La notizia della sua scarsa efficacia ha rimesso in discussione i piani vaccinali. E in tempi di varianti delta, non è una notizia rassicurante.
Qualcosa è andato storto, con il vaccino Curevac, e non si capisce ancora bene perché. La notizia della sua scarsa efficacia, arrivata come una doccia glaciale all’Ema e ai ministeri della salute europei, che confidavano in questo prodotto made in Tubinga per avere presto centinaia di milioni di dosi di un vaccino a RNA europeo, ha rimesso in discussione i piani vaccinali. E in tempi di varianti delta, non è una notizia rassicurante.

(Afp)

Inoltre è apparsa ancora più paradossale alla luce degli ultimissimi dati riportati su Nature sugli omologhi Pfizer/BionTech e Moderna, secondo i quali l’immunità assicurata sarebbe superiore alle aspettative. Ci si interroga quindi, cercando di individuare i punti deboli e i motivi per cui questo vaccino si è rivelato capace di prevenire le forme gravi di infezione da Sars-CoV 2 solo nel 47% dei casi, cioè al di sotto della soglia del 50% fissata dalla maggior parte delle agenzie regolatorie come minima.

I problemi di Curevac

Al tema sia Science che Nature hanno dedicato due articoli che giungono a conclusioni sovrapponibili: le ipotesi sono diverse, ancora da vagliare a fondo, ma un argomento sembra molto più convincente degli altri, e potrebbe quindi essere determinante per progredire, e arrivare comunque a un prodotto utile. Secondo quanto reso noto da Curevac, i risultati derivano da un’analisi ad interim della somministrazione del vaccino o di un placebo a un campione di 40.000 persone scelte per tre quarti in America Latina, e per il restante quarto in Europa.

L’approfondimento, svolto su 134 casi di persone che avevano contratto la malattia con sintomi, ha mostrato che 88 appartenevano al gruppo trattato con un placebo, 46 a quelli dei vaccinati. L’esame delle sequenze dei virus di 124 malati ha svelato una delle possibili cause, cui l’azienda ha attribuito la maggior parte della responsabilità dell’insuccesso: sono state infatti identificate ben 13 varianti del virus, mentre il vaccino era stato progettato contro il ceppo originale di Wuhan, presente solo nell’1% dei campioni. La variante beta, cosiddetta inglese, era invece presente nel 41% dei malati, mentre le altre erano variamente rappresentate.

Il nodo delle dosi

L’argomento sembra però non convincere molti commentatori, perché tutti gli altri vaccini, pur risentendo in varia misura di queste modifiche, in realtà si stanno confermando validi anche contro le varianti, e non ci sono motivi teorici per pensare che il vaccino Curevac possa essere così tanto diverso. Un altro punto delicato è quello delle dosi, decisamente inferiori rispetto agli omologhi vaccini a mRNA. Se infatti Comirnaty contiene 30 microgrammi di mRNA a dose, e Moderna raggiunge i 100, Curevac si ferma a 12 microgrammi.
Questo dosaggio è stato stabilito dopo aver condotto test nell’intervallo compreso tra 2 e 20 microgrammi, e aver constatato che i dosaggi più alti provocavano troppe reazioni avverse. Potrebbe essere troppo basso, e non in grado di indurre una produzione di anticorpi neutralizzanti sufficiente. Tuttavia, come hanno fatto notare in molti, i tre vaccini non sono esattamente sovrapponibili, come composizione: per questo ogni confronto di dosaggio non è del tutto corretto, e al momento è impossibile affermare che l’efficacia insoddisfacente sia legata a questo.

Ulteriori ostacoli, secondo alcuni, potrebbero poi essere scaturiti sia da eventuali impurità, sia dal fatto che questo vaccino è nato per essere conservato a temperatura più alta degli altri due: condizioni che potrebbero aver favorito la degradazione dei lotti. Ma, di nuovo, non sembra che si possa trattare di questo genere di difficoltà tecniche, visto che quando si arriva alle fasi finali delle sperimentazioni cliniche i quesiti tecnici sono stati affrontati e risolti, e visto che i prodotti impiegati nei trial sono supercontrollati, proprio per evitare incidenti.

