L’epidemia delle mezze verità: 4 obiettivi chiari meglio dei parametri.

Articolo del 21 Novembre 2020

Dai ricoveri alle terapie intensive, dal rapporto positivi/tamponi all’Rt, dal vaccino agli asintomatici: le troppe criticità che ci portano a fotografare la Covid-19 in modo diverso dallo scenario reale.

Può suonare strano scomodare Pirandello per un’analisi sull’epidemia in corso: ma il suo capolavoro “Così è, se vi pare” rappresenta la sintesi ideale del caos numerico (e non solo) che fotografa l’epidemia da Sars-CoV-2 in Italia. Non potendo conoscere fino in fondo la realtà (vedremo perché nel dettaglio) ci troviamo di fronte a molteplici interpretazioni possibili: e la Statistica medica, come la Statistica in generale, risponde alla vecchia legge del “garbage in, garbage out”. Se in un sistema di calcolo introduci spazzatura, alla fine ti restituirà spazzatura.

Principio che vale, purtroppo, anche per le informazioni non legate ai numeri, ma alle interpretazioni semplicistiche e fuorvianti dell’epidemia che inducono nel grande pubblico un falso senso di tranquillità e sicurezza.

Abbiamo sempre tenuto, in questi mesi, una posizione chiara e costante nel tempo: l’epidemia non è uno scherzo; è molto difficile da tenere sotto controllo; sono moltissime le cose che ancora non sappiamo di questo virus e che scopriremo solo con il passare del tempo. Abbiamo usato i numeri come base di partenza cercando di utilizzarli in modo costante e uniforme per rendere possibili confronti e analisi a distanza di giorni, settimane, mesi.

Ma questa strada diventa sempre più impervia, perché le informazioni arrivano troppo spesso in modo discontinuo e con basi di dati non armonizzate tra loro: aprendo la porta ai dubbi, più che alle certezze che invece servirebbero in questo frangente. Vedremo di seguito, sia sul fronte numerico, sia su quello epidemiologico e medico, quali sono le principali criticità che impediscono di scattare una fotografia reale dell’epidemia di Covid-19.

I dati sui ricoverati e sulle terapie intensive

Non potevamo iniziare diversamente. Perché in questa fase di piena emergenza il principale obiettivo è la protezione del sistema ospedaliero. Possiamo discutere di tutto, dal valore di Rt al tracciamento, dal rapporto positivi/tamponi alla curva dei decessi: e lo faremo, più avanti. Ma dobbiamo partire da un principio cardine al quale non si può derogare: se saltano gli ospedali salta tutto, economia inclusa. Perché agli effetti della pandemia in corso sommeremmo quelli della mancata cura di centinaia di migliaia di pazienti affetti da altre patologie. Uno scenario, questo sì, da incubo, che deve essere tolto il più rapidamente possibile dal campo delle possibilità.

Le modalità con cui vengono proposti i dati relativi a ricoveri e terapie intensive, come abbiamo sottolineato più volte in questi mesi, sono incompleti. L’Iss ha ragione quando sottolinea che il dato principale è quello dell’occupazione totale dei posti disponibili: viene fornito, in effetti, ogni giorno, con il numero che rappresenta l’incremento dei pazienti ricoverati in area medica e in terapia intensiva.

Manca però un’indicazione parallela su quanti pazienti sono stati dimessi e quanti sono stati ricoverati nel singolo giorno: valori che danno un’informazione fondamentale per il monitoraggio dell’evoluzione dell’epidemia. Che non si tratti di parametri trascurabili lo dimostra la puntualità con cui vengono forniti in Francia, direttamente dal sito del governo, e in Germania dal Robert Koch Institute (in tedesco e in inglese). Invitiamo a prenderne visione, sembra di sfogliare il libro dei sogni per la ricchezza e il dettaglio delle informazioni contenute.

