L’epidemia arretra: 5 domande chiave che decideranno il nostro futuro

Articolo del 20 Maggio 2021

Stagionalità del virus, numero dei contagiati reali e tracciamento sul territorio possono condizionare, in meglio o in peggio, l’evoluzione del contagio. Fondamentale arrivare preparati al prossimo autunno.
Quando le cose vanno meglio o molto meglio di quanto fosse logico attendersi, in epidemiologia non ci si può limitare a prendere atto della situazione. È indispensabile provare a capirne il motivo, perché nella soluzione del problema potrebbe essere nascosta la chiave per affrontare con successo le evoluzioni future del contagio.
I dati dell’epidemia in Italia stanno andando molto meglio di quanto fosse prevedibile: terminato l’effetto trascinamento delle zone rosse, per metà maggio era atteso un rimbalzo dei nuovi casi come conseguenza delle riaperture attuate a partire dal 26 aprile scorso. Così non è stato: perché, anche dopo il classico “periodo finestra” di 14 giorni, i dati giornalieri della Covid-19 hanno continuato a ripiegare. Una situazione da accogliere con estrema soddisfazione ma che, come dicevamo, non può lasciare il campo a una semplice presa d’atto. Sapere di non essere stati sbranati da un leone non significa necessariamente che il leone sia morto, o che non potrebbe decidere di sbranarci a una prossima occasione. Insomma, meglio essere sospettosi e prepararsi: seguendo il vecchio detto latino “si vis pacem, para bellum” (se desideri la pace, prepara la guerra).
Vedremo di seguito i numeri dell’attuale fase pandemica, ma soprattutto cercheremo di capire le basi sulle quali si fonda la riduzione dei dati giornalieri. Sono ipotesi, ovviamente, che come vedremo avranno bisogno di tempo (e di indagini mirate) per trovare conferma. Ma si tratta di un esercizio utile per non cedere alla fin troppo facile tentazione del “tutto è finito”: atteggiamento già sperimentato nel recente passato e che ha spianato la strada a nuove fasi espansive della Covid-19.

La fase attuale dell’epidemia

Partiamo dai numeri, che ci hanno sempre guidato in questi lunghi mesi di emergenza. L’ultima settimana epidemiologica completa (8-14 maggio) ha riflesso negli ultimi 5 giorni gli effetti delle riaperture: contrariamente a quanto era logico attendersi, ovvero una ripresa del contagio, abbiamo assistito a un calo consistente dei nuovi casi giornalieri. L’intera settimana si è chiusa con 53.998 positivi individuati, e una riduzione del 22,9% sul periodo precedente. La media dei casi giornalieri è scesa da 10.017 a 7.714, e tutti i principali indicatori segnano un netto ribasso: il rapporto positivi/tamponi totali si muove ormai intorno al 3%, contro il 5% circa di un mese fa; il rapporto positivi/casi testati è sceso in area 8%, dal 15% circa di metà aprile; i ricoverati in area medica stanno diminuendo, da inizio maggio fino al 18 dello stesso mese, a un ritmo medio giornaliero di 411 unità; e infine, nello stesso periodo, i posti letto occupati in terapia intensiva sono passati da 2.583 a 1.689 (-34,6%).
La dinamica sta trovando conferma anche nei primi 4 giorni (15-18 maggio) della settimana epidemiologica in corso: che, se confrontati con gli stessi giorni della settimana precedente, registrano una ulteriore riduzione dei nuovi casi a quota 20.319 (-33,3% sui 30.494 individuati tra l’8 e il 10 maggio).

