COVID-19: C’è il rischio di recidiva?
Articolo del 16 Settembre 2020
Alcune settimane fa è stato accertato, ad Hong Kong, il primo caso di reinfezione da Sars-Cov-2. Un uomo che si era ammalato 4 mesi prima è risultato nuovamente positivo al virus. La seconda infezione è stata asintomatica, e secondo molti esperti ha dimostrato come il corpo reagisca in modo più tempestivo ed efficace se conosce un virus. Nei giorni seguenti, nel Nevada, è stato segnalato un altro caso di reinfezione, questa volta con sintomi più gravi. Al momento si tratta di casi isolati, che in generale non preoccupano gli esperti. Ne abbiamo parlato con la Professoressa Alex Richter dell’Institute of Immunology and Immunotherapy presso l’Università di Birmingham e con il Professor Alessandro Sette del La Jolla Institute for Immunology, in California.
Cosa sappiamo realmente sui casi di reinfezione? Quanti sono i casi accertati?
Sette: I casi di Covid-19 nel mondo sono quasi 30 milioni, rispetto a questa cifra i casi di reinfezione accertati e ben documentati sembrano essere estremamente rari e in generale sono associati a sintomi clinici meno gravi rispetto alla prima infezione. Degli studi sperimentali hanno mostrato che i coronavirus che causano raffreddori comuni infettano due volte lo stesso soggetto, questo accade anche con una certa frequenza un anno dopo la prima infezione, ma la replicazione virale è limitata e le reinfezioni, di solito, non sono associate a sintomi clinici.
Richter: Per il momento parliamo di meno di una manciata di casi. Tuttavia, penso che ne sapremo di più man mano che i casi aumenteranno a partire da questo autunno. Bisognerà prima di tutto capire se il tampone che risulta positivo per la seconda volta a distanza di tempo sta rivelando la presenza del virus vivo oppure di frammenti virali rimasti dalla prima infezione. Sarà poi necessario prendere in considerazione quelle categorie di pazienti che non possono produrre anticorpi protettivi contro il virus o in risposta ad un vaccino, che sono i pazienti con immunodeficienza primaria. Mentre i pazienti con immunodeficienza secondaria – quindi malati di tumori ematologici, di disturbi reumatologici, di patologie che coinvolgono reni e fegato hanno risposte immunitarie molto eterogenee.
Il fatto che sia possibile ammalarsi di Covid-19 fornisce delle indicazioni su come il sistema immunitario risponde all’infezione. Diversi studi suggeriscono che nei giorni che seguono i primi sintomi i pazienti sviluppano degli anticorpi, anche neutralizzanti, il cui livello però declina con il tempo fino a quasi scomparire, per molti, a distanza di tre mesi. Ma non sono solo gli anticorpi neutralizzanti a determinare una difesa immunitaria specifica in caso di reinfezione…
Sette: Infatti. Ci sono dei casi in cui un livello di immunità molto elevato, chiamato “immunità sterilizzante” riesce prevenire in modo assoluto il rischio di una seconda infezione. Ma sono situazioni molto rare. Nella maggior parte dei casi, quando il corpo viene a contatto per la seconda volta con un patogeno, potrebbe verificarsi un’infezione transitoria prima che il microbo in questione venga eliminato. Anche se il livello degli anticorpi è basso e questi non sono in grado di prevenire completamente l’infezione, i linfociti T e i linfociti B della memoria vengono rapidamente reclutati e attivati, e prevengono in questo modo una replicazione estesa o semplicemente riducono l’intensità dell’infezione. Al di là della presenza di anticorpi, che diminuiscono nel tempo, le cellule della memoria possono persistere per decenni. Nel caso del virus Sars-Cov, responsabile della SARS, è stato dimostrato che questi linfociti persistono per almeno 17 anni. È presto per dire se questo accadrà anche per Sars-Cov-2, lo scopriremo con il tempo, ma pare che il livello delle cellule della memoria, almeno per qualche mese, resti stabile.
Lo studio dei casi di reinfezione può avere delle implicazioni per lo sviluppo del vaccino?
Richter: È ben noto che non tutti rispondono alle infezioni o alle vaccinazioni. Quindi bisognerà identificare chi non risponde adeguatamente e prendere in considerazione dei richiami (d’altra parte nella maggior parte dei vaccini in sviluppo si sta valutando, durante i test, l’utilità di richiami n.d.r.) o capire come gestire il rischio di infezioni in altri modi. Non credo però che le reinfezioni abbiano un’implicazione sul processo stesso di sviluppo di un vaccino.
Sette: Visto che i casi di reinfezione sono rari, penso che la principale preoccupazione per i vaccini in fase di sviluppo sia quella di dimostrare che siano sicuri ed efficaci nella stragrande maggioranza della popolazione.