I posti letto non si creano dal nulla

Vale, come non mai, l’enunciato della legge di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Funziona anche per i posti letto in ospedale, soprattutto per quelli in area medica. Possiamo aumentarne il numero, per un piccola percentuale, grazie a strutture da campo o riaperture di vecchi edifici dismessi (sempre che siano nelle condizioni di diventare un vero ospedale in tempi rapidi). Ma la gran parte dei nuovi posti che vengono reperiti ogni giorno sono figli, appunto, della trasformazione: reparti fino al giorno prima dedicati alla cura di altre patologie che diventano, per necessità, posti Covid.

Potremmo chiamarla “cannibalizzazione” delle altre patologie, ed è una condizione ben nota perché già vissuta nel corso della prima fase della pandemia.

Ogni giorno l’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) pubblica i dati aggiornati sul tasso di occupazione dei posti letto in terapia intensiva e in area medica. Tasso di occupazione che nell’ultimo periodo, a fronte di un costante incremento del numero dei ricoverati, si è parzialmente stabilizzato se non addirittura ridotto in alcune Regioni.

Prendiamo come base di partenza i dati Agenas del 10 novembre scorso, relativi alle 6 Regioni che il Report della Cabina di regia segnalava per forte criticità in relazione all’occupazione dei posti letto in area medica, o in terapia intensiva, o in relazione alla comparsa di nuovi focolai negli ospedali, nelle Rsa e nelle case di riposo. Ricordiamo che le soglie di criticità sono state fissate, con decreto del ministro della Salute del 30 aprile 2020, al 40% per l’area medica e al 30% per le terapie intensive.

Liguria: 70% (area medica); 44% (terapia intensiva). Lombardia: 75%; 54%. Piemonte: 92%; 56%. P.A. Bolzano: 99%; 54%. Umbria: 55%; 57%. Valle d’Aosta: 86%; 50%.

Rivediamo i dati delle stesse Regioni a una settimana di distanza (ore 17 del 17 novembre 2020): Liguria: 74% (area medica); 53% (terapia intensiva). Lombardia: 53%; 64%. Piemonte: 92%; 61%. P.A. Bolzano: 95%; 57%. Umbria: 50%; 55%. Valle d’Aosta: 73%; 46%.

A livello nazionale i due valori sono passati, tra il 10 e il 17 novembre, dal 52% al 51% per i posti letto in area medica (reparti di malattie infettive, medicina interna e pneumologia) e dal 37% al 42% per quelli in terapia intensiva. Nello stesso periodo i ricoverati in area medica sono passati da 28.633 a 33.074 (incremento di 4.441 unità, +15,51%); quelli in terapia intensiva da 2.971 a 3.612 (incremento di 641 unità, +21,57%).

Difficile sostenere, con parametri abbondantemente oltre i valori soglia stabiliti (+40% sopra il limite di criticità) che non ci sia pressione sulle terapie intensive. Che sono state aumentate (secondo le comunicazioni del commissario all’emergenza Domenico Arcuri) fino a circa 10.000 allo stato attuale, per arrivare a 11.300 entro il prossimo mese. Ma come ormai sappiamo, e vedremo tra poco, un posto in terapia intensiva non è solo un letto con un sistema di ventilazione.

La chiave di lettura dei dati sui ricoveri e il nodo del personale

Prima considerazione: esattamente come l’epidemia non si esprime con uniformità in tutto il territorio nazionale (anche se ormai lo interessa in modo trasversale) la pressione sugli ospedali varia da Regione a Regione. Il 64% delle terapie intensive occupate in Lombardia, la Regione più colpita, hanno ovviamente un peso ben diverso dal 42% a livello nazionale. Vale, ovviamente, per tutte le Regioni che presentano non solo un valore oltre la soglia critica fissata per decreto, ma anche superiore al dato medio dell’intero Paese. Discorso analogo per i posti in area medica, che sempre a livello nazionale al momento hanno un tasso di occupazione che eccede del 27,5% la soglia critica.

