I cambiamenti climatici, la perdita della biodiversità, l’inquinamento di aria, acqua e suolo, in una parola il montante degrado dell’ambiente naturale, sono stati sottovalutati troppo a lungo a lungo, così come le ricadute di salute sulla popolazione.

In piena pandemia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato 6 prescrizioni per un recupero (recovery) verde e orientato alla salute: proteggere e preservare la natura; investire in servizi essenziali, come acqua, cura dell’igiene, strutture sanitarie ed energia pulita; assicurare una transizione energetica veloce; promuovere uno stile alimentare salutare; costruire città vivibili; dismettere le tasse che finanziano i combustibili fossili. E in contemporanea con la COP6 in corso a Glasgow, molto opportunamente l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato un rapporto che affronta frontalmente il nesso ancora sottovalutato fra crisi climatica ed emergenza sanitaria.

Il rapporto ISTISAN 21/20 “Mitigation of climate change and health prevention in Italy: the co-benefits policy” mette in rilievo appunto il rapporto tra la salute della popolazione e la situazione climatica in Italia e suggerisce soluzioni, basandosi su una quarantina di indicatori introdotti nell’ultimo rapporto pubblicato dal Lancet Countdown, un’iniziativa emersa dal lavoro congiunto di 43 istituzioni accademiche con le agenzie delle Nazioni unite.

ISTISAN estrapola 17 indicatori italiani, distribuiti in 5 sezioni, utilizzando dati statistici nazionali e col supporto di studi scientifici riportati nel dettaglio: impatto dei cambiamenti climatici, adattamento e resilienza, azione di mitigazione e co-benefici, economia e finanza, impegno politico e pubblico. Quest’ultimo termine (in inglese public engagement) è particolarmente rilevante, perché descrive la condivisione della ricerca accademica con la società civile per stabilire e rafforzare relazioni stabili di ascolto, confronto e collaborazione, al di là della mera attività di divulgazione.

La copertura mediatica dei temi della salute legata ai cambiamenti climatici, peraltro, è ancora limitata, mentre la produzione di letteratura da parte della comunità scientifica ha dimostrato un incremento di attività, testimoniato dal passaggio da 3 articoli sull’argomento del 2007 ai 29 articoli del 2020.

L’ultimo rapporto del Lancet Countdown, pubblicato dieci giorni prima dell’inizio della conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico a Glasgow, la COP26, ha rilevato che i paesi maggiormente responsabili delle emissioni di biossido di carbonio non sembrano tenere in adeguato conto i guadagni in salute che potrebbero provenire da un’economia a basso utilizzo di combustibili fossili, proprio in un momento in cui sarebbe possibile destinare molti dei miliardi del COVID-19 recovery fund agli equi obiettivi di salute e di protezione dell’ambiente descritti nel gruppo 2 degli indicatori (adattamento e resilienza) e nel gruppo 3 (azione di mitigazione e co-benefici) e che si possono riassumere nella costruzione di efficienti sistemi informativi che consentano valutazione e pianificazione della destinazione delle risorse per facilitare la resilienza della popolazione alle emergenze climatiche e per minimizzare il rischio di future pandemie.

La salute al centro della conversazione sul clima

In conformità agli Accordi di Parigi, l’Italia ha pianificato politiche a breve e lungo termine di riduzione delle emissioni di gas serra, di uso di fonti rinnovabili di energia, di promozione di una mobilità urbana sostenibile e di aumento dell’efficienza energetica degli edifici che prevedono l’impiego del 37% dei fondi del Recovery and Resilience Plan destinati alla crisi COVID-19. In tali piani, però, il tema “salute” è rimasto sullo sfondo, almeno fino all’agosto di quest’anno, quando il Ministero della transizione ecologica ha auspicato una pianificazione concertata con il Ministero della salute, introducendo il concetto di “co-benefici” e un cambio di passo in alcuni comparti, che porterebbe a un risparmio netto di patologie polmonari, neurologiche, renali e cardiovascolari, con benefici che andrebbero, quindi, ben al di là della sola diminuzione dei rischi estremi da inondazioni, ondate di calore o incendi. Non a caso, l’OMS aveva salutato gli Accordi di Parigi come il più importante patto per la salute pubblica del secolo.

La crisi ambientale e sanitaria italiana: qualche dato

Gli indicatori del riscaldamento climatico del Lancet Countdown, rilevano come in Italia dal 1950 al 2020 sia raddoppiata la superficie di suolo che sottoposta a siccità per almeno un mese l’anno (non necessariamente in estate, ma anche in autunno o inverno, quando dovrebbero essere rimpinguate le falde acquifere per supplire alla normale mancanza di piogge e il caldo estivi) e come dal decennio 2000-2010 a quello 2010-2020 siano aumentate la frequenza, l’intensità e la durata dell’esposizione a calore estremo dei soggetti di età >65 anni, con conseguenze sulla loro salute che vanno dal peggioramento delle patologie cardiovascolari e respiratorie preesistenti, al danno renale acuto e ai disturbi mentali. Nel 2015, era attribuibile all’esposizione a calore il 2,3% del totale delle morti annuali, con la maggior parte dei decessi a carico delle grandi città.

Il risanamento deve partire dalle città

I co-benefici maggiori sarebbero visibili proprio nelle città, dove risiede il 70% della popolazione italiana e dove si verificano i picchi di innalzamento termico, (isola di calore) dovuti alla cementificazione, alla prevalenza dell’asfalto sul verde pubblico, ai gas di scarico degli autoveicoli, alle emissioni degli impianti industriali, dei sistemi di riscaldamento e di raffreddamento degli edifici e alle barriere verticali alla circolazione del vento che riducono del 30% l’effetto rinfrescante eolico rispetto alle aree rurali adiacenti.

