Luoghi e comportamenti: ecco quali sono i superdiffusori del virus.

Articolo del 29 Ottobre 2020

Uno dei luoghi più sicuri del pianeta è la vetta dell’Everest: non ci è mai morto nessuno. Però una persona su dieci tra quelle che tentano di arrivarci… muore. Spesso dopo averla raggiunta. Questo paradosso spiega in modo chiarissimo che cosa è successo con la riapertura delle scuole: le classi sono uno dei posti più sicuri dove tenere i nostri ragazzi, eppure il contagio si è impennato dopo la ripresa delle lezioni. Quasi certamente grazie al tragitto “casa-scuola-casa”. Lo dimostreremo con i numeri tra poco.

La spiegazione è semplice: esattamente come non è possibile farsi teletrasportare avanti e indietro sulla vetta dell’Everest (cosa che escluderebbe ogni possibilità di morire durante il tragitto) non è possibile pensare che la mobilitazione quotidiana di 9 milioni di persone tra studenti e personale possa avvenire come se il nuovo coronavirus fosse improvvisamente incapace di trasmettersi in luoghi chiusi e affollati. Che invece, come vedremo, sono il suo habitat preferito.

La mancanza di una visione d’insieme

Uno dei punti cardine dell’epidemiologia, per riuscire a frenare un contagio (non solo quello da Sars-CoV-2) è la visione d’insieme: nessuna attività deve essere concepita come slegata dalle altre, anzi sono proprio le interazioni tra attività diverse a generare il maggiore rischio. E quindi a dover essere tenute sotto stretto controllo. Da settimane, in contrasto con questo principio dettato dalla scienza, stiamo invece assistendo a una lunga sequenza di assicurazioni sul fatto che ogni singola attività (qualsiasi, dalle scuole ai trasporti, dai ristoranti alle palestre fino ai luoghi di culto) sia perfettamente controllata e con un bassissimo rischio di contagio.

Non può essere così, basta guardare i numeri per capirlo. E il motivo è molto semplice: nessuna attività, e nessun individuo, è un’isola lontana anni luce da tutto quello che lo circonda. Nel pieno di una pandemia non ci si può permettere di guardare al particolare, ma occorre individuare con precisione i punti di rischio che sono quasi sempre nascosti proprio nelle interazioni tra attività diverse, oppure tra persone che svolgono la stessa attività.

Sappiamo che ci sono luoghi sicuri, per esempio le scuole considerate come ambiente isolato dagli altri, così come la gran parte dei luoghi di lavoro, dove il contagio viene ormai da mesi ridotto ai minimi termini non tanto grazie a precisi protocolli (che ci sono per tutte le attività) quanto piuttosto per il rispetto degli stessi.

L’interazione scuole – trasporti

Il primo passo che si compie in epidemiologia per capire quale sia stata la possibile causa scatenante di un’esplosione del contagio è quello di verificare l’insorgenza di una discontinuità macroscopica a partire da un lasso di tempo compatibile con la dinamica diffusionale dell’agente patogeno. In termini più semplici: si cerca di capire se, prima dell’esplosione del contagio, sia intervenuto un elemento capace di modificare in modo repentino l’equilibrio precedente. Elemento che si cerca, indietro nel tempo, sulla base dei giorni necessari perché gli effetti diventino evidenti. Nel nostro caso, gli ormai famosi 14-21 giorni.

Esaminando le curve epidemiche, e altri parametri che si sono improvvisamente impennati da inizio ottobre (li vedremo più avanti) si individua facilmente un’interazione macroscopica: la riapertura delle scuole, da metà settembre, con la necessità di spostamento di circa 9 milioni di persone aggiuntive rispetto a quelle che già si muovevano per le normali attività lavorative. Un numero altissimo, pari al 15% della popolazione italiana, che ha avuto un impatto violento sul delicato equilibrio raggiunto in precedenza: non che fosse imprevedibile, perché si tratta di un elemento che si presenta puntuale ogni anno, eppure non è stato affrontato con la necessaria attenzione. Senza contare che il ritorno alle lezioni, passo irrinunciabile e punto cardine di qualsiasi Paese civile, non solo era stato più volte annunciato, ma indicato come una priorità più volte ribadita durante l’estate.