In entrambi i casi sono stati messi in gioco due fattori concomitanti: creazione di nuovi posti letto (contraddicendo in parte Lavoisier in questo caso) soprattutto per quanto riguarda le terapie intensive. E cannibalizzazione dei reparti per i posti in area medica. In altri termini: per le terapie intensive abbiamo raddoppiato il numero dei letti disponibili, ma siamo già alle prese con una condizione di forte eccedenza rispetto ai limiti fissati. Per i letti in area medica l’incremento è stato ottenuto riducendo progressivamente i posti disponibili per la cura delle altre patologie. Scattiamo ogni giorno una fotografia della Covid-19, facendo finta che il resto del mondo non esista più.

I numeri non possono essere rassicuranti perché si scontrano con il vero nodo della questione, il personale disponibile, e con la rapidissima saturazione delle strutture esistenti. Chiariamo meglio con un paio di esempi.

1) In un reparto di terapia intensiva il bilanciamento ideale è di un medico ogni 2 pazienti e di un infermiere ogni paziente. La turnazione prevede tre fasce di 8 ore per coprire l’intera giornata. Quindi, per coprire le esigenze di 10 posti letto, servono 15 medici e 30 infermieri. Siamo in emergenza, e questi parametri sono ovviamente saltati: tuttavia ci sono limiti invalicabili che non riguardano solo la resistenza fisica del personale sanitario, ma anche il livello di assistenza che rischia di calare progressivamente più ci si allontana dalla condizione ideale.

Purtroppo anche se possiamo comperare le attrezzature con relativa facilità, la formazione di medici e infermieri dedicati alle terapie intensive non si improvvisa e richiede anni. Vale anche per le altre specializzazioni, ovviamente, e non ci sono scorciatoie possibili. Così come non possiamo e non dobbiamo sottovalutare il tema della tenuta psicologica del personale sanitario, sottoposto allo stress di una seconda ondata dopo essere stato duramente provato dalla prima. E frustrato per essere costretto a fronteggiare un’emergenza che sarebbe stato possibile evitare seguendo comportamenti meno sciagurati durante il periodo estivo e nelle settimane immediatamente seguenti. Gli allarmi erano stati lanciati per tempo, non sono stati presi in considerazione.

2) Nell’ospedale medio italiano possiamo calcolare circa 10 posti di terapia intensiva: l’incremento medio dei posti occupati negli ultimi 10 giorni (97,8 unità) ci porta a saturare ogni giorno la capienza di circa 10 ospedali.

La correlazione tra decessi e posti in terapia intensiva

Abbiamo visto come la mancanza di una comunicazione precisa su ingressi e uscite dalle terapie intensive e dai reparti in area medica sia un limite alle possibilità di monitoraggio dell’evoluzione dell’epidemia: non sappiamo quante persone lasciano un reparto perché guarite, perché dimesse in attesa di un completamento domestico del percorso di guarigione, oppure perché decedute.

Possiamo però osservare un dato, per quanto grossolano, che induce almeno qualche dubbio. Nel periodo 6-16 novembre (ultimo rilevato con questi dati) i posti occupati in terapia intensiva hanno registrato un incremento di 1.101 unità: dato inferiore rispetto alla settimana 26 ottobre – 5 novembre, quando l’incremento era stato di 1.183 unità.

Se osserviamo però l’andamento dei decessi ci accorgiamo che proprio il periodo 6-16 novembre ha fatto segnare un balzo: 5.541 contro 2.854 della settimana 26 ottobre – 5 novembre. In assenza di dati precisi non possiamo dare una risposta certa, per cui ci limitiamo a sottolineare questa correlazione: ripetendo, ancora una volta, che i dati completi sull’andamento dei ricoveri, come comunicati in Francia e Germania, sono fondamentali per definire gli esatti contorni dell’epidemia.

Nuovi casi ancora in crescita, non in calo

Dobbiamo essere molto chiari, per evitare possibili incomprensioni. Le molte comunicazioni dei giorni scorsi sul rallentamento dell’epidemia sono corrette solo se vengono lette in modo corretto: non c’è un calo dei contagi, che continuano a crescere, ma una frenata dell’incremento. In altri termini, è presto per festeggiare.