Prima regola: guardare i numeri in modo asettico

Come già accennato stiamo vivendo una situazione diametralmente opposta a quella attesa, perché la correlazione tra riaperture, maggiore circolazione del virus e aumento dei contagi è ormai certa e consolidata da oltre un anno di esperienza e di studi condotti in tutto il mondo. Consigliamo al proposito la lettura dello Studio dell’Usher Institute, basato sui dati di 131 Paesi, che abbiamo analizzato lo scorso novembre e che rappresenta la sintesi ideale di questo argomento.
I numeri devono sempre essere analizzati mantenendo un atteggiamento distaccato, senza lasciarsi fuorviare dall’emotività che finisce per condizionare pesantemente la percezione che ne ricaviamo. Forniamo un esempio pratico di quanto questo rischio sia reale utilizzando un notizia, ripresa con enfasi dai media il 17 maggio: il record di decessi registrato in India, 4.329 in 24 ore, presentato come un disastro assoluto. Ferma restando la nostra posizione, più volte espressa in questi mesi, sul fatto che ogni singola morte è una sconfitta inaccettabile per chi ha studiato nel tentativo di salvare vite umane, il caso si presta in modo ottimale a far comprendere come la percezione emotiva, e non l’analisi asettica dei dati, sia spesso alla base delle nostre convinzioni.
In un Paese con 1,4 miliardi di abitanti i 4.326 decessi in 24 ore non sono un numero così enorme come inevitabilmente lo consideriamo a prima vista. Ricalcolato sui 60 milioni di abitanti dell’Italia corrisponde a 185 decessi: valore che stiamo a fatica raggiungendo grazie alla crescente messa in protezione delle fasce più anziane della popolazione (il dato medio degli ultimi 7 giorni è 173, contro i 208 della settimana epidemiologica 8-14 maggio). Eppure dietro al numero dell’India intuiamo un disastro, mentre accogliamo con sollievo quello dell’Italia che ci spinge a ritenere la situazione epidemica ormai tranquillizzante.
Ogni persona che muore è un dramma, lo ripetiamo ancora una volta, ma se vogliamo analizzare il dato da un punto di vista statistico dobbiamo procedere proprio come nell’esempio appena descritto. Togliendo dal campo l’emotività e valutando solo i dati a nostra disposizione per ricavarne informazioni utili e possibilmente veritiere.
Per lo stesso motivo non ci possiamo accontentare di prendere atto di un calo dei nuovi casi in Italia, mentre avremmo dovuto assistere a un incremento, ma dobbiamo cercare di analizzare la situazione provando a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle a nostra disposizione.

