NIPT: lo screening prenatale in un prelievo di sangue. Vaccari (Fnopo): «Per le sindromi di Down, Edwards e Patau attendibile al 99%»

Articolo del 23 Febbraio 2021

Sapere se il bambino che si porta in grembo è affetto da anomalie cromosomiche, come la sindrome di Down, Patau o Edwards, senza esporsi ai rischi della villocentesi o dell’amniocetesi, è possibile.

E in Emilia Romagna non è nemmeno un lusso riservato a pochi. Grazie ad un progetto regionale, infatti, tutte le donne in gravidanza, che rientrano nei parametri di eleggibilità previsti dalla sperimentazione, possono sottoporsi gratuitamente al NIPT (Non Invasive Prenatal Testing), in combinazione con il Bitest, già previsto tra gli screening a carico del Sistema Sanitario Regionale.

Che cos’è il NIPT

«Il NIPT si effettua attraverso un semplice prelievo di sangue – spiega Silvia Vaccari, vicepresidente FNOPO, la Federazione Nazionale Ordini Ostetriche – dal cui campione viene isolato il Dna libero fetale circolante nel sangue materno. Analizzandolo è possibile valutare il rischio di anomalie cromosomiche come le trisomie 13-18 e 21 (rispettivamente sindrome di Patau, Edwards e Down) con un’attendibilità di circa il 99%. I risultati sono generalmente disponibili entro 4-7 giorni».

NIPT e Bitest a confronto

Il NIPT supera il Bitest, per affidabilità: «Il Bitest – sottolinea Vaccari – ha un’attendibilità che si aggira tra il 90 e il 93%. Questo test, oltre al prelievo di sangue materno, prevede un’ecografia esterna detta “traslucenza nucale”, che va a misurare lo spessore di una raccolta di liquido che si trova sotto al collo fetale, cioè la distanza tra la cute della nuca e l’osso occipitale del cranio. Se questo valore risulta alterato sarà possibile sospettare un’anomalia fetale». Entrambi i test prenatali non invasivi permettono di conoscere il sesso del nascituro e vanno effettuati intorno alla decima settimana di gestazione.

Villocentesi e amniocentesi, i rischi

Se i risultati del NIPT dovessero rilevare la presenza di un’anomalia cromosomica, sarà necessario procedere ad un esame invasivo, come la villocentesi o l’amniocentesi, per escludere un falso positivo.

«Durante una villocentesi, sulla base delle prove ad oggi disponibili – dice la vicepresidente Fnopo -, il rischio di aborto si considera compreso tra l’1-2%. Il rischio di infezioni uterine è inferiore a 1 ogni mille donne (dati del 2019). I pericoli collegati all’amniocentesi, invece, sono dovuti all’interruzione spontanea di gravidanza: il rischio di aborto collegato all’esecuzione dell’amniocentesi è attualmente al di sotto dello 0.5 % e nei Centri dove si effettuano almeno 500 procedure all’anno è di circa 0.03 % e, cioè, addirittura inferiore al rischio di abortività naturale di chi non la esegue (dati 2020)».

Se il NIPT è positivo

Ovviamente il NIPT non può considerarsi un sostituivo delle indagini invasive, come la villocentesi o l’amniocentesi, per chi voglia indagare un numero maggiore di patologie. Sarà la donna, attraverso un counseling adeguato con ginecologa e ostetrica, a valutare i rischi e i benefici tra un esame invasivo che offre più risposte, ma non è scevro di rischi, e un screening che indaga solo le principali anomalie, garantendo estrema sicurezza alla mamma ed al suo bambino.

Gli obiettivi del progetto dell’Emilia Romagna

Le donne residenti in Emilia Romagna che sceglieranno la seconda opzione, ovvero di sottoporsi al NIPT, potranno entrare a far parte del progetto regionale. «Si tratta di uno studio di fattibilità che intende confermare che l’attendibilità del NIPT sia realmente pari al 99%. E se i risultati, come crediamo che siano – sottolinea Vaccari -,  saranno positivi, si valuteranno non solo i rischi e i benefici per la donna e per il suo bambino, ma anche l’eventuale risparmio per il Sistema Sanitario Regionale, generato dalla riduzione del numero di esami invasivi, come villocentesi e amniocentesi. Il progetto avrà la durata di un anno ed ogni quattro mesi sarà tratto un bilancio dei risultati parziali».

Obiettivi futuri

«Se i numeri dovessero confermare le nostre aspettative, tutte più che positive, sarebbe auspicabile estendere lo stesso progetto anche ad altre regioni, permettendo così a molte donne di Italia di accedere ad un test che, altrimenti – conclude l’ostetrica -, a causa sei suoi elevati costi in regime privato, sarebbe inaccessibile».

 

Fonte: Sanità Informazione

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