Lo si evince in modo chiaro dall’evoluzione dei nuovi casi nella settimana mobile (si veda il grafico allegato) che testimonia una fase di espansione del contagio. In pratica ogni giorno calcoliamo il totale dei nuovi casi che si sono verificati nei 7 giorni precedenti, e ogni giorno aggiungiamo il dato più recente togliendo quello più vecchio. Dai 208.301 nuovi casi registrati nella settima 30 ottobre – 5 novembre siamo passati ai 245.527 di quella 10-16 novembre. Abbiamo coperto in questo modo un arco temporale di 12 giorni, e quindi di 12 settimane mobili chiuse a partire dal 5 e fino al 16 novembre. Di queste solo due, la quinta e la decima, si sono chiuse con un piccolissimo calo.

Per parlare di rallentamento del contagio, e non della crescita dello stesso, dovremo registrare una riduzione costante nel numero dei nuovi casi per settimana mobile. Non ci siamo ancora, anzi per ora siamo all’esatto contrario. Con le misure di contenimento abbiamo impedito una crescita esponenziale, e ora siamo in una fase di crescita lineare: ma non basta. Con numeri in salita, e purtroppo anche con numeri stabili ai livelli attuali, il collasso del sistema ospedaliero è solo questione di tempo. Deve calare il numero dei nuovi casi e soprattutto deve calare il numero di posti letto occupati.

L’indice Rt e l’interpretazione di questo valore

Abbiamo perso di vista l’obiettivo, probabilmente perché troppo concentrati a verificare l’appartenenza delle singole Regioni a una delle fasce colorate che indicano l’evoluzione dell’epidemia. A questo punto dobbiamo decidere: vogliamo combattere il virus, oppure inseguire il sistema di classificazione per fasce come se stessimo spostando i segnaposto sulle caselle del Gioco dell’oca?

L’utilizzo dell’Rt come uno dei criteri che segnano l’appartenenza alle singole aree di rischio è il frutto evidente di una mediazione tra scienza e politica: e purtroppo, come accade quando la scienza è costretta a fare un passo indietro, si creano incomprensioni. L’Rt non è gestibile, e ripetiamo non è gestibile, per valori con intervalli prefissati superiori a 1.0.

L’Rt ha solo due possibili interpretazioni: sotto 1.0 (va bene perché il contagio si riduce) e sopra 1.0 (va male perché aumenta). Valori sopra 1.0 sono accettabili e gestibili solo in situazioni particolari: per esempio quando la soglia viene superata per brevissimi periodi, nell’ordine di pochi giorni, all’interno di una tendenza al ribasso o quantomeno stabile sotto il livello di sicurezza. Oppure quando il valore di Rt si riferisce a numeri assoluti molto bassi, nell’ordine di poche decine, per cui le oscillazioni possono essere ricondotte a un’improvvisa fiammata dei casi per la presenza di un focolaio localizzato: in altri termini, passare da 20 a 40 casi fa schizzare l’indice Rt, ma non compromette le possibilità di controllo dell’epidemia.

Ipotizzare allentamenti perché si scende sotto la soglia di 1.5 è un controsenso scientifico: un Rt di 1.2 – 1.3, che caratterizza l’influenza stagionale, non impedisce alla stessa influenza di raggiungere al momento di picco, nel nostro Paese, i 700.000 casi in una sola settimana.

Quindi, come sempre con la massima chiarezza, ribadiamo la modalità corretta per interpretare il valore di Rt: sotto 1.0 va bene, sopra 1.0 va male. Anche in questo caso, per chi avesse dubbi, ci possiamo rifare ai continui richiami in tal senso che arrivano dalla Francia e dalla Germania. Dove la cancelliera Angela Merkel (12 anni trascorsi lavorando all’Accademia delle Scienze di Berlino come ricercatrice specializzata in Fisica) si espone spesso e personalmente proprio per spiegare questo concetto basilare: derogare significa solo sbagliare.

Discutere di Rt a 1.15, 1.40 o 1.55 è come, sui banchi di scuola, passare il tempo a disquisire su quanto siamo bravi dopo aver preso 3, 4 o 5 e non 7, 8 oppure 10.