La risposta a questa prevedibile discontinuità è stata un maldestro tentativo di blandire il virus con la decisione di portare la capienza dei mezzi all’80%: che di fatto ha consentito ai mezzi pubblici di essere utilizzati nelle ore di punta, come purtroppo noto da anni, in modo molto simile a carri bestiame: addio distanziamento interpersonale, aerazione, sicurezza. Appaiono del tutto inutili le giustificazioni di un numero complessivo di passeggeri ridotto al 50% rispetto alla media abituale: il 50% rimanente, nelle ore di punta, è più che sufficiente per riempire un treno o un autobus e per far saltare qualsiasi argine si voglia porre in contrasto al contagio. Così come è inutile sostenere che se il problema fossero i trasporti, con oltre 20 milioni di persone che li utilizzano ogni giorno, avremmo milioni di contagiati: a parte che senza far nulla ci arriveremmo sicuramente, si tratta di enunciati che niente hanno a che vedere con la scienza e con quello che in epidemiologia è noto da molti decenni.

Per capire quanto siano importanti i trasporti dal punto di vista del controllo di un’epidemia, non solo di quella in corso, basti pensare che nelle linee guida dell’Oms uno dei punti cardine della fase di mitigazione, che scatta quando non è più possibile il contenimento fatto di tracciamento dei contatti, è proprio la limitazione degli spostamenti.

Abbiamo detto che le interazioni sono alla base della diffusione di qualsiasi epidemia, e di fatto questa particolare interazione (scuola-trasporti) non è stata considerata preparando per tempo una risposta adeguata: la variazione al rialzo della capienza, decisa peraltro in un momento in cui i numeri stavano già mostrando una fase di crescita lineare, non può certo essere catalogata come “preparazione”.

È vero che l’impreparazione, purtroppo, non riguarda solo i trasporti: perché si potrebbe allo stesso modo discutere del ritardo sulla creazione di posti in terapia intensiva, di quelli nei reparti normali, e soprattutto del mancato arruolamento del personale necessario per far funzionare il sistema; o ancora della mancata individuazione di strutture destinate a ospitare i soggetti positivi, ma che non necessitano di ricovero ospedaliero. Oggi gli ospedali sono intasati anche per questo motivo.

Ci concentriamo però, in questa sede, sui trasporti e sullo spostamento delle persone: perché dal punto di vista epidemiologico si tratta di un fattore chiave primario, come abbiamo visto, nel permettere un incremento accelerato del contagio che si riflette successivamente sulle altre inefficienze e sui ritardi (fattori secondari) citati in precedenza.

In termini più semplici: con una rete di trasporti adeguata all’emergenza, in grado di garantire il distanziamento tra i passeggeri, molto probabilmente non staremmo a discutere dei numeri di questi ultimi giorni. L’inevitabile ripresa del contagio, contestuale alla ripresa delle attività normali, avrebbe infatti trovato un terreno meno fertile e una maggiore resistenza alla trasmissione su larga scala. Che, come vedremo più avanti, è invece il modello di diffusione prediletto dal Sars-CoV-2.

Effetto scuola – trasporti: cosa dicono i numeri

Sarebbe bastato guardare alla Francia, dove le scuole sono state riaperte a inizio settembre, per vedere che il rischio era altissimo: dai circa 4.000 casi giornalieri della fine di agosto, trascorsi i canonici 14 giorni che permettono di verificare l’impatto di una determinata attività o misura di contenimento, si è passati a circa il doppio per poi triplicare al termine della terza settimana (circa 12.000 casi di media giornaliera).

In Italia le cose non sono andate molto diversamente: i tempi appaiono un po’ allungati, rispetto alla Francia, solo perché lo svolgimento della tornata elettorale (non dimentichiamolo, un altro fattore di rischio) ha portato alla provvisoria chiusura delle scuole, con minore carico sui trasporti, pochi giorni dopo la ripresa delle lezioni. Le prime due settimane epidemiologiche che riflettono il periodo di cui stiamo parlando si sono chiuse, come è logico attendersi, con una crescita abbastanza contenuta dei nuovi casi: dal 12 al 18 settembre 10.140 (+0,22% sulla precedente) e dal 19 al 25 settembre 11.305 (+11,48%). Siamo ancora nell’ambito di una crescita moderata.