A cosa non possiamo attribuire il calo dei casi

1) Le misure di contenimento: tre settimane di zona gialla non possono essere, ovviamente, le responsabili del calo dei positivi giornalieri. Anzi dovrebbero aver causato come logica conseguenza un rialzo dei contagi, come si è puntualmente verificato in questi mesi. Le zone gialle sono state sempre transitorie e hanno costituito il preludio a una nuova fase di restrizioni: per questo sono state giudicate largamente insufficienti a contenere in modo efficiente l’espansione dell’epidemia e hanno costretto il Paese alla continua altalena tra chiusure e aperture. La circolazione della variante inglese, ormai dominante in Italia, avrebbe dovuto accentuare ulteriormente questa debolezza. Ma finora è accaduto l’esatto contrario.
2) Il calo dei test: purtroppo si è verificato, ed è un errore imperdonabile dal punto di vista dell’epidemiologia (ne parleremo in dettaglio più avanti). Quello che ci interessa in questo momento, però, è che il calo dei test non è stato abbastanza rilevante per portare a risultati come quelli che stiamo vedendo oggi: la settimana epidemiologica con il maggior numero di tamponi eseguiti è stata quella 10-16 aprile, con 2.051.720. Le quattro settimane successive hanno registrato un -0,9% (17-23 aprile); -0,9% (24-30 aprile); -3,0% (1-7 maggio) e -4,0% (8-14 maggio). Un andamento che si confronta, per quanto riguarda i nuovi casi individuati, con una riduzione molto più consistente: dalle 105.634 infezioni della settimana 10-16 aprile abbiamo progressivamente registrato: -11,1% (17-23 aprile); -7,3% (24-30 aprile); -19,3% (1-7 maggio); -22,9% (8-14 maggio).
3) La campagna vaccinale: anche in questo caso non possiamo ritenere che sia questo il motivo del calo drastico delle ultime settimane. Perché sappiamo (si veda lo studio condotto dall’Iss) che la protezione diventa davvero importante 35-42 giorni dopo la prima somministrazione: periodo che per i vaccini di Pfizer-BioNtech e Moderna comprendeva di fatto anche l’inoculazione della seconda dose, fissata a nel periodo preso in analisi a rispettivamente 21 e 28 giorni. La decisione di spostare il richiamo a 35-42 giorni è troppo recente (inizio maggio) per avere impatto su uno studio chiuso il 3 maggio scorso.
Non dobbiamo quindi considerare responsabili dei numeri delle ultime 4 settimane le vaccinazioni effettuate alla data di oggi (possiamo controllarne il numero qui, oppure sul sito del governo italiano) ma quelle effettuate 35-42 giorni prima delle ultime 4 settimane chiuse con un calo importante dei contagi. Risaliamo così a fine febbraio-inizio marzo, quando la nostra campagna vaccinale procedeva con le Regioni in ordine sparso, non era ancora esplosa la (inutile) polemica sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca e soprattutto il totale delle vaccinazioni effettuate nel nostro Paese raggiungeva a fatica la soglia dei 5 milioni.
Possiamo ipotizzare un effetto parziale dei vaccini, in particolare sulle fasce di età più avanzate: e infatti il dato emerge con chiarezza dallo studio Iss citato in precedenza. Ma è un effetto che finora si sta manifestando soprattutto nella riduzione dei casi gravi e dei decessi, non in grado da solo di modificare in modo così profondo il dato complessivo del contagio nell’intero Paese. Basta a questo proposito pensare che ancora il 18 maggio (ultimo dato disponibile mentre stiamo scrivendo) solo il 14,8% della popolazione italiana risultava protetto con doppia dose; dato che sale al 31,9% considerando i soggetti ai quali è stata inoculata “almeno” una dose.
Da un punto di vista epidemiologico dobbiamo però ribaltare i numeri e considerare la popolazione suscettibile in quanto ancora priva di protezione: l’85,2% se consideriamo la protezione totale, il 68,1% se allarghiamo il conteggio a chi ha avuto almeno la prima dose. Per avere un totale realistico dei soggetti immunizzati dobbiamo però sommare anche chi ha contratto l’infezione: un numero che possiamo stimare, secondo le valutazioni attualmente condivise, in circa il doppio rispetto ai poco più di 4 milioni di casi finora individuati. Anche così, tuttavia, arriviamo a un massimo di 27 milioni di italiani protetti (includendo chi ha avuto una dose singola) con il 55% della popolazione ancora pienamente suscettibile all’infezione.
Se invece ci limitiamo a considerare la protezione completa (malattia pregressa o vaccinazione con doppia dose) gli italiani in questa situazione arrivano a circa 17 milioni: lasciando scoperto il 62% della popolazione. Per il virus, una prateria comunque la si guardi.