E puntare a immediati allentamenti non appena si raggiunge una nuova soglia al ribasso equivale a organizzare una settimana di pranzi e cene luculliane non appena terminata una dieta dimagrante: serve solo, e con certezza matematica, a riprendere peso.

Rapporto positivi/tamponi totali e positivi/tamponi diagnostici

Qui entriamo veramente nel regno del caos, perché in alcune Regioni vengono da qualche tempo eseguiti (e a quanto è dato a sapere comunicati nel totale) anche i test rapidi. Ma come per i posti letto negli ospedali manca il dettaglio.

Potrebbe essere un fatto trascurabile, se non allargasse il denominatore (il totale dei test eseguiti) abbassando di conseguenza il rapporto positivi/tamponi: uno dei 21 parametri che vengono considerati per il passaggio tra fasce di appartenenza delle singole Regioni.Anche qui, al netto delle considerazioni precedenti, occorre riportare il dibattito entro i limiti della scienza. E ribadire che il livello ideale per avere l’epidemia sotto controllo è un rapporto positivi/tamponi del 2% considerando tutti i tamponi, inclusi quelli per conferma di positività o di guarigione, e del 3% se invece consideriamo i soli tamponi diagnostici (eseguiti per rilevare la prima positività di un soggetto).

A che punto siamo? Il rapporto positivi/tamponi totali da inizio novembre oscilla in una fascia compresa tra 14,42% e 17,90%. Quello positivi/tamponi diagnostici tra il 27% e il 30,8%. Siamo lontani anni luce da dove dovremmo essere.

La dinamica di questi valori, peraltro, non mostra ancora una tendenza al ribasso, ma piuttosto a una crescita meno marcata che in passato. Confrontando le curve italiana e francese che fotografano l’evoluzione del rapporto positivi/tamponi totali (si veda il grafico allegato) si nota come, 11 giorni dopo l’introduzione delle misure di mitigazione, l’andamento sia contrapposto: al ribasso in modo costante in Francia dopo il lockdown del 30 ottobre, oscillante con una piccola tendenza al rialzo in Italia dopo la chiusura a fasce del 6 novembre.

Questa fase di relativa stabilizzazione potrebbe trovare giustificazione, e non sarebbe una bella notizia, nella saturazione delle nostre capacità di testing: all’aumentare del numero dei tamponi (215.515 nel giorno medio del periodo 10-16 novembre contro 202.684 di quello 3-9 novembre) non è infatti corrisposta una diminuzione del numero dei positivi. In termini più semplici: più tamponi facciamo, più peschiamo in un bacino di soggetti positivi, invece di trovare un numero crescente di soggetti non contagiati che farebbero diminuire il rapporto positivi/tamponi.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire se ci sarà un’inversione di tendenza e se questo valore inizierà a scendere in modo deciso come sta accadendo oltre i nostri confini.Per avere una risposta a questa incertezza sarebbe stato utile, come più volte richiesto da molti nei mesi scorsi, organizzare un campione statistico adattivo (30-40.000 soggetti) che avrebbe permesso di determinare la distribuzione del contagio in modo indipendente dal numero di tamponi effettuati. Non è stato fatto, quindi non ci resta che attendere l’evoluzione dei prossimi giorni.

I numeri del sistema di tracciamento

Anche in questo caso siamo lontanissimi dai valori auspicabili, e non abbiamo dati precisi in proposito. Ogni singola Regione avrebbe incrementato il numero del personale destinato al contact tracing, ma i numeri che vengono proposti da fonti diverse sono discordanti. Evitiamo dunque di considerarli, e proponiamo una chiave di lettura rovesciata partendo dai nuovi casi attuali.

Sappiamo, e questo è un dato certo, che il singolo positivo raccoglie intorno a sé una media di 10 contatti stretti da sottoporre a verifica. Con gli attuali 34.660 casi di media giornaliera nell’ultima settimana (11-17 novembre) dovremmo verificare 346.600 contatti. Ancora a inizio settembre la capacità di contact tracing del nostro Paese era di 5-6.000 casi giornalieri come limite massimo.