Una strategia efficiente dal punto di vista economico per ridurre il fenomeno dell’isola di calore è aumentare le aree verdi urbane, che hanno anche le funzioni di assorbire la CO2 atmosferica e di indurre i cittadini a praticare attività fisica. Nonostante un loro aumento medio del 19% nell’ultimo decennio, nelle 6 grandi città italiane che è stato possibile valutare tramite satellite (Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino) le aree verdi continuano a essere troppo poche, con Palermo e Napoli nella situazione peggiore.

Monitorare per intervenire: i ritardi dell’Italia

In realtà, l’Italia ha molti altri ritardi da recuperare rispetto ai provvedimenti climatici previsti dagli Accordi di Parigi: in cima alla lista ci sono l’approvazione di piani di adattamento e i servizi di informazione meteorologica e idrogeologica. Nonostante l’intensificarsi delle manifestazioni estreme, l’Italia non ha trasmesso alla World Meteorological Organisation (WMO) i suoi eventuali piani di integrazione della valutazione  dei rischi idrogeologici con misure preventive di ordine sanitario, perdendo così l’occasione di avvalersi dell’aiuto che il WMO offre ai governi nello sviluppo di servizi per prepararsi ai rischi legati al clima, secondo gli standard internazionali e le migliori pratiche raccomandate.

La risposta italiana all’emergenza climatica – rileva il rapporto ISTISAN – è ancora a macchia di leopardo: nel 2020, solo 18 centri urbani, prevalentemente nel nord, hanno pubblicato valutazioni sul loro rischio ambientale e la frammentazione della responsabilità sanitaria (che è in capo alle Regioni, dopo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001) sta rallentando il processo di approvazione di un piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Eppure, la situazione meriterebbe un’accelerazione decisa degli interventi di mitigazione, dal momento che la persistenza dell’utilizzo di combustibili fossili, colpevolmente alimentata dai sussidi statali, fa dell’Italia il secondo paese dell’Unione europea dopo la Germania per numero di morti attribuibili all’esposizione al particolato PM 2,5, stando ai dati del 2019. La maggior parte di queste morti è dovuta a malattie cardiovascolari, ma sono sottostimati i dati sulla mortalità per cancro del polmone, la cui rilevazione risente maggiormente delle difficoltà create dalla legge sulla privacy.

I limiti annuali imposti dalle linee guida Air Quality Guidelines (AQG) dell’OMS, che nell’aggiornamento del settembre 2021 sono stati abbassati per PM 2,5 da 10 a 5 microgrammi per metro cubico e per PM 10 da 20 a 15, sono attualmente fuori scala rispetto alla concentrazione degli inquinanti nelle aree urbanizzate del paese, in particolare in italia seterntionale,  C’è poi un problema di tempi, anzi di ritmo deim cambiamenti da realizzare: se la decarbonizzazione proseguisse al ritmo di degli ultimi cinque anni,- calcola il rapporto ISTISAN – l’Italia ci metterebbe altri 79 anni a raggiungere il completo abbandono del carbone per la produzione di energia; lo sfruttamento di fonti rinnovabili (sole, vento, geotermica, idrica) è attualmente in stallo e nel 2019 produceva solo il 17% del totale dell’energia primaria. I combustibili fossili dominano anche nel campo dei carburanti per autoveicoli (96%), i quali sono responsabili del 18% delle emissioni totali di biossido di carbonio.

Cambiare dieta per azzerare le emissioni (e stare meglio)

Sul fronte delle abitudini individuali, secondo il rapporto l’attuale consumo di carni italiano è responsabile dell’82% del gas serra prodotto dal settore alimentare; si stima che, a livello planetario globale, l’allevamento degli animali da macello o da latte sia responsabile di almeno un terzo delle emissioni di gas serra di natura antropica. L’uso di fertilizzanti azotati in agricoltura ha provocato un’impennata della concentrazione atmosferica di protossido di azoto (N2O), il terzo gas serra in ordine d’importanza dopo biossido di carbonio (CO2) e metano (CH4), nel ridurre l’ozono stratosferico. Di recente sono stati formulati suggerimenti dietetici, come quelli della EAT- Lancet diet, che, in un’ottica definita One Health, tengono conto sia delle emissioni di gas serra, sia del consumo di suolo e di acqua sia della salute umana e del benessere animale.

Ha chiarito le complesse interrelazioni lo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), coordinato dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione e dall’Imperial college di Londra, che ha seguito per 25 anni una coorte di mezzo milione di persone, in 10 paesi europei. Alla sezione italiana dello studio hanno partecipato circa 48 000 volontari, provenienti da Firenze, Varese, Torino, Napoli e Ragusa. Dallo studio è emerso che i cibi la cui produzione comporta una maggiore emissione di gas serra e un maggior consumo di acqua e suolo sono anche quelli significativamente associati con l’incidenza di cancro, soprattutto gastroenterico. All’inverso, una dieta con alto punteggio di adesione alla EAT-Lancet diet, è associata ai migliori esiti di salute e a un basso impatto sul pianeta. Purtroppo, in Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, anche per numero di morti attribuibili a eccessivo consumo di carni.

Non va trascurato che in Italia esiste ancora una rete di piccoli produttori di cibi tradizionali con un maggior rispetto dell’ambiente naturale, una maggior biodiversità e una filiera più corta di distribuzione, che merita appoggio e sostegno, in alternativa alle produzioni industriali. La promozione di uno stile di vita alimentare che preveda la diminuzione del consumo di carne, ridurrebbe il sequestro delle risorse idriche e la produzione di metano e di ammoniaca (dal letame), di cui sono primariamente responsabili gli allevamenti intensivi e le coltivazioni di foraggio.

 

Fonte: Scienza in Rete

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