potrebbe fare -18,7 miliardi. Tanto che il collegio dei sindaci, che ha espresso il proprio parare sul bilancio di previsione, ha ribadito «la necessità di un’iniziativa congiunta del civ (l’organo di indirizzo e vigilanza dell’ente, ndr) e degli altri organi di vigilanza dell’Inps affinché si possa pervenire a una complessiva popolazione dei conti assicurativi di tali gestioni e alla verifica di eventuali crediti che da tali attività possano essere evidenziati», si legge nel documento. Numeri che confermano un disequilibrio che era già stato segnalato dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, nel corso dell’incontro sulla previdenza tenutosi a fine gennaio tra la ministra del Lavoro Marina Calderone e le parti sociali. «Il quadro al 2029 non è positivo, il rapporto tra lavoratori e pensionati cala dall’1,4 all’1,3 per arrivare al 2050 a 1», aveva dichiarato Tridico rilevando criticità evidenti proprio nella gestione del pubblico impiego, aggravate dagli stipendi erosi dall’inflazione. Ma quella del settore pubblico non è l’unica gestione in rosso: in perdita ci sono la gestioni dei commercianti, quella degli artigiani e dei coltivatori diretti. E per queste ultime due il rapporto tra lavoratori e pensionati previsto quest’anno è già sotto la soglia di 1, pari rispettivamente a 0,83 e a 0,4.

Occhio anche alla liquidità di cassa. Al risultato negativo per 9,7 miliardi, stima l’Inps, dovrebbe accompagnarsi anche la riduzione del patrimonio, aggravando il quadro, tanto che «il Collegio non può non osservare che continuano a sussistere fattori erosivi di carattere strutturale», si legge ancora nel documento. Dove c’è un altro passaggio di attenzione quando «si evidenzia il notevole decremento delle disponibilità liquide rispetto a quanto previsto nella nota di assestamento 2022, che ad avviso del Collegio richiede un costante monitoraggio nel corso dell’anno dei flussi di cassa». In pratica l’invito è spingere sugli incassi contributivi. Il problema di sostenibilità finanziaria delle pensioni, su cui grava tra l’altro una spesa assistenziale esplosa negli ultimi anni a 141 miliardi, appare insomma ben più impellente rispetto al lontano orizzonte del 2050.’Italia ha oggi un età di pensionamento media di circa 63 anni, contro i 65 anni della media europea, malgrado l’aspettativa di vita sia tra le più elevate al mondo.

Nella previdenza c’è una voragine da chiarire

Se questi sono i numeri, qualcosa decisamente non va. E qualche spiegazione convincente sarebbe doverosa. Da dove saltano fuori quei 36 miliardi e mezzo di euro che da qui al 2025 dovremmo pagare in più per le pensioni rispetto alle previsioni pubblicate soltanto qualche mese fa? La Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) elaborata dal ministero dell’Economia e approvata all’inizio di novembre dello scorso anno dice che la spesa per le pensioni nel 2025 raggiungerà 355 miliardi e 420 milioni.

Ma nella relazione della Corte dei conti sull’Inps licenziata il 28 giugno è riportata una cifra molto diversa: 318 miliardi e 920 milioni, compreso ovviamente nel conto anche l’esborso per le prestazioni assistenziali. La differenza è, appunto 36 miliardi e mezzo. Così grande da costringerci a ripescare dalla memoria recente una storia raccontata a più riprese da Milano Finanza.

Tutto nasce da un passaggio di quella relazione della Corte dei conti, nella quale il magistrato delegato al controllo sull’Inps scrive una frase che fa fare un salto sulla sedia. Vale la pena riportarla ancora una volta per intero: «L’ultima verifica statistico-attuariale che, in base agli articoli 153 e 154 del regolamento di amministrazione e contabilità, compete con cadenza triennale al Coordinamento statistico attuariale, risale ormai al 2017; essa, pertanto, non comprende i mutamenti della legislazione di settore (solo nel 2019, Quota 100 e Rdc o, quanto al 2017 e 2018, le mancate riscossioni per effetto di misure di sanatoria), e non contempla gli effetti della pandemia, tutti aspetti che hanno determinato una ulteriore notevole divaricazione tra il dato reale e la previsione statistico attuariale». Cioè, le previsioni che è possibile fare rischiano di essere ottimistiche non conoscendo gli effetti di alcune importanti misure, visti gli importi piuttosto elevati ad esse collegate, decise dai governi precedenti. Quegli effetti ce li deve spiegare una proiezione che compete all’Inps, ovvero la famosa verifica statistico-attuariale da fare per legge ogni tre anni. Che però non c’è.

L’osservazione non è irrilevante. Quando Milano Finanza la racconta, l’Inps reagisce immediatamente sostenendo che contrariamente a quanto pubblicato dal giornale la verifica, invece, esiste ed è stata consegnata al governo, allora guidato da Mario Draghi. Il che però non spiega perché l’istituto non abbia mai smentito la Corte dei conti e la sua relazione, dove c’è scritto che l’ultima verifica statistico-attuariale triennale risale al 2017. Nero su bianco.

Parte allora la caccia a quella famosa verifica, e si scopre che un documento del genere in effetti esiste. Ma non ufficialmente. Un giorno del 2021 fa capolino in consiglio di amministrazione, che secondo le regole deve approvarla, ma viene contestualmente ritirata «per approfondimenti» senza che neppure si proceda a esaminarla. E non torna più.

La ragione non si conosce. Gli «approfondimenti» sono stati effettuati, e quale risultato hanno dato? Nemmeno questo è dato sapere, anche perché la verifica statistico-attuariale non è un documento pubblico. Sono però pubblici i suoi effetti sulla spesa previdenziale. E allora viene in mente che la spiegazione del mistero sia rintracciabile nei numeri.

Cioè in quella differenza di 36 miliardi e mezzo fra le previsioni fatte prima di avere contezza dell’impatto di quota 100 e di altre misure come il Reddito di cittadinanza e le rottamazioni delle cartelle contributive e la tabella della Nota di aggiornamento del ministero dell’Economia. La divergenza fra i dati «ante verifica» della Corte dei conti e quelli della Nadef, del resto, cresce progressivamente. Nel 2021 è di 5,8 miliardi. L’anno seguente è di 7,6. Nel 2023 balza a 22,3. Per salire a 35,9 nel 2024. E toccare 36 miliardi e mezzo nel 2025.

Senza contare che anche questo numero è già superato. Perché non tiene conto delle ulteriori mazzate ai conti della previdenza pubblica assestate dal governo di Giorgia Meloni al suo debutto. Dalla quota 103 alla conferma dell’opzione donna, dall’aumento delle pensioni minime alla rivalutazione degli assegni ordinari (compresi anche quelli del mezzo milione di baby pensionati ancora in vita), fino a nuovi piccoli benefici per il personale in divisa… Il bello è che soltanto qualche settimana prima, mentre il 9 novembre 2022 il parlamento approva la Nadef con quei conti terrificanti, la presidente del Consiglio avverte allarmata i sindacati che «si rischiano pensioni future inesistenti».

 

Fonte: ASSINEWS.it

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