Passati 14 giorni gli effetti diventano visibili con una prima accelerazione: 13.675 nuovi casi (+20,9% sulla settimana precedente). Ma è a partire dall’inizio della quarta settimana, dopo 21 giorni e come detto prima in leggero ritardo sulla Francia per via dell’interruzione scolastica nei giorni delle elezioni, che gli effetti si manifestano esattamente come oltre confine: dal 3 al 9 ottobre 23.864 nuovi casi (+74,5%) e dal 10 al 16 ottobre 47.846 (+100,4%).

Come accaduto in Francia dapprima il doppio, poi il triplo dei casi rispetto alla ripresa delle lezioni, fino ad imprimere al contagio un tempo di raddoppio di circa 9 giorni, come stiamo sperimentando in questa ultima fase.

Il rapporto positivi/tamponi

La stessa dinamica si osserva anche nell’evoluzione del rapporto positivi/tamponi: un altro indicatore fondamentale, come abbiamo visto più volte in questi mesi, per capire quanto un’epidemia sia sotto controllo. Al momento della riapertura delle scuole il valore oscillava (settimana dal 7 al 13 settembre) tra 1,48% e 2,10% con un numero di tamponi vicino, ma costantemente al di sotto, quota 100.000. Il primo balzo si riscontra in modo evidente dopo tre settimane (3-9 ottobre) con valori compresi tra 2,39% e 4,14%, e con un numero di tamponi oltre i 100.000 giornalieri (massimo 129.471 il 9 ottobre). Dal 10 al 16 ottobre i valori sono compresi in un range tra 4,30% e 6,65%, dal 17 al 23 ottobre tra 6,58% e 10,51% con un totale giornaliero di tamponi quasi costantemente sopra i 150.000.

Perché i trasporti pesano più delle scuole

Tra i pochi dati (una mancanza grave) che vengono rilasciati ufficialmente sui luoghi del contagio ci sono quelli relativi alle scuole: all’interno delle quali è stato riscontrato finora solo il 3,5% dei focolai totali. Il dato differisce in modo eclatante da quello francese, dove scuole e università pesano per il 33% circa sui focolai totali. Ed è proprio questa differenza, in mezzo a tantissime analogie come abbiamo visto nelle scorse settimane a proposito della curva epidemica, a dirci che le scuole italiane sembrano effettivamente essere sicure. Proprio come la vetta dell’Everest: il problema non è starci sopra, ma arrivarci e discendere. Il problema non è stare in classe, ma arrivare a scuola e tornare a casa. Il contagio, che secondo le informazioni disponibili non genera focolai all’interno delle classi, viene alimentato dallo spostamento degli studenti e del personale scolastico: su mezzi che evidentemente non garantiscono nelle ore di punta un adeguato distanziamento e aerazione.

Mancando dati sui trasporti è facile sostenere che il contagio si propaga altrove, ma per fortuna la scienza e l’epidemiologia seguono da tempo l’effetto delle interazioni tra sistemi macroscopici. Scuole e trasporti lo sono: e soprattutto sono le uniche due grandi discontinuità che si sono verificate nel periodo “finestra” che porta alla manifestazione evidente degli effetti generati.

Luoghi e comportamenti: il virus si trasmette così

Abbiamo approfondito il tema delle scuole e dei trasporti, ma come sottolineato all’inizio di queste pagine dobbiamo mantenere una visione d’insieme: l’unica che ci permette davvero di individuare il maggior numero possibile di attività, comportamenti e interazioni in grado di far correre il contagio. Ripetiamo. Presi singolarmente bar, ristoranti, palestre, sport di vario genere possono essere descritti con un basso profilo di rischio: soprattutto se consideriamo tutte queste attività gestite in modo corretto e rispettoso delle regole. Sappiamo purtroppo, e ognuno di noi ne ha evidenza quotidiana, che a fronte di un certo numero di bar, ristoranti, palestre e via dicendo dove le regole di prevenzione sono applicate con estrema attenzione, ce ne sono almeno altrettanti dove questo non accade. E purtroppo, con il nuovo coronavirus, non tutti i luoghi (e i comportamenti che ne conseguono) sono uguali.

A cambiare, in modo anche considerevole, è il rischio intrinseco legato alle modalità di svolgimento di un’attività. Per essere più chiari: mangiare, bere un caffè, svolgere attività fisica o giocare una partita di calcio sono cose che ci impongono di non indossare la mascherina. Sempre. Il diavolo spesso si nasconde nei dettagli, e come vedremo questo è un dettaglio che non possiamo trascurare.