Cosa possiamo ipotizzare

Se consideriamo i tre punti precedenti vediamo come le zone gialle avrebbero dovuto spingere il contagio, mentre il calo dei test e l’effetto dei vaccini (considerati i tempi della campagna) possono spiegare solo in parte la dinamica di riduzione in atto. Dobbiamo quindi rivolgere l’attenzione ad altre motivazioni, e ne possiamo individuare due in particolare.
1) Il numero reale dei contagiati: ovvero la grande incognita sull’epidemia. Non sappiamo quanti italiani siano davvero venuti a contatto con il Sars-CoV-2 e abbiano di conseguenza sviluppato una risposta (e una memoria) immunitaria con cui combattere il virus e limitarne la circolazione. Non abbiamo un’indagine di sieroprevalenza recente (l’ultima risale a luglio 2020) che faccia chiarezza su questo numero; e, nonostante le ripetute richieste della comunità scientifica, non è nemmeno stato messo a punto un campione statistico per il monitoraggio costante della popolazione.
Dobbiamo quindi procedere per ipotesi, ricordando che l’Imperial College, nel corso del 2020, stimava un contagio reale molto più diffuso: circa 6 volte rispetto ai casi ufficialmente individuati. Le valutazioni oggi comunemente accettate e condivise si attestano su un moltiplicatore più contenuto (2 volte). Essendo nel campo delle ipotesi, proviamo a vedere cosa succede utilizzando un moltiplicatore “a metà strada”, ossia 4 volte: da 4 milioni circa di contagiati arriveremmo così a 16 milioni. Un numero in grado di sbilanciare in modo importante le cifre che abbiamo visto in precedenza: la somma degli italiani protetti con doppia dose o immunizzati come conseguenza della malattia salirebbe infatti a 27 milioni circa, ma soprattutto arriveremmo a 35 milioni includendo nel calcolo chi è stato immunizzato con dose singola: ovvero con la maggior parte della popolazione (il 58,3%) ormai in grado di resistere all’infezione. Non ancora una vera immunità di gregge, ma sicuramente un grosso problema da superare per il Sars-Cov-2, che incontrerebbe più individui immuni che suscettibili.
Se così fosse sarebbe una situazione per noi particolarmente favorevole, perché tra l’altro testimonierebbe di una Covid-19 meno grave di quanto finora ipotizzato: con un altissimo numero di soggetti del tutto asintomatici e con una letalità molto più bassa di quanto finora verificato (in Italia scenderemmo dal 2,9% allo 0,7%).
Non riteniamo tuttavia, in attesa di un’indagine di sieroprevalenza che chiarisca la questione, che questo possa essere il solo elemento in gioco. E addirittura, se fosse confermato il moltiplicatore attuale (2 volte) per il calcolo del contagio reale, verrebbe meno l’ipotesi di un peso dei contagiati reali in grado di influire in modo così importante sull’andamento epidemico. Dobbiamo quindi rivolgere l’attenzione a un’altra possibilità.
2) La stagionalità del virus: ipotesi tutt’altro che trascurabile, perché proprio un andamento epidemico legato a precisi periodi di crescita e contrazione (come accade per l’influenza) potrebbe fornirci la risposta a un andamento calante difficile da spiegare con le motivazioni più consuete. Così come alle cicliche oscillazioni che si sono registrate a livello mondiale, spesso senza motivazione apparente, e puntualmente rilevate dai Report epidemiologici dell’Oms. Stagionalità non vuol dire clima o temperature, ma andamento temporale distribuito nell’arco dell’anno: e infatti le 4 settimane che in Italia hanno fatto segnare un calo importante dei casi non sono state caratterizzate, nonostante la primavera, dalla costanza di temperature particolarmente miti. Anzi, in larga parte del Paese è accaduto il contrario.
A questa ipotesi si lega in modo diretto l’andamento del tutto insolito, non solo in Italia ma a livello mondiale, dell’influenza stagionale: praticamente scomparsa a cavallo tra il 2020 e il 2021, con livelli di rilevazione del virus compatibili non con la fase epidemica, ma con quella inter-stagionale: quando, nella percezione comune, la malattia di fatto non circola più. La situazione è ben descritta sia nel Rapporto Epidemiologico InfluNet del 1° maggio, sia nel Rapporto Virologico InfluNet del 28 aprile, che chiudono il periodo di sorveglianza nel nostro Paese relativamente alla stagione influenzale 2020-2021. I casi totali, stimati sulla base delle diagnosi cliniche dei medici sentinella distribuiti sul territorio, sono stati 2.431.100: ma si tratta, appunto, di stime su diagnosi cliniche, quindi riferibili anche a sindromi simil-influenzali. La conferma arriva dalle analisi di laboratorio eseguite su un totale di 6.818 campioni clinici prelevati sul territorio: nessuno tra questi è risultato positivo al virus influenzale.
Dati molto simili arrivano dagli Usa, con 243 virus influenzali isolati su un totale di 438.098 campioni testati nell’intera stagione (lo 0,05%), e dall’Europa con i dati Ecdc (791 campioni risultati positivi al virus influenzale, lo 0,1%, su 682.485 totali esaminati). Anche allargando lo sguardo all’intero pianeta si nota come in tutte le zone temperate dell’emisfero Nord la diffusione dell’influenza sia rimasta al di sotto dei livelli inter-stagionali, con identificazioni sporadiche in pochi Paesi; mentre nelle zone temperate dell’emisfero Sud la circolazione si è mantenuta a livelli inter-stagionali, quindi comunque bassissimi.