Il sistema di contact tracing è saltato? Non in assoluto, perché viene ancora controllata la permanenza di positività o la negativizzazione dei soggetti contagiati (in pratica si eseguono le verifiche, dopo 10-15 giorni, sui soggetti trovati positivi). Ma mancano quasi completamente la seconda e terza generazione di casi: che sono quelle che permetterebbero di isolare precocemente i contatti, come accadeva prima dell’estate, e controllare la diffusione dell’epidemia.

Una cartina tornasole di questa difficoltà è il dato che l’Iss comunica nel proprio Report settimanale, alla voce “Distribuzione dell’origine dei casi di Covid-19 diagnosticati in Italia”. Nell’ultimo Report (dati dell’8 novembre) l’origine del contagio non era nota nel 28,59% dei casi, contro il 6,6% del 16 agosto scorso. Parallelamente nella tabella “Distribuzione del motivo per cui sono stati testati i casi di Covid-19 diagnosticati in Italia” la voce “non noto” è passata dal 5,0% del 16 agosto al 17,7% dell’8 novembre.

Errori e sottovalutazioni non solo numeriche

Abbiamo visto fin qui come i numeri, se non comunicati in modo omogeneo e confrontabile, oppure se comunicati in modo incompleto, costituiscano un limite insormontabile nella comprensione dell’epidemia e nel monitoraggio della sua evoluzione. Accanto ai problemi relativi ai dati, però, ne riscontriamo sempre più spesso altri che non dipendono dai numeri, o non solo, e che finiscono con il generare nel grande pubblico una errata comprensione della malattia e dei rischi ad essa correlati. O, al contrario, un’eccessiva fiducia e attesa in quello che ci riserva il futuro. Anche in questo caso cercheremo di affidarci alle sole evidenze scientifiche trattando in particolare due argomenti: il vaccino, o per meglio dire i vaccini, e le conseguenze della Covid-19 sui soggetti asintomatici e paucisintomatici.

Quello che sappiamo e non sappiamo sui vaccini

Partiamo dai vaccini: premessa d’obbligo, l’imminente disponibilità di più vaccini è una notizia grandiosa, destinata a cambiare per sempre le nostre convinzioni e conoscenze in questo campo. In meno di un anno è stato fatto un percorso che ne richiedeva almeno 10. La giusta soddisfazione non deve tuttavia lasciare il campo a una errata convinzione: a breve tutto sarà finito. Non è così, ed è bene dirlo subito per evitare pesanti disillusioni.Nei giorni scorsi più volte è stato ripetuto che i nuovi vaccini in dirittura d’arrivo (Pfizer-Biontech e Moderna) hanno dato risultati positivi in oltre il 90% delle decine di migliaia di soggetti che sono stati vaccinati. Una semplificazione fuorviante, che merita un chiarimento.

Come si verifica l’efficacia di un vaccino

Le verifiche di Fase 3 procedono in questo modo: si prende un gruppo di soggetti, nel caso della Pfizer oltre 40.000, e si dividono in due sottogruppi omogenei per numero e per caratteristiche. Quindi due sottogruppi di circa 20.000 persone che (a titolo di esempio semplifichiamo) per età, distribuzione geografica ed esposizione al rischio siano equamente distribuite. Alle persone del primo sottogruppo viene somministrato il vaccino, a quelle del secondo un placebo che non ha alcun effetto sul contrasto del contagio (definiamola acqua fresca, per semplificare al massimo). Nessuno dei soggetti coinvolti sa a che gruppo appartiene.

A questo punto si aspetta per tutto il tempo necessario a vedere la comparsa della malattia all’interno dei due sottogruppi. La distribuzione dei soggetti malati ci restituisce l’efficacia del vaccino. Quindi, se su 100 soggetti malati ne abbiamo 5 tra i vaccinati e 95 tra quelli trattati con placebo, essendo i due sottogruppi omogenei per caratteristiche possiamo dire che il vaccino è efficace nel 94,8% dei casi. Molto diverso dal dire che ha funzionato sul 90% dei 40.000 vaccinati: non cambia la sostanza, ma è importante capire le cose, invece di subirle.