Due studi importanti che spiegano la diffusione del Sars-CoV-2

Da qualche mese stanno emergendo importantissime informazioni sulle modalità di diffusione del nuovo coronavirus: per il quale non sembra valere il principio del “tutti contagiano tutti”, come accade per la maggior parte dei virus incluso quello dell’influenza o per gli altri coronavirus finora conosciuti, ma piuttosto quello del “pochi contagiano moltissimi”.

Il primo studio, pubblicato su Nature Medicine, è stato condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Hong Kong che hanno analizzato i dati del tracciamento di 1.038 casi confermati tra il 23 gennaio e il 28 aprile, al fine di identificare e caratterizzare i relativi cluster locali di infezione. Dopo aver individuato 51 differenti cluster, è emerso un dato sorprendente: l’80% dei casi era stato generato dal 19% dei soggetti (intervallo di confidenza 95% compreso tra 15% e 24%). Ma soprattutto il 69% dei soggetti positivi non ha contagiato nessun altra persona.

Qualche informazione interessante la possiamo ricavare anche dallo studio approfondito del cluster più importante, che ha riguardato 106 casi ed è stato fatto risalire a quattro locali pubblici di Hong Kong, all’interno dei quali si sono esibiti alcuni musicisti. I primi soggetti positivi sono stati due clienti di un bar a Lan Kwai Fong, dove due persone dello staff si sono ammalate pochi giorni dopo. Il passaggio del contagio è stato fatto risalire ai musicisti, che si sono esibiti in ognuno dei quattro locali dove sono state riscontrate positività. Sul totale di 106 casi ben 73 riguardavano direttamente i bar come luogo di esposizione: 39 clienti, 20 dipendenti e 14 musicisti. Solo 33 le infezioni successive, causate da secondi, terzi o quarti contatti in ambito familiare.

È altrettanto interessante notare la definizione di contatto stretto che è stata utilizzata dai ricercatori: «Interazione faccia a faccia prolungata con un caso confermato (con o senza sintomi precedenti) superiore alle 2 ore di tempo se entrambe le persone indossavano la mascherina, oppure superiore ai 15 minuti senza l’uso della mascherina di protezione».

Vale soprattutto per chi ancora avesse dubbi sull’utilità della stessa, ma ci dice anche che in determinati ambienti, e indipendentemente dalle misure di sicurezza messe in atto dal singolo gestore, il dover abbassare la mascherina comporta un rischio intrinseco elevato.Tutti gli studi condotti finora, a partire da quelli dei Cdc Usa, indicano proprio in circa 15 minuti il tempo minimo necessario perché il virus si trasmetta da un soggetto all’altro.

La seconda ricerca, condotta in collaborazione da due gruppi di studio (India- Usa) e pubblicata su Science, ha utilizzato i dati raccolti nei due Stati indiani del Tamil Nadu e dell’Andra Pradesh per definire le modalità di trasmissione del Sars-CoV-2 e verificare la mortalità della Covid-19 in un contesto ad alta incidenza. In questo caso ci concentreremo sul primo obiettivo, quello delle modalità di trasmissione. I risultati ottenuti da questo gruppo di ricerca (che ha esaminato 575.071 soggetti esposti e 84.965 casi confermati) sono straordinariamente simili a quelli del gruppo di Hong Kong: il 70,7% dei casi indice (il primo soggetto positivo) non aveva prodotto alcun contagio tra i propri contatti.

Un altro aspetto importante che viene sottolineato dai ricercatori è quello della maggiore trasmissione del contagio all’interno di fasce di età omogenee, in particolare sotto i 14 anni e sopra i 65. Un aspetto tipico delle modalità di aggregazione della società indiana, in questo caso, che tuttavia non è lontana dalla realtà del nostro Paese: dove l’aggregazione per gruppi di età omogenea è particolarmente evidente proprio in queste due fasce di età.

