Così possiamo curarci a tavola

Articolo del 04 Dicembre 2020

Ci chiediamo spesso cosa mangiare per sentirci meglio. Soprattutto, ci chiediamo cosa non mangiare. Capita nei periodi di stress, quando ci sentiamo gonfi, dopo un intervento in ospedale, se siamo malati o se abbiamo paura di ammalarci. Ma la dieta cura? La dieta previene, questo è certo. E aiuta anche ad essere curati, dicono gli esperti. Ma nonostante le “regole” di quella sana per eccellenza (la mediterranea) siano uguali per tutti, la dieta rimane un capo sartoriale. Da indossare e personalizzare.

Il microbiota
Due i motivi principali: batteri e geni. Partiamo dai primi: il cibo influenza la composizione del microbiota intestinale, una nuvola di batteri buoni e cattivi, il cui equilibrio è essenziale affinché l’organismo stia bene: contribuisce alla funzionalità intestinale, collabora con il sistema immunitario, aiuta a digerire alcuni nutrienti, come gli zuccheri complessi, sintetizza vitamine, sembra addirittura poter incidere sull’umore e il benessere mentale. In parte è geneticamente determinato, in parte dipende dall’ambiente e dallo stile di vita di chi lo ospita. Le influenze iniziano già nella pancia della mamma e durante il parto. “Non si può dire che il parto naturale sia migliore del cesareo”, commenta Maria Rescigno, principal investigator del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota all’Humanitas di Milano. “Ma di sicuro i neonati che passano dal canale vaginale hanno da subito un microbiota ricco di lactobacilli, batteri buoni che nei primi mesi di vita aiutano a digerire il latte e producono metaboliti importanti per l’equilibrio intestinale. I bimbi nati con cesareo partono leggermente svantaggiati, ma dopo qualche mese recuperano”. In America si sperimentano spugnature di essudato vaginale materno sui neonati nati con cesareo per consentire al loro intestino di colonizzarsi correttamente fin da subito: “Mimano il parto naturale. Da noi in Italia ancora non si fa, ma è una tecnica interessante”. Dopo la nascita, tutto influenza il microbiota: allattamento, ambiente, età, alimentazione, attività fisica, patologie, stress, cure farmacologiche. A pesare di più, però, dieta e antibiotici.

Secondo la teoria igienista dell’epidemiologo inglese David Strachan, le moderne pratiche sanitarie, come le terapie antibiotiche e le condizioni igieniche in cui viviamo, hanno impigrito il sistema immunitario e impoverito la varietà batterica intestinale. “In associazione a una dieta ricca di alimenti processati e poche fibre – continua Rescigno – il microbiota delle popolazioni industrializzate si è modificato ed è aumentato il rischio di infiammazione cronica, meccanismo alla base di gran parte delle patologie più diffuse nella nostra società: obesità, diabete, disturbi metabolici, intestino irritabile, steatosi epatica”. Infiammazione è la parola chiave: se c’è, significa che il microbiota è in disbiosi, ossia ha perso il suo equilibrio perché una popolazione di batteri cattivi ha preso il sopravvento. A seconda della gravità della disbiosi, la permeabilità della parete intestinale può cambiare, aumentando il rischio che sostanze tossiche normalmente contenute all’interno del microbiota passino nel sangue e da lì raggiungano i vari organi. Per mantenere in equilibrio la flora batterica sono basilari una dieta sana e in particolare cibi ricchi di fibre (prebiotici), fermenti lattici vivi (probiotici) e alimenti fermentati (post-biotici). “Le prime sono contenute in verdure, legumi, cereali integrali: vengono digerite dai batteri dell’intestino producendo metaboliti buoni, cioè acidi grassi a catena corta come il butirrato e il propionato. Ci sono poi i probiotici, fermenti lattici vivi che per alcune condizioni, come per la dissenteria causata da terapia antibiotica e per la diverticolite, sono una vera cura; e i post-biotici, metaboliti derivanti dal processo di fermentazione contenuti in kefir, kimchi, miso, crauti, che aiutano a colonizzare positivamente l’intestino”.

