La pandemia ha messo a nudo le carenze del SSN ed evidenziato la necessità di un’assistenza sanitaria integrativa realmente complementare: una maggiore valorizzazione del patrimonio potrebbe consentire agli operatori di questo settore di giocare un ruolo sempre più decisivo nell’era post COVID-19.

La pandemia ha messo a nudo le carenze del Sistema Sanitario Nazionale rendendo sempre più evidente la necessità di un’assistenza sanitaria integrativa che sia realmente complementare. È apparso fin da subito indispensabile discutere dell’importanza di rinforzare il ruolo della sanità integrativa rendendola più strutturata e autonoma, anche nell’interesse pubblico, partendo da una chiara e definitiva regolamentazione del sistema e da convenzioni funzionali in termini di servizi collettivi e riassicurazioni, soprattutto alla luce degli effetti dell’invecchiamento della popolazione e delle debolezze nell’attuale gestione dei cosiddetti silver.

Siamo in presenza di un investitore istituzionale di grande importanza, caratterizzato però da molte contraddizioni che non ne consentono una piena attività, con iniziative positive delle parti sociali spesso frenate da una componente politica che demanderebbe tutto alla sanità pubblica con sola possibilità, per quella complementare, di integrare ciò che il SSN non garantisce (prestazioni extra LEA), nonostante le realtà che operano in questa direzione rappresentino solo una minima parte del sistema generale. Dall’analisi dei dati forniti dall’Anagrafe del Ministero della Salute, risulta infatti che nel 2017 (ultimo anno disponibile) il numero di fondi esistenti era pari a 311, di cui 302 Enti, Casse e Società di Mutuo Soccorso ex art. 52 c.2 lett. a) del DPR 517/1986 (fondi di tipo B) e 9 istituiti ai sensi dell’art. 9 del D. Lgs. n. 502/1992 (conosciuti come fondi di tipo A, esclusivamente integrativi del SSN). Complessivamente, nel 2016 (ultimo anno disponibile) gli iscritti erano pari a 10,616, di cui 10,605 milioni relativi a fondi di tipo A. Rispetto al totale, 7,755 milioni sono lavoratori, 2,160 milioni sono familiari di lavoratori e 743.120 sono pensionati e familiari. L’Anagrafe del Ministero della Salute non fornisce informazioni sulle entrate relative ai contributi raccolti, mentre, con riferimento al totale delle prestazioni erogate, nel 2016 è stata attestata una spesa pari a circa 2,4 miliardi di euro.

Nell’Ottavo Report sugli investitori istituzionali italiani curato del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, si ipotizza che, sia per l’entrata a regime di fondi sanitari di grandi dimensioni, sia per le nuove iniziative intraprese nel corso degli ultimi anni, per il 2019 il numero di fondi si sia attestato a 322, di cui 313 tra Fondi ex art. 51 del TUIR e Società di Mutuo Soccorso, per 13,7 milioni di iscritti (di cui 9,32 lavoratori dipendenti, 1,3 milioni autonomi, 2,7 milioni familiari a carico e 950 mila pensionati) e circa 2,9 miliardi di euro di contributi raccolti. Un sistema che si sta, dunque, sviluppando chiaramente con un aumento nel numero di fondi, iscritti e risorse accantonate nonostante permanga, oltre a un’ingiustificata resistenza di tipo culturale, un’assoluta carenza normativa e di vigilanza.

In tale contesto, Casse e fondi sanitari come possono affrontare le importanti sfide dell’era post COVID-19? 

Una maggiore valorizzazione del patrimonio di questi enti può rappresentare una via per affiancare il sistema pubblico e offrire soluzioni sempre più adeguate e innovative ai propri iscritti, senza dimenticare la propria mission, ovvero erogare prestazioni socio-sanitarie, e tenendo conto di alcune caratteristiche specifiche come la mutualità e la non selettività dei rischi.

A livello patrimoniale, non sono disponibili dati ufficiali di sistema. Tuttavia, grazie ai dati di bilancio raccolti ed elaborati nel Report, è possibile indagare 50 realtà, tra fondi, Casse e società di mutuo soccorso, che raccolgono circa 2,3 miliardi di euro, pari a circa il 66% del totale stimato (4,75 miliardi di euro). Dall’analisi aggregata risulta che, in molti fondi, è diffusa la gestione diretta tramite acquisto di OICR, SICAV e ETF e polizze e, in qualche caso, la gestione indiretta tramite delega a gestori terzi. Per quanto riguarda il mix di investimenti, oltre il 78% delle risorse è investito in liquidità, strumenti monetari e obbligazionari (titoli di Stato inclusi). Tuttavia, i fondi che hanno maggiore anzianità e disponibilità patrimoniale operano come veri e propri investitori istituzionali, diversificando il patrimonio con investimenti di medio-lungo termine tramite l’acquisto di fondi alternativi legati ad attività prossime a quelle sanitarie (come ad esempio RSA).

Figura 1 – Distribuzione % del patrimonio per tipologia di asset class 

Figura 1 - Distribuzione % del patrimonio per tipologia di asset class

Fonte: Ottavo Report Itinerari Previdenziali “Investitori istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori per l’anno 2020”

Si tratta di investimenti coerenti con le attività specifiche dei fondi sanitari che hanno impegni verso gli iscritti nell’anno e, di conseguenza, almeno le principali riserve devono essere disponibili e liquidabili in tempi strettissimi. Se questa considerazione vale per i fondi medio-grandi, diventa indispensabile per i numerosi enti di ridotte dimensioni patrimoniali.

Nonostante l’enorme sviluppo dei fondi sanitari in termini di iscritti, si nota in effetti ancora una modesta patrimonializzazione e la conseguente necessità di una normativa che preveda un aumento delle risorse da porre a riserva, così da poter far fronte a situazioni sanitarie impreviste, come COVID-19, e alle nuove sfide in termini di prestazioni e servizi da offrire agli iscritti, con particolare riguardo agli effetti dell’invecchiamento demografico e alla possibilità di prevedere protezioni contro la non autosufficienza, soprattutto lì dove prevista l’iscrizione di nuovi pensionati.

 

Fonte: Il Punto. Pensioni e Lavoro

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