Cinque domande chiave per il nostro futuro

La situazione appena descritta porta a proporre alcune domande (in questo momento, lo diciamo sinceramente, ancora senza risposta) che semplifichiamo al massimo per favorirne la comprensione al grande pubblico:
1) Il Sars-CoV- 2, se davvero sta diventando stagionale, in qualche modo sta anche soppiantando il virus dell’influenza? (I dati visti in precedenza porterebbero a crederlo).
2) Se così fosse si tratta di una sostituzione definitiva, oppure della ricerca di un punto di equilibrio che porterà alla circolazione contemporanea dei due virus? (Possibilità da non scartare, visto che comunque il virus influenzale è stato ancora isolato in laboratorio).
3) In assenza di un numero sufficiente di casi di influenza, e quindi di materiale virale da studiare in laboratorio, riusciremo a sviluppare un vaccino efficace contro l’influenza stagionale 2021-2022? (I vaccini contro l’influenza vengono sviluppati proprio in questo modo, facendo una previsione sui ceppi destinati a circolare a distanza di mesi).
4) Il Sars-CoV-2, nel caso fosse stagionale, si ripresenterebbe in modo puntuale con una nuova variante (come accade per l’influenza che presenta mutazioni diverse ogni anno) oppure lo sviluppo di varianti sarebbe del tutto indipendente dal ciclo temporale dell’epidemia? (Finora sembrerebbe indipendente).
5) Per mantenere l’immunità nel tempo sarà sufficiente una terza dose di richiamo (ormai praticamente scontata anche se non sono stati fissati i tempi, che potrebbero essere di almeno 10-12 mesi), oppure dovremo procedere a vaccinazioni annuali come finora è successo con l’influenza?