Le possibili (e per ora inevitabili) incognite

Restano però ancora alcune incognite, a partire dall’efficacia dei vaccini sulle diverse fasce della popolazione. Nella fase di trial, come è semplice intuire, vengono coinvolti soggetti sani e selezionati nelle fasce di età più “solide”: nessuno correrebbe il rischio di testare un vaccino su soggetti ultraottantenni, oppure su bambini delle elementari. Si cercano quindi i soggetti più forti, che danno anche una risposta immunitaria più rilevante.

Avremo la stessa risposta sui soggetti con difese immunitarie indebolite da altre patologie? Non lo sappiamo. Basterà una sola somministrazione, o al massimo un solo richiamo? Non lo sappiamo. Come è giusto che sia del resto, perché per capirlo ci serve tempo. Come spesso accade serviranno probabilmente vaccini diversi per gruppi di popolazione diversi. Ci arriveremo, ma servirà tempo.

L’illusione del tutto e subito

Allo stesso modo servirà tempo per avere le dosi sufficienti a vaccinare l’intera popolazione. Solo centrando questo obiettivo si potrà parlare davvero di immunità di gregge: che si raggiunge con i vaccini, e non lasciando correre la malattia, quando il 95% della popolazione è stata vaccinata. Un obiettivo che, in Italia, non stiamo riuscendo a rispettare con la campagna contro il morbillo.

Per parlare di eradicazione della malattia, come accaduto nel caso del vaiolo, se tutto andrà bene occorreranno anni: e soprattutto dovremo sottoporre a vaccinazione l’intera popolazione esposta a livello mondiale.

Il vaccino cambierà la nostra convivenza con il virus, relegandolo a posizioni minoritarie, ma il successo nel contrasto alla malattia e alla sua diffusione sarà direttamente proporzionale alla quantità di popolazione che si sottoporrà al vaccino. Ma in Italia, con il 30% delle persone che hanno per ora manifestato dubbi in proposito, non siamo messi benissimo. Quanto tempo sarà necessario per vaccinare tutti? Al momento non lo sappiamo, anche perché mettere in fila decine di milioni di persone alle quali fare un’iniezione è un’impresa titanica.

Per questo, fino a quando non saremo davvero in grado di vaccinare gran parte della popolazione, dovremo mantenere alta la guardia e rispettare alcune delle contromisure alle quali ci stiamo faticosamente abituando: l’ora del liberi tutti è ancora lontana.

I rischi per gli asintomatici e i paucisintomatici

Anche in questo caso è soprattutto un tema di comunicazione. Dire che per asintomatici e paucisintomatici essere venuti a contatto con il Sars-CoV-2 sia una passeggiata di salute, perché così ci si immunizza, è una corbelleria scientifica. In tutto il mondo sono in corso studi che puntano a verificare gli effetti nel medio e lungo periodo dell’infezione, anche in assenza di una manifestazione clinica della malattia. I primi risultati preliminari mostrano possibili ricadute a carico del sistema nervoso e degli apparati cardiocircolatorio, respiratorio e urinario (in particolare sui reni).

Quanti di noi hanno sentito amici raccontare, con disinvoltura, di aver perso per qualche settimana gusto e olfatto? Bisognerebbe spiegare loro che questa trascurabile, anche se fastidiosa e transitoria sintomatologia, dipende da un’aggressione del virus al nostro sistema nervoso centrale.

Ci saranno effetti a lungo termine? Sperabilmente no, ma la verità è che non lo sappiamo. Servirà tempo, l’unica cosa che non possiamo comperare in anticipo e che non ci permette scorciatoie visto che non abbiamo ancora trovato il modo di viaggiare nel futuro (e tornare indietro per raccontare quello che abbiamo visto).

Banalizzare la malattia, riducendola a un problema limitato a pochi sfortunati che finiscono in ospedale, genera false sicurezze in una parte della popolazione che percepisce un rischio molto basso e si comporta di conseguenza, abbassando le difese ed eludendo le contromisure. L’assalto ai parchi, o ai locali pubblici, al quale abbiamo tutti assistito il giorno prima delle restrizioni rientra proprio in questa sottovalutazione: non rischio nulla, quindi mi precipito a fare oggi quello che non potrò più fare a partire da domani.