Il tipo di RNA usato

Resta il vero punto cruciale: il tipo di RNA usato. I vaccini a mRNA sono frutto, soprattutto, del lavoro di due ricercatori, Katalin Karikò, oggi vicepresidente di BionTech, e Drew Weissmann, oggi all’università della Pennsylvania di Filadelfia. Per decenni Karikò ha cercato inutilmente il modo di veicolare l’RNA esogeno all’interno del corpo umano, perché, dato così com’era, scatenava una potente infiammazione che vanificava ogni efficacia. Poi, anche grazie alla collaborazione con Weissman, e ai fondi dei National Institutes of Health assicurati da quest’ultimo, i due hanno dimostrato che sarebbe bastato cambiare una sola base e inserire un uracile in una posizione specifica per non avere infiammazione, e mantenere l’efficacia. Da qui i vaccini Pfizer/BionTech e Moderna, che non a caso si chiamano vaccini a mRNA modificato.
Curevac, tuttavia, ha usato un altro approccio: ha formulato un vaccino a RNA non modificato. Secondo diversi commentatori, sarebbe proprio questa la causa del fallimento, anche se resta da dimostrare e anche se i dati precedenti quelli attuali andavano in direzione di un effetto molto significativo. A breve dovrebbero essere resi noti i dati definitivi, che potrebbero essere più positivi e sciogliere alcuni nodi.

Verso una versione aggiornata

Nel frattempo l’azienda è al lavoro con la multinazionale GlaxoSmithKline per una versione aggiornata del suo vaccino a RNA naturale, che sarebbe dieci volte più potente del primo, in base a quanto osservato nei topi e nei primati. Le sperimentazioni nell’uomo dovrebbero iniziare entro la fine dell’anno. E’ insomma ancora presto per mandare in pensione i vaccini di questo tipo.
Da notare che, a sua volta, GSK è reduce da una partnership del tutto fallimentare con Sanofi, per la messa a punto di un vaccino basato su un approccio classico, quello della subunità, introdotto a fine anni ottanta per esempio per la pertosse e l’epatite B. In questo caso si seleziona solo la parte dell’antigene (la proteina spike) che induce la reazione anticorpale, e la si somministra insieme a una sostanza che potenzia la risposta, un adiuvante.GSK ha utilizzato il suo adiuvante, già usato in molti vaccini e a base di squalene, un acido grasso derivato dal fegato degli squali. Ma l’esito è stato così fallimentare che le due big hanno chiuso la sperimentazione, e deciso per un divorzio consensuale, procedendo entrambe su altri progetti.

Pochi giorni fa, tuttavia, l’americana Novavax ha annunciato dati quasi trionfali per il suo vaccino a subunità, virtualmente identico a quello di GSK-Sanofi, con efficacia superiore al 90% anche contro la variante delta. La differenza, in questo caso, era nell’adiuvante, a base di saponine, molecole cerose estratte dalla corteccia di un albero cileno. Nessuno sa esattamente come facciano gli adiuvanti, a potenziare la risposta, anche se ci sono varie ipotesi. Ma, anche in questo caso, la soluzione dell’enigma potrebbe essere in questo aspetto apparentemente collaterale.

Non mancheranno, nei prossimi giorni, riflessioni anche sul doppio destino dei vaccini a subunità. Il quale però dimostra, in caso ce ne fosse bisogno, quanto sia importante la ricerca, e quanto non sempre la teoria trovi riscontro nella pratica. A fine 2020 c’erano nove vaccini a mRNA e 13 tradizionali in sperimentazione: tra i primi gli approvati, al momento, sono due. Nessuno di quelli basati su tecniche tradizionali, per ora, ha ricevuto il via libera.

Fonte: IlSole24Ore
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