Il costo umano globale dell’inquinamento dell’aria

Articolo del 20 Gennaio 2022

Per la prima volta uno studio ha stimato quante persone al mondo sono esposte a livelli nocivi di particolato fine e altre sostanze pericolose per la salute, e a farne le spese sono per primi i bambini. Ma sappiamo anche che drastiche misure di contenimento portano immediati benefici.

Non sono passati che pochi mesi da quando l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) ha rivalutato – al ribasso – le linee guida sulla qualità dell’aria, che all’inizio di quest’anno sono stati pubblicati sulla rivista “The Lancet Planetary Health” ben due studi che giungono a risultati molto simili e per nulla confortanti sull’inquinamento atmosferico a livello globale.

Il primo studio ha confrontato per la prima volta le concentrazioni di PM2,5 (il particolato fine) e le tendenze della mortalità in oltre 13.000 città in tutto il mondo, scoprendo che l’86 per cento delle persone che vivono nelle aree metropolitane (2,5 miliardi circa), è esposto a livelli medi annuali di particolato fine superiori a quelli indicati nelle linee guida dell’OMS precedenti, quindi con valori ritenuti accettabili più elevati.

Il secondo studio, invece, ha calcolato in circa 2 milioni i casi di asma nei bambini che sono collegati all’inquinamento atmosferico da biossido di azoto dovuto al traffico, e due casi su tre si verificano nelle città. Si tratta dunque di una vera emergenza sanitaria che coinvolge in pratica tutto il pianeta, sia pure con incidenze e conseguenze differenti.

Il primo studio globale

Sebbene si conoscano gli effetti nocivi dell’esposizione agli inquinanti atmosferici sulla salute, primi tra tutti il particolato (PM10 e PM2,5), NOx, SO2 e O3, esistono pochi studi – spesso condotti in regioni ben definite o in grandi metropoli – che stimano le concentrazioni di PM2,5 e la mortalità a queste associata a livello globale. In questo caso i ricercatori hanno voluto superare questo limite, ricorrendo alle stime della concentrazione di particolato fine su scala ridotta (circa 1 chilometro quadrato di risoluzione) su un insieme più ampio di città, e mettendo in correlazione i risultati con il peso delle patologie potenzialmente correlate agli inquinanti atmosferici su una scala temporale lunga quasi due decenni (2000-2019). Ne esce, come confermano gli stessi autori, che la maggior parte della popolazione vive ancora in aree con livelli di PM2,5 ampiamente al di sopra dei livelli ritenuti sicuri per la salute. In altre parole respira aria insalubre.

Tra l’inizio del millennio e il 2019, in epoca pre-pandemia quindi, la concentrazione di particolato fine è stata in media di 35 microgrammi per metro cubo (μg/m3), ovvero sette volte le nuove linee guida dell’OMS (5 μg/m3), con un’incidenza sulla mortalità di 61 decessi ogni 100.000 abitanti. Ciò ha portato a livello globale a 1,8 milioni di morti in più dovuti all’inquinamento atmosferico. Sono state le aree urbane del Sudest asiatico (e dell’India) a registrare i maggiori aumenti regionali (+27 per cento) della concentrazione media di PM2,5 con tassi di mortalità, in questo periodo, in aumento del 33 per cento, ovvero da 63 a 84 su 100.000 abitanti. Diverso il discorso per l’Africa, che nello stesso arco temporale ha invece registrato il livello più elevato di diminuzione (-18 per cento): da 43 μg/m3 nel 2000 è passata a 35 μg/m3 nel 2019.

Il biossido d’azoto aumenta i casi di asma nei bambini

Nel secondo studio i ricercatori – che si sono concentrati invece sul biossido d’azoto (NO2), inquinante collegato per lo più al trasporto su strada – hanno stimato che nel 2019 ci siano stati 1,85 milioni di nuovi casi di asma pediatrica e che circa due casi su tre attribuibili all’NO2 si siano verificati nelle 13.189 aree urbane coperte dallo studio. Non solo, il biossido d’azoto sarebbe responsabile del 16 per cento di tutte le nuove diagnosi di asma fatte nel 2019. Va comunque notato che la percentuale di incidenza dell’asma nelle aree urbane è diminuita dal 19,8 per cento del 2000 al 16,0 per cento del 2019, indicando che le misure adottate sembrano funzionare, in particolare quelle assunte nelle regioni a più alto reddito come Stati Uniti ed Europa, dove si registra un -41 per cento. I casi invece aumentano in Asia meridionale (+23 per cento), nell’Africa subsahariana (+11 per cento) e nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente (+5 per cento).