 

Nutrigenetica e nutrigenomica

Il cibo interagisce con i batteri, dunque, ma anche con la predisposizione genetica a sviluppare una malattia. Il Dna di ognuno di noi influenza le reazioni agli alimenti (nutrigenetica) e ciò che ingeriamo può modificare l’espressione dei geni (nutrigenomica). La nutrigenetica, commenta Cecilia Invitti, specialista in Endocrinologia e obesità dell’Istituto Auxologico Italiano, “spiega ad esempio perché alcune persone non riescono a digerire certe sostanze (lattosio, glutine) o più semplicemente perché non ci sentiamo tutti allo stesso modo dopo una pizza o un piatto di pasta. La nutrigenomica, invece, spiega perché una persona può avere un profilo genetico che lo predispone al diabete, all’obesità, all’ipertensione arteriosa o ad alcuni tumori, ma se mangia in maniera corretta e segue un sano stile di vita, può fare in modo che questi geni nocivi non si esprimano e non diano luogo alla malattia”.  La nutrigenomica è il cuore degli studi di Antonio Moschetta, ordinario di Medicina interna all’Università di Bari e ricercatore della Fondazione Airc. Tra gli esperimenti che ha condotto per comprendere l’interazione tra nutrienti e Dna, uno su diverse varietà di olio extravergine di oliva, testato su pazienti sani e altri in eccesso di peso. “Abbiamo osservato che l’olio, una volta ingerito, attiva in media oltre mille geni tra antinfiammatori e antitumorali, ma che a seconda della varietà i geni attivati cambiano e che nei pazienti con girovita elevato, rispetto a quelli sani, ne attiva molti meno, circa un decimo. È come se l’organismo delle persone non in salute ostacoli l’accesso ad alcuni geni”, racconta Moschetta. “Questi risultati ci dicono due cose: che in tavola bisogna portare biodiversità, quindi prodotti di qualità ma anche di diverse varietà; e che se una persona non è normopeso, fa più fatica a godere degli effetti benefici dei nutrienti, esattamente come per i farmaci. Il mondo della nutrizione sta cambiando, ma prima che nutrigenomica e nutrizione personalizzata diventino una pratica quotidiana ci vorrà ancora tempo”.

Malattie infiammatorie intestinali e diabete

Tuttavia sono sempre di più gli studi che osservano l’interazione dei nutrienti all’interno dell’organismo umano e che studiano come intervenire a scopo preventivo e curativo con la dieta. Come detto, le alterazioni subite dal microbiota per colpa dell’alimentazione sono considerate una possibile concausa dell’aumento di malattie croniche come obesità, diabete e patologie intestinali. Ma mentre il contributo della dieta all’insorgenza delle malattie infiammatorie croniche intestinali è in genere riconosciuto, non è ancora chiara l’influenza del cibo sull’andamento di questi disturbi, tra l’altro molto invalidanti e per questo oggetto di una recente campagna di sensibilizzazione e informazione, “Fatti più in là”, di Janssen Italia: solo in Italia i pazienti sono circa 250 mila. “Cambiando la dieta non si risolve l’infiammazione”, commenta Marco Daperno, segretario generale Italian Group for the study of Inflammatory Bowel Disease. “Va di moda eliminare fibre, latticini o glutine, ma sono scelte non supportate da evidenze scientifiche”. Tuttavia speciali schemi nutrizionali possono contribuire a indurre la remissione del disturbo nei bambini e dato che la malnutrizione è un sintomo frequente, una terapia nutrizionale è di supporto alla gestione dei pazienti.

Maggiore il peso della dieta nel paziente con diabete. “Ci sono dati che dicono che un microbiota alterato porta a variazioni della glicemia, viceversa che il diabete è causa di modificazioni della flora batterica. È probabile che entrambe le ipotesi siano vere, quindi è chiaro che l’alimentazione può essere prevenzione, fattore di rischio e terapia”, conviene Francesco Purrello, presidente della Società italiana di diabetologia. Per prevenire e gestire il diabete, l’impostazione da seguire è quella della dieta mediterranea: calibrare al meglio i carboidrati (pane, pasta, dolci), meglio se integrali; assumere ogni giorno almeno 30 grammi di fibre (legumi, cereali, frutta, verdura) per aiutare il controllo glicemico ed evitare picchi che accendono l’infiammazione; consumare cibi ricchi di polifenoli (cioccolato fondente, tè verde, olio extravergine di oliva) per un miglioramento dei parametri metabolici; e scegliere i grassi giusti (più frutta secca, pesce, olio, meno carni rosse e burro.