L’importanza dei superdiffusori

Entrambe le ricerche confermano le tesi di molti epidemiologi: il nuovo coronavirus si diffonde soprattutto per cluster, con pochi superdiffusori che infettano molti soggetti. Questo è il vero motore dell’epidemia, mentre i contagi che avvengono per contatto diretto “uno a uno” sono una quota minoritaria. In letteratura esistono alcuni casi ormai molto noti, a partire dalla donna che durante una funzione religiosa, a Daegu in Corea del Sud, ha infettato decine di fedeli e dato vita a un cluster di migliaia di casi. Proprio questa esperienza, peraltro confermata da altri casi analoghi anche in Europa, fa sorgere qualche dubbio sull’esclusione dei luoghi di culto dall’elenco delle attività a rischio e da sottoporre a immediate misure di contenimento.

Quella per cluster è una modalità di diffusione abbastanza insolita e diversa da quella della maggior parte dei virus respiratori conosciuti: in particolare da quello dell’influenza, che invece progredisce in modo esattamente contrario. E finora abbiamo affrontato l’epidemia in corso con le stesse armi che useremmo, in assenza di un vaccino, per affrontare un’emergenza influenzale. Più che contrastare la trasmissione diretta tra singoli dobbiamo quindi bloccare la possibilità che un singolo superdiffusore possa infettare un numero elevato di persone.

Ed è a questo punto che scende in campo un nuovo meccanismo di interazione: quello del soggetto infetto con alcuni luoghi in grado di favorire la trasmissione del contagio. Il più importante obiettivo da centrare è individuare con precisione i luoghi dove uno o più superdiffusori abbiano la maggiore probabilità di infettare un gran numero di persone. Anche in questo caso non è difficile indentificarli nei luoghi chiusi, con scarsa ventilazione e affollati (se a qualcuno viene in mente un mezzo pubblico nell’ora di punta è difficile dargli torto).

Un caso tutto italiano ci torna utile come ulteriore dimostrazione dell’importanza delle modalità di contatto per avere come effetto conseguente il contagio: alla Scala di Milano è stato da pochi giorni individuato un focolaio, con un numero di positivi che mentre scriviamo ha raggiunto quota 21. Gran parte di questi tra i coristi, che cantano e ovviamente lo fanno senza mascherina emettendo inevitabilmente importanti quantità di droplet. Ma il dato più interessante è quello relativo ai contagiati al di fuori di questo gruppo: le prime positività tra gli orchestrali (finora 3) sono state riscontrate tra i fiati, dove l’utilizzo della mascherina è impossibile e l’atto respiratorio è frequente e spesso forzato.

Luoghi incolpevoli, pesa la combinazione con i comportamenti

Lo ripetiamo per l’ennesima volta: non c’è nessuna attività da colpevolizzare, ma ci sono attività che per la loro natura intrinseca sono l’habitat ideale per la diffusione del virus e per la possibilità che uno o più superdiffusori esprimano tutto il proprio potenziale. E sono tutte quelle che si svolgono in luoghi chiusi e affollati, oppure all’aperto con una grande densità di soggetti (per esempio uno stadio) dove le persone parlano ad alta voce, gridano, cantano, oppure praticano attività sportiva. Il fatto che in molti di questi casi si abbassi la mascherina (per esempio per mangiare, bere o fare attività fisica) è un ulteriore moltiplicatore del rischio.

Preveniamo a questo punto una domanda, cercando di dare una risposta: perché un ristorante può restare aperto a mezzogiorno e non alla sera? Una risposta, basata sullo studio delle interazioni, esiste: a mezzogiorno solitamente nei ristoranti si fanno pranzi di lavoro, in gruppi ristretti, e la tipologia di relazione tra le persone sedute al tavolo implica in genere comportamenti formali. Molto meno rilassati di quelli che, alla sera, si riscontrano quando ci si trova tra amici, si parla a voce più alta o addirittura si grida, si abbandonano i comportamenti formali e si cede più facilmente alla distrazione del passaggio di oggetti o alimenti da una mano all’altra.

Detto in altri termini: un pranzo di lavoro tra due o tre persone comporta, all’interno di un locale con buona aerazione e adeguate misure (ce ne sono) un rischio abbastanza basso. Una cena serale tra amici, per i motivi che abbiamo visto prima, alza di molto l’asticella del rischio. Abbiamo fatto l’esempio dei ristoranti, ma potremmo fare un ragionamento analogo per bar, palestre, luoghi di culto.