Uno sguardo all’Italia

A oggi il nostro paese ha all’attivo ben tre procedure di infrazione comminate dalla Commissione Europea proprio a causa del superamento “in maniera sistematica e continuata”, dei valori limiti giornaliero ed annuale applicabili alle concentrazioni di PM10, PM2,5 ed NO2. E il 2020, con l’imposizione del confinamento e la chiusura della maggior parte delle attività produttive, è diventato un laboratorio per l’analisi e lo studio degli effetti che la riduzione degli inquinanti atmosferici può avere sulla salute.

A tal proposito è stato di recente pubblicato uno studio che ha cercato di valutare, nell’area di Bologna, l’incidenza delle misure restrittive sulle riacutizzazioni dell’asma e sui fattori scatenanti ambientali potenzialmente associati. I risultati sono piuttosto sorprendenti: durante il primo lockdown generalizzato si è registrato un calo dei casi definiti “ad alta priorità” fino all’85 per cento, con una media del 54 per cento. Riduzione che si è avuta con un calo degli inquinanti atmosferici riferiti al traffico che andava dal 40 al 60 per cento. I risultati sono stati ottenuti confrontando le ospedalizzazioni e le riacutizzazioni registrate tra il 2015 e il 2020 appunto, e mettendole in correlazione con le serie storiche di concentrazione dei principali inquinanti. Anche se questo può essere considerato uno studio piuttosto localizzato, conferma in ogni caso un oggettivo miglioramento delle condizioni di salute nei soggetti più fragili al migliorare della qualità dell’aria.

Ma per capire dove sta andando il nostro paese è necessario avere modelli previsionali capaci di guardare al di là del singolo evento, piuttosto eccezionale. È quello che ha fatto un gruppo di ricerca dell’ENEA che nel 2019, su richiesta dell’allora Ministero dell’ambiente e oggi della transizione ecologica, ha elaborato scenari al 2020 e al 2030 in base agli impegni presi con il Programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico del 2018. I risultati ottenuti si basano su due scenari differenti, uno sulle politiche attuali – molte delle quali ancora da rendere pienamente operative – e uno che simula invece le riduzioni con l’adozione di ulteriori misure, in particolare nel comparto dei trasporti, nel settore residenziale con l’efficientamento energetico, e nella produzione energetica con il graduale abbandono di fonti fossili come il carbone.

Da un lato, e questo è senz’altro il dato positivo, si registra una sostanziale riduzione dei principali inquinanti presi in considerazione, dall’altro, “nello scenario 2030, anche con misure addizionali, saremmo di poco sotto ai limiti annuali imposti dalla direttiva europea”, spiega a “Le Scienze” la ricercatrice Ilaria d’Elia, tra le autrici del rapporto. “Attualmente continuiamo infatti ad avere sforamenti nei limiti”. Per quanto riguarda l’impatto sanitario (sempre al 2030) la mortalità sarebbe ridotta significativamente in entrambi gli scenari del 37 per cento (scenario con le misure oggi previste completamente implementate) e del 40 per cento circa (secondo scenario con misure rafforzate) per quanto riguarda il PM2,5 dall’85 al 93 per cento per l’NO2 e dal 31 al 36 per cento per quanto riguarda l’O3.

Ma per dare un’ulteriore conferma dell’importanza di attuare drastiche misure per la riduzione degli inquinanti atmosferici, spiega d’Elia, “abbiamo cercato di capire l’incidenza sul PIL come spesa evitabile”. I benefici complessivi legati alla riduzione dei casi imputabili per gli inquinanti raggiungono per l’Italia quasi i 30 miliardi di euro, fino a circa i 34 miliardi nello scenario con misure addizionali. “Si tratta di quasi il 2 per cento del PIL nazionale”, conclude d’Elia.

Non vi è dubbio sulle ricadute positive sul nostro paese, seppur sussistano delle incertezze sui piani fin qui messi a punto, tanto più che, dopo l’aggiornamento delle linee guida sulla qualità dell’aria da parte dell’OMS, la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica per adeguare gli standard e arginare i costi derivanti dall’inquinamento atmosferico, che si concluderà con una revisione della direttiva europea sulla qualità dell’aria a metà del 2022. È quindi presumibile attendersi un adeguamento anche dei valori limite europei che però potrebbero portare il nostro paese a non rispettare la direttiva e continuare a registrare una qualità dell’aria pericolosa per la salute dei cittadini.

 

Fonte: Le Scienze

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