I numeri di COVID-19 tra modelli, previsioni e comunicazione

Articolo del 28 Gennaio 2022

In questi due anni di pandemia i media e i social network sono stati affollati da previsioni ingenue o sbagliate sull’andamento di COVID-19. E sono stati chiari i limiti istituzionali nel coordinare il mondo della ricerca per comunicare con una sola voce le analisi disponibili ai decisori politici e gli interventi che ne sarebbero seguiti.

La variante Omicron sta facendo rivivere in modo accelerato, nei media e nei social, quella terribile sensazione di mancanza di controllo che forse è stato uno degli elementi più disturbanti di questa pandemia. COVID-19 ci ha drammaticamente catapultati in un mondo senza punti di riferimento, e tutti siamo diventati affamati di numeri, grafici e previsioni che dovrebbero placare questo senso di generale smarrimento.

Purtroppo, questa fame ha generato una cacofonia di voci che invece di fare chiarezza, in molti casi confonde e annebbia qualunque comprensione della situazione epidemiologica. Oramai è facile udire da tantissime persone la frase “Tanto non hanno mai capito nulla e nessuno è riuscito a prevedere nulla”. E se ci limitiamo ai media o ai social network questa sensazione trova spesso conferma.

In questi due anni, per COVID-19, sono stati “dati i numeri”. Abbiamo visto predizioni incredibili. Dalla data esatta di quando l’epidemia si sarebbe spenta fino alle previsioni che associavano a ogni ondata un’intelligenza propria per la sua crescita e la sua morte. In realtà queste analisi e teorie sono, nei casi migliori, ingenuità dovute alla mancanza delle elementari basi dell’epidemiologia matematica o, nei casi peggiori, gli equivalenti delle complesse teorie del moto perpetuo, ovvero irrimediabilmente sbagliate. I social network ne sono pieni, ma alcune di queste analisi hanno trovato spazio su intere pagine dei maggiori quotidiani nazionali. Chi le ha fatte ha provato a mettere le proprie competenze a servizio di questa esigenza di conoscenza del futuro. Molto spesso però non erano le competenze che servivano per capire le traiettorie di una pandemia.

Non voglio dire che fare previsioni sia facile. Anzi, la modellizzazione predittiva si trova a lavorare in condizioni molto difficili durante le emergenze epidemiche, quando si sa molto poco sulle caratteristiche cliniche della malattia e si lavora con dati spesso incompleti e tardivi. Però, se ci isoliamo dal rumoroso vociare dei social e dei media e andiamo a vedere il lavoro di algoritmi e modelli epidemiologici consolidati, noteremo che attraverso i numeri si è capito molto di questa pandemia e spesso con largo anticipo.

Prima di tutto è importante sottolineare che i modelli matematici e computazionali non servono solo per le previsioni. Fanno molto del lavoro di intelligence che va dalla cosiddetta consapevolezza situazionale alla determinazione dei parametri epidemiologici. Per esempio, nei primissimi giorni della pandemia, quando dalla Cina le statistiche ufficiali notificavano poche centinaia di casi, i modelli predittivi già suggerivano che a Wuhan fossero presenti migliaia di casi. Successivamente, i modelli hanno fornito analisi accurate della dispersione internazionale dell’epidemia, e suonavano un cruciale preallarme per la comunità internazionale rispetto al rischio pandemico.

I modelli sono poi serviti a caratterizzare la possibilità di trasmissione asintomatica/presintomatica del virus, e a stimare il numero reale di infezioni quando le capacità di testing erano estremamente ridotte. Questo tipo di lavoro è poi continuato in questi due anni fornendo importanti elementi di conoscenza per la risposta all’emergenza pandemica.

Ci sono poi “previsioni” e “scenari”, che sono solo una piccola parte del lavoro di analisi di quella che viene ora definita epidemiologia computazionale, ma che sono stati uno strumento importante per la gestione dell’epidemia. Hanno costantemente suonato l’allarme all’arrivo di nuove ondate, analizzato l’impatto delle misure di contenimento, stimato l’impatto sulla traiettoria epidemica all’insorgenza di ogni variante. Basta pensare all’onda di Omicron. A metà dicembre 2021 erano già disponibili le stime sull’aumento dei contagi che avrebbe fatto impallidire le ondate precedenti e si sapeva che sarebbe cresciuta la pressione sugli ospedali.

Tuttavia, il valore delle previsioni epidemiologiche è stato spesso oscurato dalla mancanza di chiarezza rispetto ad alcuni aspetti fondamentali del loro uso pratico, come dei loro limiti. Nonostante siano passati due anni dall’inizio della pandemia, esiste ancora una grande confusione che spesso porta a comunicare in modo errato i risultati e a lasciare il pubblico confuso. Cerchiamo allora di fare chiarezza su alcuni punti essenziali.