Il nodo dei test per tracciare il contagio

Come abbiamo accennato in precedenza il calo dei test in atto da qualche settimana, per quanto finora limitato, manifesta una tendenza contraria a quanto stabiliscono le regole dell’epidemiologia: nella fasi di allentamento, infatti, dovremmo aumentare il numero dei test per tracciare il più possibile i casi presenti sul territorio, isolare precocemente i nuovi focolai, interrompere le catene di trasmissione del virus. Obiettivo che finalmente, grazie al calo dei casi giornalieri e quindi dell’incidenza dei positivi sulla popolazione residente, è tornato a portata di mano: ricordiamo che il dato più volte richiamato dall’Iss è di 50 casi alla settimana per 100.000 abitanti, che corrisponde ai 4.311 quotidiani che riportiamo nel commento giornaliero ai dati della pandemia.
Le regole in fase di approvazione (è atteso un via libera definitivo a breve) sulla spinta delle Regioni prevedono un numero minimo di test che devono essere eseguiti su base territoriale. Una necessità che abbiamo invocato più volte, ma che per quanto finora trapelato potrebbe attestarsi su livelli molto bassi. In particolare verrebbe seguita la classificazione per fasce colorate, che ben conosciamo, e le Regioni dovrebbero rispettare questi valori minimi: in zona rossa 250-500 tamponi al giorno per 100.000 abitanti (a livello nazionale corrispondono a 150-300.000); in zona arancione 250 per 100.000 abitanti (150 mila a livello nazionale); in zona gialla 150 (90.000); in zona bianca 100 (pari a 60.000 a livello nazionale).
Togliamo per un attimo dal campo i valori relativi alla zona bianca, di cui tratteremo più avanti. I test minimi fissati per le zone gialle, arancioni e rosse (se confermati) appaiono largamente insufficienti: soprattutto considerando che quasi il 50% dei test eseguiti in Italia è ormai di tipo antigenico rapido, del tutto inutile a verificare la presenza di varianti. E questo potrebbe invece essere un tema centrale nel nostro futuro, e in particolare in autunno se trovasse conferma l’ipotesi di una stagionalità del Sars-CoV-2. Le soglie non solo dovrebbero essere più elevate, ma anche impostate in relazione ai test molecolari: quelli che restituiscono con maggiore frequenza la positività dei soggetti testati e, soprattutto, consentono il sequenziamento del materiale genetico virale e la rilevazione delle varianti (già presenti o nuove).
Abbiamo considerato a parte il caso delle zone bianche perché, pur ritenendo fondamentale l’esecuzione di un elevato numero di test tampone, non siamo sostenitori della tesi che vadano fatti comunque, magari a tappeto in modo casuale, pur di raggiungere un determinato numero. Per queste zone, che di fatto certificano una situazione di normalità e di bassissima circolazione del virus, sarebbe più utile impostare un piano preciso di screening sulla popolazione: magari abbinando la creazione di un campione statistico significativo, per avere una cartina tornasole in tempo reale della diffusione del contagio sul territorio.
Vedremo nei prossimi giorni quali decisioni saranno prese in proposito, ma ripetiamo la raccomandazione a non abbandonare il tracciamento sul territorio confidando in una riduzione costante dei casi: magari influenzata da un alto numero di positivi asintomatici non rilevati, ma in grado di fare da bacino per lo sviluppo di una nuova fase epidemica. Il tracciamento sarebbe peraltro fondamentale per tarare correttamente la campagna vaccinale: perché in una situazione di elevata circolazione virale la strategia è quella di dilatare i tempi di richiamo per garantire la copertura con almeno una dose al maggior numero possibile di persone; mentre con una circolazione ridotta si possono mantenere tempi più brevi per completare la somministrazione con doppia dose.

In conclusione

1) L’epidemia sta attraversando una fase di forte discesa, ma non abbiamo ancora la possibilità di definire con precisione le motivazioni che hanno sostenuto la riduzione in atto.
2) La circolazione del virus resta sostenuta, e in gran parte del Paese ancora sopra la soglia dei 50 casi per 100.000 abitanti. Gli attuali 315.308 positivi con infezione in corso ne nascondo una quota “almeno” simile, per un totale di 730.000 italiani circa (1 su 82) potenzialmente in grado di trasmettere l’infezione.
3) Il procedere della campagna vaccinale dovrebbe portare rapidamente a ulteriori riduzioni dei nuovi casi, trasformando la circolazione del virus fino a ottenere effetti clinici gestibili e assimilabili a quelli di altre patologie con cui abbiamo imparato a convivere (prima fra tutte l’influenza).
4) L’ipotesi di una manifestazione stagionale del virus consiglia il mantenimento di un alto livello di attenzione sull’andamento epidemico, per non arrivare impreparati a un’eventuale fase di recrudescenza del contagio.
5) Il tracciamento, in particolare con test molecolari, deve essere mantenuto almeno ai livelli attuali per consentire l’individuazione tempestiva di varianti: un tema centrale anche per garantire l’efficacia della copertura vaccinale, così come per procedere a nuovi richiami o all’aggiornamento dei vaccini finora utilizzati.
6) Non possiamo e non dobbiamo considerare la pandemia conclusa perché abbiamo risolto il problema in Italia (in effetti non lo abbiamo ancora risolto, anche se siamo sulla strada giusta). La facilità di spostamento tra le varie zone del mondo ci impone di tenere la guardia alta fino a quando il virus potrà circolare in modo efficiente in altri Paesi: da cui le persone possono arrivare in Italia, in qualsiasi momento, con poche ore di viaggio.
Fonte: 24+ de IlSole24Ore

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