Da qualche anno la Sid sta cercando di lanciare un messaggio chiaro in tema di nutrizione: “Nonostante il progresso tecnologico e farmacologico, che ci aiuta nella gestione e nella cura del diabete, ancora oggi attività fisica e dieta rimangono le armi più potenti”, ricorda Purrello. E così la lettura inaugurale del congresso nazionale Sid 2020 si intitolerà proprio “Cibo ed esercizio fisico come medicina”, sia in ottica preventiva che di supporto alla terapia in un paziente già diabetico. “Non solo una dieta di qualità e personalizzata, ma anche ben organizzata durante il giorno – conclude l’esperto – sempre più studi ci ricordano quanto faccia bene concentrare i pasti tra le 8 e le 18, in modo da avere un digiuno notturno prolungato”.

Malattie cardiovascolari

L’obiezione più frequente a consigli del genere è la difficoltà pratica a traslare un certo stile di vita nella realtà quotidiana. Un po’ per come è organizzata la società, dato che gli orari di lavoro e gli impegni familiari rendono difficile seguire schemi precisi, un po’ per i costi, perché mangiare sano ha un prezzo, così come rivolgersi a uno specialista per una dieta su misura. “Dovrebbe essere più diffusa a livello pubblico la presenza di figure professionali che prescrivano ai pazienti un’alimentazione e degli esercizi personalizzati da seguire”, sostiene Massimo Volpe, presidente della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare. “In un soggetto con disturbo cardiovascolare l’alimentazione è di supporto alla terapia farmacologica, mentre in quello che rischia perché ha già sintomi, ad esempio dislipidemie o valori pressori alti, l’utilizzo della dieta e della nutraceutica può contribuire ad affiancare il ricorso alla terapia farmacologica”.

Il nutraceutico è un alimento, o parte di esso, che ha proprietà farmaceutiche in grado di esercitare benefici sulla salute e può essere usato a fini preventivi e/o curativi. Nella gestione clinica delle dislipidemie, ad esempio, è approvato l’uso di fitosteroli, contenuti in oli vegetali, frutta secca, legumi e spesso aggiunti nei cosiddetti yogurtini, ma anche della monacolina K, prodotto di fermentazione del riso rosso, e della berberina. Ancora una volta, possono ridurre in parte colesterolo e trigliceridi cibi ricchi in fibra e antiossidanti polifenolici.

Salute mentale e malattie neurologiche

Una dieta sana e la conseguente ricchezza del microbiota è stata messa in relazione persino con il benessere del cervello. Si pensa che lo squilibrio della flora batterica possa indurre un’infiammazione capace di ricadere sulla sfera cerebrale e che, viceversa, condizioni di ansia e stress protratte nel tempo possano generare o aggravare una disbiosi intestinale. Allo stesso tempo, nutrire nel modo corretto l’organismo aiuta nella prevenzione di patologie neurodegenerative, come demenza senile, Alzheimer, sclerosi multipla e Parkinson. Nel Parkinson l’alimentazione va persino a supporto della terapia farmacologica con levodopa: la dieta più adatta è prevalentemente vegetariana e a basso contenuto proteico perché pasti troppo ricchi di proteine, scrivono gli esperti della Società italiana di neurologia, possono interferire con l’assorbimento del farmaco e con il suo ingresso nel cervello. Alimenti a fini medici speciali sono invece in sperimentazione nel trattamento delle demenze: i risultati a tre anni dello studio europeo LipiDiDiet, che ha coinvolto oltre 300 pazienti con declino cognitivo lieve, hanno dimostrato che un trattamento nutrizionale specifico a base di acidi grassi omega 3, colina, uridina, fosfolipidi, antiossidanti e vitamine del gruppo B ha rallentato sia il declino delle performance cognitive e funzionali, sia l’atrofia cerebrale dei pazienti. “Si tratta di farmaco-nutrizione, tradizionalmente riferita alla nutrizione artificiale, ma che oggi comprende anche prodotti miscelati ad hoc per specifiche situazioni patologiche, ad esempio per persone con deficit nutrizionali determinati da malattie rare o genetiche”, spiega Alessandro Padovani, direttore Clinica Neurologica, Spedali Civili di Brescia. “Pensiamo all’olio di Lorenzo, una miscela di acidi grassi insaturi che può ridurre il danno cerebrale in una malattia rara come l’adrenoleucodistrofia; ma anche alla dieta chetogenica utilizzata per il trattamento dell’epilessia oppure al supporto nutrizionale nei pazienti sarcopenici». La miscela di principi attivi impiegata nello studio, che i pazienti possono assumere come un “succhino” tutti i giorni, “ha aumentato la resilienza neuronale, preservato il tessuto cerebrale e mantenuto la memoria e la capacità dei soggetti di svolgere attività della vita quotidiana riducendo del 50% la progressione clinica. I dati ottenuti – continua Padovani – in mancanza di terapie farmacologiche efficaci per bloccare la malattia di Alzheimer, confermano il ruolo chiave di un intervento precoce. Dato che nei pazienti meno compromessi ha dimostrato un’efficacia maggiore, stimata in quasi due anni in più di capacità mentale”.