Prima di tutto i modelli previsionali possono fornire informazioni sul futuro di un’epidemia solo per un breve periodo, normalmente da una a quattro settimane. Oltre questo orizzonte temporale il livello di incertezza diventa troppo grande. Per questo motivo diffidate di qualunque analisi o previsione che non contenga sempre un intervallo di incertezza. L’incertezza è una parte integrale della predizione. Questa è dovuta alla difficoltà nell’anticipare eventi che vanno a cambiare la dinamica epidemica (per esempio, l’emergere di una nuova variante), o l’introduzione delle politiche di contenimento e i cambiamenti di comportamento umano che possono essere in risposta alle previsioni stesse. In altre parole, mentre l’uragano non cambierà la sua traiettoria per via delle nostre previsioni, individui e governi cambieranno comportamenti e politiche a seconda delle previsioni.

Per scrutare il futuro su orizzonti temporali più lunghi si usa invece la tecnica delle analisi di scenario. In questo caso i modelli matematici producono traiettorie epidemiche plausibili dato un insieme ben definito di assunzioni rispetto alla scelta tra le politiche di controllo dell’epidemia, le risorse disponibili, le strategie vaccinali, i comportamenti della popolazione e così via.

Illustrazione della differenza tra previsioni e analisi di scenario. Le previsioni si riferiscono a orizzonti temporali limitati, mentre le analisi di scenario propongono possibili evoluzioni epidemiche condizionali a diverse assunzioni sulle politiche di intervento e altri fattori che possono determinare cambiamenti al quadro epidemiologico. È importante considerare il margine di incertezza associato a previsioni e scenari, identificato nell’illustrazione dalle aree colorate.

Tra questi scenari è poi obbligatorio considerare quello che viene chiamato il worst case scenario. Questo scenario normalmente considera gli effetti dell’epidemia nel caso peggiore (mancanza di interventi e così via) ed è cruciale proprio per misurare i benefici generati dalle strategie implementate negli altri scenari. In altre parole, questo è lo scenario che serve a stabilire il rischio che si corre a ritardare adeguate azioni di contenimento e, soprattutto se catastrofico, è quello che sicuramente non avverrà nel futuro dato che verranno prese contromisure.

Questi scenari definiscono quindi un insieme di possibili futuri, ma poiché è improbabile che le assunzioni degli scenari si realizzino esattamente nel modo in cui sono state definite, nessuno di questi scenari può essere considerato una previsione. Gli scenari servono quindi ai decisori come strumenti di ragionamento, non per definire esattamente che cosa succederà.

Un’altra cosa importante da considerare è che i modelli usati sia per le previsioni che per le analisi di scenario possono utilizzare dati, tecniche o approcci molto diversi tra loro. Dunque, fare affidamento su un unico modello non è la pratica migliore in quanto non vi è alcuna garanzia che le scelte e le ipotesi di un modello producano sempre una previsione accurata. Per questo motivo, non chiediamo a caso ai singoli scienziati o esperti, “Ehi, potresti lasciar perdere quello che stai facendo e dirmi che tempo farà domani?”. Sia i media che i singoli cittadini sanno che se si vuole avere una previsione si chiede ai centri nazionali di meteorologia.

Proprio per questo motivo diventa imperativo anche in epidemiologia usare un approccio simile, dove le previsioni non vengono espresse dai singoli ricercatori ma da centri o consorzi che combinando più modelli attraverso tecniche appropriate consentono una comunicazione sia ai decisori che al pubblico con un’unica voce. Purtroppo, ancora oggi, dopo due anni di pandemia, si tarda a costruire le fondamenta di centri di analisi previsionali in risposta alla pandemia in grado di coordinare scienziati e decisori con punti di vista e competenze diverse.

Durante la pandemia, sono apparsi chiari i limiti istituzionali nel coordinare il mondo della ricerca in modo da comunicare con una sola voce le analisi disponibili ai decisori e la loro traduzione nell’indirizzo degli interventi sociali, economici e di salute pubblica. Una comunicazione sparpagliata ha finito con il suscitare sconcerto e confusione anche quando c’era chiarezza sulle traiettorie future della pandemia.

Attenzione: non voglio suggerire che la previsione delle epidemie sia una scienza consolidata come le previsioni meteorologiche. In realtà siamo costantemente al lavoro per capire come migliorare. Ci sono margini di incertezza, e in alcuni casi disaccordo, che devono essere discussi con attenzione e trasparenza. Ma l’alternativa a una scienza delle previsioni è indovinare, probabilmente sulla base di supposizioni spesso dettate da preconcetti e ideologie. E tirare a indovinare non è il modo migliore per combattere una pandemia.

 

Fonte: Le Scienze

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