A proposito delle palestre un’interessante ricerca condotta in Corea del Sud, nella città di Cheonan, ha dimostrato come le lezioni di fitness siano state alla base di numerosi casi di trasmissione, mentre nelle stesse palestre siano risultati quasi indenni i soggetti che avevano praticato yoga. A favorire la diffusione non è il luogo, ma la combinazione tra luogo e comportamenti: lo dimostrano le decine di evidenze che sono state raccolte in questi mesi e che individuano con precisione gli ambienti nei quali si sono verificati con maggior frequenza gli episodi di superdiffusione. Luoghi di culto e cerimonie religiose di vario genere (matrimoni e funerali), bar e ristoranti, palestre, riunioni di lavoro con molte persone. Ma anche attività sportiva, seppure in modalità super controllata come accade per il calcio professionistico: i casi di positività si moltiplicano semplicemente perché svolgendo quella particolare attività è impossibile evitare di respirare in modo forzato, è impossibile evitare di emettere droplet, è impossibile usare una mascherina.

Allo stesso modo abbiamo visto coinvolti in questi eventi di superdiffusione gli ospedali, le residenze per anziani o i circoli ricreativi dove l’aggregazione tra anziani era particolarmente evidente, i mezzi di trasporto. E in ambito lavorativo sono stati particolarmente colpiti gli impianti di lavorazione delle carni (con il caso più importante riscontrato in Germania, ma con esempi in tutti i principali Paesi) dove lo stretto contatto tra gli addetti, in ambiente freddo e umido ha favorito la diffusione del contagio.

In conclusione

Consapevoli del ruolo dei superdiffusori, e del progredire soprattutto per cluster del Sars-CoV-2, dobbiamo cercare di bloccare la frequentazione degli ambienti dove queste manifestazioni trovano terreno fertile. Dobbiamo, insomma, avere una visione d’insieme. Smettere con la strenua difesa del proprio ambito particolare e guardare al complesso dell’epidemia. Dal punto di vista del singolo significa evitare i luoghi dove siamo costretti ad avvicinarci alle altre persone, a mantenere il contatto per un tempo prolungato, a parlare ad alta voce, a urlare, a cantare, ad abbassare la mascherina di protezione.

Mai, anche indossando la mascherina, avvicinarsi al viso di qualcuno per parlare e farsi sentire meglio. Mai considerare la mascherina uno scafandro, e poi restare a stretto contatto con il nostro vicino. Per i decisori vale l’invito ad avere una visione d’insieme: avere come primo obiettivo difendere il proprio campo di azione, come se il virus corresse solo altrove, non fa altro che facilitare la corsa del contagio. Che invece si può controllare: come stanno dimostrando i Paesi asiatici, non solo la Cina che usa metodi impraticabili in democrazia.

Occorre agire in anticipo e concentrarsi sulle interazioni tra attività e persone, e quindi sugli ambienti che favoriscono queste interazioni.Sempre restando all’Asia un esempio viene dal Giappone, dove è possibile frequentare i parchi pubblici, ma è vietato urlare. Dove i tifosi vanno allo stadio, ma è obbligatorio restare in silenzio. Dove nelle metropolitane è proibito parlare, anche indossando la mascherina. Il risultato di questo approccio? Secondo gli ultimi dati dell’Oms (Weekly epidemiological update del 27 ottobre) il Giappone ha riportato 3.878 nuovi casi nella settimana tra il 18 e il 24 ottobre, mentre da inizio epidemia l’incidenza è di 771 casi per milione di abitanti (8.977 in Italia) con un totale di 1.725 decessi.

E nell’intero Sud Est asiatico, dove l’esperienza passata con la Sars del 2003 ha indotto risposte e piani pandemici molto simili, si osserva un crescente declino dell’infezione (-13% sulla rilevazione precedente) che dura ormai da cinque settimane e che ha mostrato una parallela riduzione dei decessi (-16% nella settimana di rilevazione chiusa il 25 ottobre).

Stesso andamento nella zona del Pacifico Occidentale, con una riduzione del 4% dei nuovi casi e del 6% dei decessi. Certo, per fare come in Giappone occorrono non solo regole precise al posto dei consigli, ma anche capacità e strumenti per farle rispettare. Difficile, ma sembra la strada più giusta per fermare il Sars-CoV-2.

 

Fonte24+ de IlSole24Ore