Malattie oncologiche

Infine, c’è la dieta nel paziente oncologico. Anche qui i pilastri della prevenzione sono regime mediterraneo e costante attività fisica. Ma durante la malattia? Negli ultimi anni è stato confermato come il controllo del peso abbia un ruolo cruciale per le persone che hanno vissuto o vivono una storia di cancro: stabilizza l’assetto metabolico, scoraggia la crescita tumorale e aumenta l’efficacia delle terapie. “Sappiamo che per alcuni tumori, se il paziente è obeso o sovrappeso, le cure sono inficiate dal 5 fino al 30%”, riprende il ricercatore Airc Antonio Moschetta. “Al contrario, se il soggetto è normopeso e incontra il cancro le opzioni sono due: segue già una dieta sana, in stile mediterraneo, e non è necessario fare interventi; oppure è magro nonostante una dieta non equilibrata e si interviene con uno schema dietetico più corretto per mantenere il peso e supportare le cure”. All’Istituto nazionale dei tumori di Milano, dove è tradizione considerare gli approcci nutrizionali come potenzialmente terapeutici, è in corso lo studio Breakfast per verificare l’efficacia di una dieta mediterranea ipocalorica in pazienti con tumore al seno sotto chemioterapia. I risultati saranno disponibili solo a giugno 2022, ma l’ipotesi è che la dieta produca modificazioni al metabolismo di zuccheri, aminoacidi e acidi grassi, colpendo la cellula tumorale.

Uno schema ipocalorico, però, non è adatto a tutti i pazienti oncologici. Anzi: escluso il cancro alla mammella, la gran parte delle neoplasie espone alla malnutrizione. In particolare quelle che colpiscono esofago, stomaco, pancreas, polmoni e distretto testa-collo. Due i motivi: “L’influenza che il tumore ha sulle attività metaboliche del paziente e gli effetti collaterali di chirurgia, chemio e radio terapia”, spiega Maurizio Muscaritoli, presidente Società italiana di nutrizione clinica e metabolismo. “Lo studio Premio, pubblicato su Oncotarget e condotto su quasi 2mila pazienti, ha dimostrato che la perdita di peso è già presente alla prima visita oncologica nel 65% dei casi, mentre il rischio malnutrizione si registra nel 60%”. Percentuali alte, “che confermano la necessità di una presa in carico nutrizionale per ogni paziente: mentre non esistono schemi dietetici per ogni tipo di tumore, l’intervento nutrizionale dovrebbe essere individualizzato per la singola persona. Purtroppo i bisogni nutrizionali dei pazienti sono ancora sottovalutati perché è bassa la consapevolezza del problema e delle negative implicazioni prognostiche della malnutrizione in oncologia”, conclude l’esperto. La conferma arriva da chi vive senza stomaco a causa di una neoplasia gastrica: per questi pazienti la malnutrizione è sempre in agguato perché hanno carenze di vitamina B12, ferro, vitamina D e importanti sbalzi glicemici, ma nonostante questo, denuncia Claudia Santangelo, presidente dell’Associazione “Vivere senza stomaco si può” onlus, “dopo la chirurgia i pazienti sono lasciati a se stessi, con una dieta spesso generica che va bene a tutti e a nessuno. Così tocca a noi cercarci uno specialista, quando un nutrizionista clinico in ospedale dovrebbe esserci garantito”.

La terapia non si fa solo con i farmaci, quindi, ma l’approccio fatica ad attecchire e non è sempre messo in pratica. “C’è bisogno di investire di più sulla scientificità di questi concetti, soprattutto nella gestione della persona malata. Nella maggior parte degli istituti oncologici c’è una figura dedicata alla nutrizione, il cui compito è “prescrivere” la dieta quasi come una terapia. Ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto per capire quali cambiamenti nutrizionali introdurre. Il futuro non può che vedere la sartorialità come strategia per nutrienti, stili di vita e farmaci”, conclude il ricercatore Airc Moschetta.