E se invece dei parametri e delle fasce definissimo degli obiettivi?

In genere la scienza procede proprio così, per obiettivi. Il modo migliore per sgomberare il campo dalle interpretazioni legate alla diversa percezione del peso che i singoli parametri hanno o devono avere nella valutazione del rischio. Percezione spesso connessa alle impressioni e sensibilità personali, piuttosto che alla conoscenza dei parametri stessi.Proponiamo di seguito 4 obiettivi semplici, verso cui tendere per mettere sotto controllo l’epidemia. Obiettivi dettati da quello che sappiamo davvero, e che abbiamo verificato non solo in questa lunga analisi ma nel corso di questi mesi.

1) Tasso di occupazione dei posti letto in area medica e in terapia intensiva. In questo caso i valori sono già stati fissati, come abbiamo visto, con un apposito decreto: 30% del totale per le terapie intensive, 40% per i posti in area medica. Sono numeri sostenibili che permetterebbero la cura contemporanea dei casi di Covid-19 (moltissimi) fermo restando il diritto alla cura di tutti gli altri pazienti oggi inevitabilmente messi in lista di attesa.

2) Valore di Rt. Anche in questo caso ne abbiamo discusso a lungo: dobbiamo portare e mantenere questo indicatore sotto 1.0. Tutto quello che ci manda oltre soglia, con le poche eccezioni che abbiamo visto, è da classificare come alto rischio.

3) Rapporto positivi/tamponi. Le soglie sono quelle indicate dalle conoscenze nel campo dell’epidemiologia nel corso degli ultimi decenni: 2% se consideriamo il totale dei test effettuati; 3% se consideriamo solo i tamponi diagnostici.

4) Rapporto nuovi casi/addetti al sistema di tracciamento. Inutile in questo caso ricorrere a parametri estemporanei come la “tipologia delle figure dedicate al contact tracing”. Che ci sia un problema di qualità dei tracciatori è fuori di dubbio, ma diamo per scontato che in Paese civile non si mettano persone impreparate a svolgere questo compito. Il problema diventa, guarda caso, il numero degli stessi. Che è correlato al numero di soggetti che possono essere tracciati. Usiamo questo parametro, sulla base dei tracciatori a disposizione, e non deroghiamo. Possiamo tracciare i contatti di 5.000 nuovi casi al giorno? L’altezza dell’asticella è fissata.

Quando le singole aree geografiche rispettano tutti questi obiettivi è possibile procedere ad allentamenti, sempre mantenendo tutte le misure necessarie a far sì che non si torni rapidamente sopra soglia. Il gioco dell’altalena, quando alle nostre spalle a spingere il seggiolino c’è un’epidemia, è pericolosissimo.

In conclusione

Almeno in questa parte saremo brevissimi, dopo questa lunga maratona nel caos dei numeri e della comunicazione sui temi salienti della pandemia. Siamo certi che in molti avranno pensato “è impossibile”, vedendo i 4 obiettivi che abbiamo elencato in sequenza e pensando ai numeri attuali.

Non è impossibile: lo scorso maggio, quando abbiamo ripreso una vita quasi normale, tutti e 4 erano pienamente rispettati. Il tasso di occupazione dei posti in terapia intensiva e in area medica era sotto soglia in tutto il territorio nazionale; il valore di Rt oscillava tra 0.8 e 0.9; il rapporto positivi/tamponi totali era inferiore all’1%; il numero dei nuovi casi giornalieri, con trend discendente, era nell’ordine delle 4-500 unità.

A farci perdere la bussola sono stati un’estate vissuta al grido di “è tutto finito”, e un periodo di ripresa tra settembre e ottobre condotto con ulteriori allentamenti invece che usando le giuste cautele per limitare l’impatto di una maggiore frequentazione delle persone. Ma questa, ormai, è tutta un’altra storia.

 

Fonte: 24+ de IlSole24Ore

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