Se vi chiedessero a bruciapelo cosa sia Nauru probabilmente non sapreste come rispondere. Eppure questo minuscolo stato micronesiano potrebbe aver aperto le porte a una rivoluzione che rischia di essere ricordata a lungo: l’inizio dello sfruttamento minerario dei fondali oceanici. Una nuova frontiera propugnata da alcuni come il futuro della tecnologia e dell’economia green, e considerata da altri, invece, come un pericoloso salto nel buio, che rischia di distruggere alcuni degli ultimi ecosistemi incontaminati (o quasi) del nostro pianeta.

Di questa seconda opinione è l’Iucn, o International union for the conservation of nature, che nel corso del suo congresso annuale tenutosi a Marsiglia ha appena votato una risoluzione, a maggioranza schiacciante, per chiedere una moratoria sulle operazioni minerarie sui fondali oceanici.

La Micronesia al centro della geopolitica

Che ruolo gioca Nauru, la più piccola repubblica indipendente al mondo, nella battaglia che infuria attorno alla nuova corsa all’oro sottomarina? È presto detto: a giugno il governo ha chiesto ufficialmente all’International seabed authority (o Isa, organismo fondato dalle Nazioni Unite per controllare tutte le attività connesse ai minerali presenti nei fondali marini internazionali) di velocizzare il processo decisionale in merito ai regolamenti che dovranno normare le attività minerarie sui fondali oceanici da parte di soggetti privati.

Una richiesta all’apparenza innocua, che ha innescato però una clausola poco nota della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che ora dà appena due anni all’Isa per approvare delle norme in materia, in mancanza delle quali, allo scadere della deadline Nauru e il partner industriale in quest’impresa, l’azienda canadese Deep Green (da poco rinominata The Metal Company), riceveranno un via libera (provvisorio ma vincolante) per le loro attività estrattive.

In sostanza, se non si troverà un accordo nei prossimi due anni è possibile che molti stati seguano l’esempio di Nauru, dando il via allo sfruttamento dei fondali oceanici su larga scala, in assenza di una qualunque normativa internazionale. Con quali rischi? Dipende a chi lo chiedete. Deep Green, per esempio, è un’azienda che fa dell’ecologismo la sua bandiera e vuole estrarre i minerali custoditi nei noduli polimetallici (formazioni minerali che costellano i fondali oceanici, ricche di cobalto, nichel, rame e altri metalli rari) per ottenere materie prime con cui realizzare batterie per auto elettriche. Lo scopo, ufficialmente, è quindi è quello di contrastare l’inquinamento e i cambiamenti climatici fornendo una spinta al settore dei trasporti green, e spostando nelle profondità dei mari le operazioni minerarie, di per sé estremamente inquinanti. Ma i rischi, secondo molti esperti ed ecologisti, sono superiori ai potenziali benefici.

Un gioco pericoloso

La scienza sta infatti iniziando a studiare proprio in questi anni le forme di vita che abitano le aree più profonde dei nostri oceani, e con ogni nuova scoperta si rafforza l’idea che i fondali marini più profondi non sono affatto pianure desolate e disabitate. Al contrario, probabilmente ospitano ecosistemi complessi e ancora per lo più sconosciuti, di cui proprio i noduli polimetallici rappresentano una tessera cruciale. La specie più comune in questi ambienti, per esempio, è una spugna microscopica chiamata Plenaster craigi, che vive aggrappata ai noduli polimetallici, e filtra l’acqua nutrendosi del materiale organico proveniente dalle acque sovrastanti.

Secondo gli esperti, l’avvio di attività minerarie sui fondali oceanici farebbe letteralmente sparire la Plenaster craigi dalle aree in cui queste vengono portate avanti, e senza possibilità di ritorno: i noduli sono concrezioni minerali che impiegano milioni di anni per formarsi, e una volta distrutti l’habitat di queste spugne sparirebbe per sempre.

Non è tutto, ovviamente. Le attività estrattive provocherebbero necessariamente il rilascio di sostanze chimiche e sedimenti in grandi quantità, che andrebbero a inquinare non solamente i fondali (i cui ecosistemi sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti), ma anche le acque più superficiali, che ospitano un’enorme quantità di forme di vita potenzialmente a rischio (si stima che le acque al di sotto dei 200 metri di profondità ospitino circa il 90% della biosfera), e sostengono molte specie pescate per il consumo umano, con il rischio che l’inquinamento non distrugga solamente la biodiversità dei mari, ma provochi l’immissione di sostanze nocive anche nella catena alimentare umana.

È per queste motivazioni che l’International union for the conservation of nature ha votato (con 81 favorevoli, 18 contrari e 28 astenuti) la proposta di una moratoria internazionale sullo sfruttamento commerciale dei fondali marini, che, come documentato da IrpiMedia, è sempre più al centro delle attenzioni delle aziende del settore. Un documento che chiede agli stati membri di supportare lo stop alle attività estrattive di ogni tipo in attesa che “sia condotta una valutazione d’impatto rigorosa e trasparente, siano compresi a fondo i rischi ambientali, sociali, culturali ed economici delle operazioni minerarie nelle acque profonde, e sia assicurata un’efficace protezione degli ambienti marini”.

Orizzonte al 2026

In attesa di vedere quali conseguenze potrebbe avere la proposta, la palla per ora passa all’Isa, che tecnicamente potrebbe votare un regolamento definitivo nel giro dei prossimi due anni, disinnescando la clausola attivata dalla richiesta di Narau. A sentire il segretario generale dell’Isa Michael Lodge, comunque, l’agenzia non sembra avere fretta.

Intervistato dalla Bbc, Lodge ha spiegato che se Narau e la The Metal Company richiedessero una licenza mineraria allo scadere dei prossimi due anni, i tempi di approvazione sarebbero lunghi. “Anche con le attuali normative provvisorie – ha spiegato Lodge – una richiesta di sfruttamento commerciale avrebbe di fronte un lungo percorso per essere approvata, costellato di verifiche e bilanciamenti”. Le previsioni di Lodge parlano di altri due o tre anni per terminare la pratica, non prima quindi del 2026.

Nonostante le rassicurazioni, in molti ritengono che quella contro le estrazioni minerarie nelle profondità oceaniche sia ormai una corsa contro il tempo. Proprio l’Isa, d’altronde, è sul banco degli accusati a causa delle sue procedure poco trasparenti, basate spesso su meeting a porte chiuse che non permettono agli osservatori internazionali di avere il polso della situazione. Un’abitudine censurata dalla stessa assemblea dell’Isa (organo di cui fanno parte tutti i membri dell’Autorità, a differenza del Consiglio e della commissione tecnico-legale che hanno un organico elettivo molto più ristretto), ma che per ora l’ente non sembra interessato a prendere in considerazione.

 

Fonte: Galileo

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